Quante divisioni ha l’Italia?
di Andrea Nativi
Le Forze armate italiane si trovano ad affrontare quella che al tempo
stesso è una sfida ed una grande opportunità. E’ necessaria una
trasformazione ad ampio spettro ed è necessario portarla a termine in
fretta, perché lo scenario sta evolvendo rapidamente, così come i
compiti affidati allo strumento militare e la potenziale minaccia. Di
per sé questo adattamento non è né semplice né indolore né economico, ma
la cosa è più complicata nel nostro caso perché parallelamente occorre
anche completare la professionalizzazione, con la sospensione anticipata
della coscrizione obbligatoria alla fine del 2004, rispetto ad un
progetto iniziale che fissava questo traguardo solo al primo gennaio
2007. Del resto non ci sono alternative, il calo demografico e lo
smantellamento progressivo del servizio di leva a colpi di obiezione di
coscienza e agevolazioni assortite hanno prodotto un vero disastro, con
un crollo verticale del gettito di coscritti, al punto che molti reparti
basati su personale di leva già oggi esistono solo virtuali. Occorre
fare quindi di necessità virtù, tenendo anche conto che quasi tutti i
nostri principali partner hanno già portato a termine questa operazione,
pensiamo a Francia e Spagna, mentre la sola Germania per ragioni
politiche rimane ancorata ad un modello misto, ma chissà per quanto e
comunque con un grado crescente di professionismo.
Prima e dopo l’11 settembre
C’è anche da dire che mentre l’11 settembre non ha messo a nudo alcun
problema che non fosse già perfettamente noto agli addetti ai lavori, è
anche vero che la percezione della minaccia, nuova o nota che fosse, è
di colpo aumentata tra i decisori e si è manifestata anche presso
l’opinione pubblica. E questo ha portato ad un nuovo stimolo a reagire e
ad un rinnovato interesse per le questioni di difesa e sicurezza
propriamente dette (da noi in genere quando si parla di sicurezza ci si
riferisce al poliziotto di quartiere). Peraltro è ben noto che i tempi
di reazione e adattamento delle organizzazioni militari sono lentissimi,
mentre è opportuno non sopravvalutare un fenomeno magari contingente,
imporre svolte radicali e poi trovarsi uno strumento militare inadatto a
rispondere ad una diversa esigenza (il solito principio in base al quale
si rischia di essere pronti… per combattere la guerra precedente). E’
naturale pensare alla riscoperta enfasi sulla Homeland Defense e sulla
lotta ai nuovi fenomeni terroristici. Impostare in modo innovativo le
Forze armate non è cosa che si possa fare in pochi anni, specie se oltre
a compiti ed organizzazione si vogliono anche cambiare mezzi ed
equipaggiamenti. Si può però utilizzare in modo diverso ciò di cui si
dispone, ottimizzare e mutare le strutture e definire nuove priorità per
l’ammodernamento dei mezzi e materiali.
In tutto questo l’Italia ha un piccolo vantaggio: lo shock dell’11
settembre non è stato ancora completamente metabolizzato, non negli Usa,
dove la Quadriennal Defense Review pubblicata relativamente recentemente
è già oggetto di un sostanziale “aggiustamento”; non in Gran Bretagna
dove la Strategic Defense Review viene riorientata con un “New Chapter”
sul quale addirittura il ministero ha aperto un pubblico dibattito
chiedendo opinioni, proposte e commenti agli stessi cittadini, anche via
Internet (mica male come idea ed esempio di democrazia e coinvolgimento
diretto della popolazione nei problemi della difesa nazionale), non in
sede europea dove ancora deve passare l’allargamento dei “compiti di
Petersberg” ad includere la lotta al terrorismo; non in quella Nato,
dove il Nuovo Concetto Strategico del 1999 ha bisogno di nuove
precisazioni. Il recentissimo vertice di Praga ha anche portato a
definire meglio quali sono le reali priorità per l’Alleanza, anche in
termini di capacità da acquisire per colmare la distanza nei confronti
degli Usa, rivedendo, in chiave riduttiva, le ambizioni che avevano
portato a compilare un “libro dei sogni” nel quadro della Dci (Defense
Capabilities Initiatiative).
