L’economia mondiale al tempo della guerra
di Giuseppe Pennisi

L’economia europea è piatta: le stime dei 20 maggiori istituti econometrici internazionali pongono ad uno striminzito 1,3% il tasso di aumento del pil nei paesi dell’area dell’euro per il 2003. Andrebbe meglio la Gran Bretagna: un buon 2,3%. Ancora meglio gli Usa: un secco 2,5%, sempre che il forte disavanzo della bilancia dei pagamenti (circa 500 miliardi di dollari) non provochi il tracollo del dollaro e lo sconquasso dei mercati. In questo scenario, si inserisce la probabilità della nuova guerra del Golfo. Da qualche settimana, pullulano le stime, principalmente dei centri studi americani. Alcune sono fantasiosamente superottimistiche, quali quelle dell’ex- consigliere speciale di Bush, Lawrence Lindsey: una guerra lampo ad un costo finanziario contenutissimo ma tale da innescare un aumento di 3-5 milioni di barili al giorno il petrolio a disposizione dell’economia mondiale.

Più problematici gli scenari tracciati del Centre for Strategic and International Studies (Csis): i costi finanziari di breve periodo sarebbero quasi esclusivamente a carico degli Usa (tra i 55 ed il 120 miliardi di dollari nel 2003-2004) mentre quelli economici di medio e lungo termine graverebbero in gran misura sui paesi importatori di greggio. Una guerra lunga ed inconcludente porterebbe a 80 dollari al barile le quotazioni del petrolio, mettendo in ginocchio paesi come l’Italia. In quelli di una guerra dei sei mesi-un anno, il greggio si assesterebbe mediamente a 40 dollari al barile; un aumento del 25% della nostra bolletta petrolifera. L’analisi più completa è quella di William Nordhaus dell’Università di Yale. Per i costi diretti ed indiretti del conflitto vero e proprio, numerosi gli scenari elaborati a Yale : da 120 miliardi di dollari (il più ottimista) a 1600 miliardi di dollari (il più pessimista) per l’economia mondiale.

Per l’Italia, più importante delle conseguenze finanziarie sul bilancio dello Stato (comunque contenute), sarà l’aumento del prezzo del greggio dovuto alla guerra che potrebbe implicare la prosecuzione del rallentamento economico ed una crescita del pil non superiore all’1,2-1,5% nel 2003 (nell’ipotesi di un conflitto di circa sei mesi). Una guerra breve e vittoriosa, d’altro canto, potrebbe non solo portare ad una riduzione delle quotazioni del petrolio e dare un scossa positiva alle borse, ma anche stimolare consumi ed investimenti riducendo l’avversione al rischio di famiglie ed imprese. Farebbe, poi, da volano al processo di ricostituzione delle scorte già in atto dall’inizio del 2002 e contribuirebbe ad operare positivamente sulla domanda aggregata.

Il “caso peggiore”, comunque, sarebbe il trascinarsi di una “guerra non guerreggiata” come l’attuale: i pericoli del terrorismo e i timori del conflitto aumentano l’avversione al rischio di famiglie ed imprese, comprimendo consumi ed investimenti. Dalla fine degli anni Sessanta esiste una vera e propria scuola di “economia di lotta al terrorismo”; nasce a Chicago, nella fase della grande ondata di dirottamenti aerei e la guida per diversi lustri William Landes. Poi il pensatoio più importante in materia è divenuto quello dell’Università della California del Sud a Los Angeles, dove lavora Todd Sandler. Grazie ai loro studi sono state introdotte misure che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, hanno fatto crollare il numero dei dirottamenti aerei da 40 l’anno ad uno. Negli anni, tuttavia, c’è stato un “effetto di sostituzione”: si è passati alla presa di ostaggi negli alberghi (l’Intercontinental di Amman) o nelle ambasciate (quella statunitense in Iran), poi ad atti a forte contenuto mediatico (culminati nell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001). La conclusione principale è che l’Europa, abituata a convivere con il terrorismo dall’inizio del secolo scorso, è condannata, su un piano economico, a subire una forte avversione al rischio e bassi tassi d’investimento ogni volta il fenomeno riprende quota.

28 febbraio 2003

gi.pennisi@agora.it
stampa l'articolo