Nuovo ruolo e nuove esigenze militari dell’Italia
Questo vuol dire che tutti stanno ancora definendo ruoli, missioni,
organizzazione, mezzi. Noi, che abbiamo in buona parte “dimenticato”,
per mancanza di soldi, ma anche per incapacità di spendere bene il poco
disponibile, la fase di trasformazione intermedia post guerra del Golfo
e post Kosovo, ora possiamo puntare direttamente a questo nuovo
traguardo. Ma il balzo da compiere è comunque molto più lungo di quello
che debbono compiere i nostri alleati. La fotografia attuale delle
nostre Forze armate presenta ad un tempo luci ed ombre. In un certo
senso c’è da stupirsi che si riesca a fare così tanto con così poco ed
in modo più che onorevole, come ci viene riconosciuto, talvolta a
malincuore, in sede Nato ed europea, come dimostra tra l’altro
l’assegnazione a comandanti italiani di responsabilità significative,
come il comando della Kfor in Kosovo (ed è la seconda volta) e
soprattutto la reputazione guadagnata combattendo nei cieli della ex
Jugoslavia. Tra l’altro il comportamento lusinghiero dei nostri militari
ha portato ad una rivalutazione del ruolo italiano sulla scena
internazionale, consentendoci di sedere con pari dignità nei principali
consessi, dal G7/G8, alla Nato, all’Eu ed al suo nascente braccio
militare. Che poi molte occasioni propizie per valorizzare e sfruttare
quanto viene fatto vadano perdute perché il sistema-Paese non riesce a
muoversi in modo adeguato, come accade ad esempio nei Balcani, è un
altro discorso.
Gli impegni sono moltissimi, nazionali ed internazionali, in qualche
caso sono molto pesanti e richiedono alla struttura ed al personale uno
sforzo molto considerevole. Le sole attività operative all’estero vedono
mediamente in attività dagli 8.500 ai 10.000 uomini. Tenendo conto che
il personale di leva (chissà perché) non può essere impiegato
all’estero, nemmeno in compiti di seconda linea, questo vuol dire che i
soli volontari/professionisti sono sottoposti ad un tasso di utilizzo
elevatissimo, superiore a quello che mediamente si riscontra presso
Paesi con Forze armate professionali. Normalmente si considera che per
ogni soldato in linea ce ne siano 3/4 in patria in attività di
ricondizionamento, addestramento, preparazione specifica per la nuova
missione. Anche dal punto di vista logistico l’onere è notevole, non
tanto per le operazioni nei Balcani, che si svolgono un po’ nel cortile
di casa, viste le distanze in gioco, quanto quelle in Afghanistan o in
Africa. Anche nel campo dei materiali e degli equipaggiamenti il
miglioramento è stato più che notevole in moltissimi settori e presenta
qualche nicchia di eccellenza a livello internazionale, mentre alcune
delle carenze più gravi sono state faticosamente corrette e diversi
programmi di ammodernamento stanno dando i primi frutti dopo anni di
investimenti.
I lineamenti del modello di Difesa
Tutto questo è sicuramente positivo e sarebbe stato semplicemente
impossibile anche soltanto una dozzina d’anni fa. E’ facile ricordare in
quali ambasce ci si trovò quando si dovette inviare nel Golfo una forza
combattente, solo aeronavale, per partecipare a Desert Storm. Ci sono
però anche aspetti negativi. La prima considerazione riguarda il fatto
che l’Italia sta spendendo il “capitale” accumulato faticosamente in
passato sottoponendo i mezzi ad un uso molto intenso che li sottopone ad
un logoramento anticipato, senza che sia possibile sostituirli, perché i
provvedimenti del Parlamento che di volta in volta finanziano le
missioni coprono i costi vivi, gli stipendi, ma non tengono conto
dell’ammortamento di mezzi e materiali e neanche del dispendio di
munizionamento pregiato e costoso. In tutti gli altri Paesi al termine
di una guerra come quella del Golfo o quella del Kosovo si provvede al
reintegro di scorte e mezzi con provvedimenti ad hoc, in Italia no. E il
risultato è sotto gli occhi di tutti: l’efficienza media dei reparti e
dei sistemi d’arma precipita, i costi di manutenzione aumentano, le
scorte di parti di ricambio e munizioni sono insufficienti. La Marina ad
esempio è a mal partito ed ha dovuto tagliare drasticamente gli impegni
operativi, come conferma il fatto che il contributo in Enduring Freedom,
dopo la “fiammata” iniziale con l’impiego della Garibaldi, si è ora
ridotto ad una sola fregata. Quelle che stanno entrando in servizio oggi
sono unità di seconda linea, che certo non sostituiscono le unità di
squadra che possono tirare avanti solo se usate con cautela e sottoposte
a costosi programmi di estensione della vita. L’Aeronautica non è certo
messa meglio, come confermano le valutazioni negative espresse in sede
Nato e in attesa dei nuovi aerei ricorre al noleggio dell’usato altrui.
L’Esercito per fortuna impiega prevalentemente mezzi “leggeri” e
ruotati, ma buona parte di questi veicoli è in condizione disastrosa,
mentre si spende molto per adottare un equipaggiamento in linea con la
dotazione degli altri eserciti professionali (qualcosa di molto diverso
da quanto risulta accettabile per un soldato di leva impiegato in
patria). Non ci sono poi le risorse per procedere all’ammodernamento di
molti dei sistemi più costosi e sofisticati.
Vivere al di sopra delle nostre possibilità
In pratica l’Italia della difesa sta vivendo molto al di sopra di quelle
che sono le sue effettive possibilità. E di questo all’estero ne sono
tutti perfettamente consci. I “soliti” noti ed i pochi reparti
qualitativamente impiegabili in un contesto alleato (perché oggi o si è
all’altezza degli altri, per capacità e qualità, o si resta a casa) sono
spremuti al massimo, troppo. Gli stessi alleati poi non disposti ad
accettare i “bluff” italiani, che del resto non reggono quando ci si
deve sottoporre a reali valutazioni in base a standard comuni concordati
e rigorosamente applicati. Ad esempio, non è un mistero che l’Italia
abbia fatto promesse eccessive per poter aver un ruolo identico a quello
di Francia, Gran Bretagna e Germania nella nascente forza di reazione
rapida europea, che in teoria dovrebbe essere operativa già il prossimo
anno.
Tutti questi nodi arriveranno drammaticamente al pettine se l’Italia
dovrà essere coinvolta in una vera e propria operazione di guerra su
vasta scala. Perché un conto sono le operazioni di pace, con un livello
di rischio variabile, altro sono quelle di guerra o peace enforcing che
dir si voglia. Cosa succede se qualcuno ci chiede davvero di mantenere
gli impegni sottoscritti e non si tratta più di svolgere compiti di
guarnigione nei Balcani, ma di andare in battaglia? Negli ultimi lustri
è stata l’Aeronautica la Forza armata che più pesantemente è stata
impegnata in operazioni di combattimento vere e proprie e ne ha tratto
salutari lezioni e disillusioni, l’Esercito, se si escludono gli
imprevisti episodi somali, non è stato coinvolto, la Marina solo in
parte. A sparare e a sfidare il fuoco nemico sono stati quindi
pochissimi, così come sono state poche, per fortuna, le perdite subìte.
Ma ora il clima è cambiato e dalla stagione delle operazioni di pace si
passa a quella della guerra vera e propria, sia pure etichettata come
guerra al terrorismo. La differenza in termini di capacità richieste,
costi e impatto psicologico morale, sui militari, ma soprattutto
sull’opinione pubblica, sarà notevole, proprio perché si è sempre
pensato che queste cose non ci riguardino più di tanto. Una prima prova
arriverà con l’impiego dei nostri soldati in operazioni di combattimento
in Afghanistan, dal quale non ci si può esimere.
L’Italia ha alle armi, escludendo i Carabinieri, circa 250.000 militari,
dei quali circa 87.000 dovrebbero essere quelli di leva. La ripartizione
è quella tradizionale, con l’Esercito che pesa per circa il 61 per cento
del totale, la Aeronautica con il 23 per cento e la Marina con il 16 per
cento. A questi si aggiungono 42.000 civili. Questi numeri sono coerenti
con un modello “misto”, che affianca un numero crescente di volontari e
professionisti ad un contingente di leva che continua a ridursi ed in
realtà è già molto vicino a scomparire. Il traguardo al quale si vuole
pervenire in poco più di due anni è quello di una forza complessiva di
190.000 elementi, tutti volontari e professionisti (22.000 ufficiali,
64.000 sottufficiali e 104.000 volontari di truppa), ripartiti chissà
perché ancora secondo i criteri tradizionali, con 112.000 elementi per
l’Esercito, 44.000 per l’Aeronautica e 34.000 per la Marina. Peraltro
queste cifre non sono definitive e dovrebbero essere oggetto di
aggiustamenti. I civili invece saranno 43.000.
Il governo e la politica di sicurezza
Rispetto al progetto approvato nella scorsa legislatura, l’attuale
governo ha deciso ad un tempo una marcata accelerazione, una serie di
modifiche, anche non marginali e soprattutto sembra intenzionato a
riappropriarsi di quelle competenze naturali in tema di definizione
della politica di sicurezza che per decenni in Italia sono state
totalmente trascurate, lasciando le Forze armate ad una sorta di
autogoverno, che rendeva più facile digerire la bassa priorità accordata
al settore e la dieta forzata per quanto concerne i finanziamenti. Ora
si vuole cambiare pagina, come dimostra non tanto il “Libro bianco”, con
carattere essenzialmente ricognitivo, quanto la Direttiva ministeriale,
da cui discendono i “Lineamenti del nuovo modello di difesa”
(faticosamente) approntati a fine ottobre dallo stato maggiore Difesa e,
in prospettiva, si spera di breve termine, un nuovo modello vero e
proprio ed una serie di decreti legislativi delegati. Entro il termine
della legislatura è inutile aspettarsi miracoli, ma c’è tempo per
impostare e portare avanti un progetto organico che il disinteresse del
passato e la caducità cronica dei governi in passato hanno reso
impossibili. A questo si accompagna anche l’entrata a regime della
riforma avviata negli scorsi anni nel senso di superare le
contrapposizioni tra Forze armate, privilegiando i due “poli”, stato
maggiore Difesa per la parte operativa e Dna/Segredifesa per quella,
lato senso logistica. I veti contrapposti, le “torte” divise secondo
percentuali immutabili, i bilanci separati appartengono al passato. Si
potrà così superare un pernicioso immobilismo e adottare una moderna ed
unitaria concezione dello strumento complessivo, che, tanto per fare un
esempio, consentirà di determinare in modo ragionato le priorità di
spesa nell’ammodernamento o di costituire quel comando interforze per le
operazioni speciali ed una brigata anfibia che altrove sono già
consolidati da anni.
Le idee ci sono e vengono meglio precisate attraverso il processo di
maturazione e riflessione in atto a livello internazionale, al quale
anche l’Italia contribuisce fattivamente sul piano tecnico e politico.
Visto che la minaccia si può manifestare in forme diverse e provenire da
ogni direzione, anche dall’interno (terrorismo), mentre nel medio
lungo-termine non si può escludere il ripresentarsi un “competitor” più
speculare e convenzionale, è prudente costituire uno strumento
caratterizzato dalla massima flessibilità, con l’attenzione per la
difesa del territorio che non si traduce certo nell’abbandono delle
esigenze di proiezione di potenza all’estero, anche a grande distanza e
per lungo tempo. Anzi, la nuova dottrina “all’israeliana” sposata dagli
Usa e recepita in Europa (e di cui l’Italia è ben conscia, basta leggere
alcuni recenti discorsi del ministro e del Capo di stato maggiore
Difesa) che sposa l’intervento offensivo preventivo per “eliminare”
problemi, minacce o potenziali crisi prima che si manifestino
apertamente, fa perno proprio sulla capacità di proiezione e implica
anche un grado di prontezza molto più elevato. Difesa domestica poi non
vuol dire impiego delle Forze armate per il controllo del territorio in
chiave antiterroristica, cosa che può essere affidato ai servizi di
sicurezza ed alle ipertrofiche forze di Polizia, quanto la
sorveglianza/difesa degli spazi aeromarittimi, eventualmente difesa
antimissile e contributi specializzati (ad esempio per la difesa Nbc).
Insomma, tutto tranne un esercito domestico e polverizzato sul
territorio, stile ottocentesco.
I nuovi riferimenti politico-strategici
I problemi principali che si devono fronteggiare sono sostanzialmente
due: il personale e le risorse finanziarie. Il primo aspetto è
probabilmente quello più critico, perché il contesto nazionale,
culturale, storico, politico, non fornisce certo l’humus ideale per
permettere il successo di un sistema di reclutamento basato sui
volontari. Non abbiamo la tradizione del “mestiere delle armi” e
nonostante il tasso di disoccupazione, che resta elevato a dispetto
della ripresa economica “alle porte”, il mestiere delle armi attira
poco, non è competitivo e spesso viene erroneamente percepito come una
forma di impiego statale come un altro. Tra l’altro non si tratta “solo”
di sostituire 87.000 soldati di leva con altri 27.000 volontari, quando
di rimpiazzare anche buona parte dei soldati di professione della
precedente generazione con personale di tipo completamente diverso e al
quale saranno richieste cose e capacità. Secondo gli schemi attuali il
“turnover” potrebbe essere completato solo nel giro di due decenni, ma
questo è evidentemente inaccettabile. Lo stesso tipo di rapporto di
impiego cambierà, perché un esercito efficiente è un esercito giovane e
servono quindi una serie di meccanismi per assicurare un “dopo” a chi ha
svolto con successo una ferma nelle Forze armate. Una legge che permetta
l’accesso alle forze di Polizia solo a chi ha servito con le Forze
armate, per quanto osteggiata da potenti lobbies, è forse l’unico
strumento per evitare che si manifesti una drammatica crisi di
vocazioni. Peraltro anche Forze armate tradizionalmente professionali,
come quelle britanniche, sono quasi sempre al di sotto degli organici
tabellari, ma riescono a supplire sia impiegando riservisti e forze
territoriali, sia limitando gli impegni. Il comparto delle forze di
riserva o guardia nazionale da noi è ancora tutto da inventare. Anche il
ruolo e la tipologia professionale del personale civile dipendente dalla
difesa deve essere trasformato, mentre il numero di dipendenti
ipotizzato nel progetto di riferimento appare molto inferiore a quello
che deriverebbe applicando i rapporti militari:civili che si riscontrano
nei Paesi dove le Forze armate professionali sono già una realtà.
Un migliore impiego del personale militare. E i
suoi costi
La riforma proposta prevede poi di impiegare al meglio personale
militare che sarà più “educato”, meglio pagato, alloggiato ed
equipaggiato: più denti e meno coda, i soldati vanno in azione, non
dietro una scrivania, esternalizzazione di tutti i compiti e delle
funzioni che non richiedono necessariamente di essere svolti da
personale in divisa, soluzioni interforze per ridurre le strutture ed i
comandi inutili, snellimento di quella organizzazione territoriale che
rimane pletorica, costosa e ingiustificabile, chiusura di reparti e basi
ormai inutili o svuotati e così via. Facile a dirsi, difficile a
realizzarsi, anche perché in Italia le caserme e le basi non sono amate,
tranne quando se ne prospetta la chiusura e le comunità e i politici
locali realizzano il danno economico che ne conseguirebbe, con seguito
di interrogazioni “trasversali” e raccolte di firme.
Tutto questo però costa, costa moltissimo. Inutile dire che la legge 331
che ha approvato la professionalizzazione delle Forze armate ha, come
consuetudine, completamente sottovalutato i costi diretti indiretti:
stipendi, certo, ma anche alloggi ed infrastrutture, equipaggiamento,
formazione ed addestramento. In tutto il mondo un esercito professionale
costa enormemente di più di uno basato su coscritti e, naturalmente,
esprime una capacità operativa del tutto diversa. La questione è
spinosa, perché le Forze armate italiane sono da sempre
sottocapitalizzate, il bilancio della difesa rappresenta meno dell’1,46
per cento del prodotto interno lordo, una percentuale inferiore alla
media Nato e decisamente lontana dalle percentuali che si riscontrano in
Paesi quali Gran Bretagna e Francia o persino Germania. Per di più il
bilancio della difesa italiano è un omnibus dove si trova un po’ di
tutto, dalle pensioni, alle famigerate “funzioni esterne”, ai fondi per
i Carabinieri. Depurata dai fronzoli, la spesa per la “funzione Difesa”
propriamente detta scende all’1 per cento del Pil e questo anche senza
considerare che il Pil tedesco o quello degli altri “grandi” è
decisamente superiore a quello italiano. In soldoni questo 1 per cento
si traduce nel 2002 in 13,5 miliardi di euro.
Questa situazione non è certo una novità, sono decenni che la Difesa
riceve meno di quanto sarebbe indispensabile ed il risultato non può che
essere un progressivo ampliamento del gap di capacità che ci separa
dagli Alleati. Per di più, dato che sugli stipendi non si può
risparmiare e visto che ridurre manutenzione, addestramento e scorte è
pericoloso, si finisce per sacrificare la spesa per investimenti, che in
teoria non dovrebbe essere inferiore al 30 per cento del totale. Per
l’anno in corso, tra ammodernamento e ricerca e sviluppo il bilancio
prevede 3,3 miliardi di euro, quando lo stesso ministero ammette che ne
servirebbero “almeno” 4,6 miliardi/anno, solo per evitare un nuovo
scollamento rispetto ai primi della classe. Bisogna peraltro riconoscere
che la Difesa può anche beneficiare, almeno in parte, dei fondi del Map
stanziati in favore dell’industria aerospaziale e della Difesa e di
quelli del ministero della Ricerca scientifica/Istruzione, che peraltro
avrebbero un impatto più significativo se fossero spesi sulla base di
una pianificazione interministeriali che rispondesse agli interessi
effettivi del Paese: gli stanziamenti a pioggia e senza rispetto delle
priorità effettive in passato hanno creato più danni che vantaggi.
Ora il Dpef prevede ufficialmente come obiettivo l’incremento della
spesa per la “funzione Difesa” vera e propria all’1,5 per cento del Pil,
il che vorrebbe dire, a valori 2002, un aumento di oltre 6,7 miliardi di
euro, ma non è la prima volta che si ascolta questo discorso, anche in
tempi recenti. E’ stato anche prospettato un intervento straordinario
“tappabuchi” una tantum nell’ordine dei 7,5 miliardi di euro in 10/15
anni. Però, se il buongiorno si vede dal mattino, dobbiamo constatare
che il progetto di bilancio 2003 riflette la realtà di una congiuntura
economica sfavorevole e l’obiettivo realistico è quello di difendere i
livelli già raggiunti. E non si sono visti neanche interventi
straordinari “post 11 settembre” che Usa, Gran Bretagna, Francia ed
altri Paesi europei “virtuosi” hanno già varato ed in buona misura
stanno realizzando. Se questo è il contesto oggettivo, sembra necessario
un atto di coraggio: una stima realistica di quello che il Paese può e
potrà spendere per la Difesa e su questa base determinarne la
consistenza (ovvero un procedimento inverso rispetto a quello corretto:
definire esigenze, stabilire come soddisfarle e quindi provvedere i
soldi necessari). Perché se procediamo sulla strada attuale rischiamo di
avere la solita “hollow force” di mussoliniana memoria, tante baionette
e nient’altro. E non sveliamo un segreto se rileviamo che gli studi
“interni” cominciano a prospettare un calo degli obiettivi di forza da
190.000 ad appena 150.000 unità, con un secco -21 per cento!
Una più efficiente gestione delle risorse
Parallelamente occorre una cura dimagrante per i programmi di
ammodernamento in corso: non ha senso spendere migliaia di miliardi per
sviluppare qualcosa che poi si acquista in pochi esemplari, non è
fondamentale, ma solo nice to have, o solo perché “lo fanno gli altri”.
E se questa revisione la stanno facendo gli Usa che spendono oltre 400
miliardi di dollari all’anno nella Difesa, figuriamoci l’Italia. Meglio
concentrarsi sui fondamentali. Naturalmente tutto questo ha un “costo”
politico-strategico: i modelli di riferimento, almeno per le quantità,
non sono più Gran Bretagna, Francia e Germania, ma piuttosto Spagna o
Olanda. Da questo discenderebbe non solo un drastico ridimensionamento
delle attività all’estero, ma anche del ruolo Nato ed europeo. Ormai la
statura internazionale di un Paese si misura anche con il numero di
divisioni (vere) che può mettere in campo, una retrocessione sarebbe
perciò inevitabile. Mi rendo conto che tutto ciò è difficile da
accettare, e mi auguro davvero che le condizioni economiche consentano
di realizzare tutti gli ambiziosi obiettivi, ma se così non sarà, il
“nuovo modello” dovrebbe prenderne onestamente atto, perché nel nuovo
contesto barare è molto pericoloso, la realtà si svela non in una parata
o in una delle vecchie e care esercitazioni “vasetto”, ma su un campo di
battaglia.
28 febbraio 2003
(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre) |