Quante divisioni ha l’Italia?
di Andrea Nativi

Le Forze armate italiane si trovano ad affrontare quella che al tempo stesso è una sfida ed una grande opportunità. E’ necessaria una trasformazione ad ampio spettro ed è necessario portarla a termine in fretta, perché lo scenario sta evolvendo rapidamente, così come i compiti affidati allo strumento militare e la potenziale minaccia. Di per sé questo adattamento non è né semplice né indolore né economico, ma la cosa è più complicata nel nostro caso perché parallelamente occorre anche completare la professionalizzazione, con la sospensione anticipata della coscrizione obbligatoria alla fine del 2004, rispetto ad un progetto iniziale che fissava questo traguardo solo al primo gennaio 2007. Del resto non ci sono alternative, il calo demografico e lo smantellamento progressivo del servizio di leva a colpi di obiezione di coscienza e agevolazioni assortite hanno prodotto un vero disastro, con un crollo verticale del gettito di coscritti, al punto che molti reparti basati su personale di leva già oggi esistono solo virtuali. Occorre fare quindi di necessità virtù, tenendo anche conto che quasi tutti i nostri principali partner hanno già portato a termine questa operazione, pensiamo a Francia e Spagna, mentre la sola Germania per ragioni politiche rimane ancorata ad un modello misto, ma chissà per quanto e comunque con un grado crescente di professionismo.

Prima e dopo l’11 settembre

C’è anche da dire che mentre l’11 settembre non ha messo a nudo alcun problema che non fosse già perfettamente noto agli addetti ai lavori, è anche vero che la percezione della minaccia, nuova o nota che fosse, è di colpo aumentata tra i decisori e si è manifestata anche presso l’opinione pubblica. E questo ha portato ad un nuovo stimolo a reagire e ad un rinnovato interesse per le questioni di difesa e sicurezza propriamente dette (da noi in genere quando si parla di sicurezza ci si riferisce al poliziotto di quartiere). Peraltro è ben noto che i tempi di reazione e adattamento delle organizzazioni militari sono lentissimi, mentre è opportuno non sopravvalutare un fenomeno magari contingente, imporre svolte radicali e poi trovarsi uno strumento militare inadatto a rispondere ad una diversa esigenza (il solito principio in base al quale si rischia di essere pronti… per combattere la guerra precedente). E’ naturale pensare alla riscoperta enfasi sulla Homeland Defense e sulla lotta ai nuovi fenomeni terroristici. Impostare in modo innovativo le Forze armate non è cosa che si possa fare in pochi anni, specie se oltre a compiti ed organizzazione si vogliono anche cambiare mezzi ed equipaggiamenti. Si può però utilizzare in modo diverso ciò di cui si dispone, ottimizzare e mutare le strutture e definire nuove priorità per l’ammodernamento dei mezzi e materiali.

In tutto questo l’Italia ha un piccolo vantaggio: lo shock dell’11 settembre non è stato ancora completamente metabolizzato, non negli Usa, dove la Quadriennal Defense Review pubblicata relativamente recentemente è già oggetto di un sostanziale “aggiustamento”; non in Gran Bretagna dove la Strategic Defense Review viene riorientata con un “New Chapter” sul quale addirittura il ministero ha aperto un pubblico dibattito chiedendo opinioni, proposte e commenti agli stessi cittadini, anche via Internet (mica male come idea ed esempio di democrazia e coinvolgimento diretto della popolazione nei problemi della difesa nazionale), non in sede europea dove ancora deve passare l’allargamento dei “compiti di Petersberg” ad includere la lotta al terrorismo; non in quella Nato, dove il Nuovo Concetto Strategico del 1999 ha bisogno di nuove precisazioni. Il recentissimo vertice di Praga ha anche portato a definire meglio quali sono le reali priorità per l’Alleanza, anche in termini di capacità da acquisire per colmare la distanza nei confronti degli Usa, rivedendo, in chiave riduttiva, le ambizioni che avevano portato a compilare un “libro dei sogni” nel quadro della Dci (Defense Capabilities Initiatiative).

Nuovo ruolo e nuove esigenze militari dell’Italia

Questo vuol dire che tutti stanno ancora definendo ruoli, missioni, organizzazione, mezzi. Noi, che abbiamo in buona parte “dimenticato”, per mancanza di soldi, ma anche per incapacità di spendere bene il poco disponibile, la fase di trasformazione intermedia post guerra del Golfo e post Kosovo, ora possiamo puntare direttamente a questo nuovo traguardo. Ma il balzo da compiere è comunque molto più lungo di quello che debbono compiere i nostri alleati. La fotografia attuale delle nostre Forze armate presenta ad un tempo luci ed ombre. In un certo senso c’è da stupirsi che si riesca a fare così tanto con così poco ed in modo più che onorevole, come ci viene riconosciuto, talvolta a malincuore, in sede Nato ed europea, come dimostra tra l’altro l’assegnazione a comandanti italiani di responsabilità significative, come il comando della Kfor in Kosovo (ed è la seconda volta) e soprattutto la reputazione guadagnata combattendo nei cieli della ex Jugoslavia. Tra l’altro il comportamento lusinghiero dei nostri militari ha portato ad una rivalutazione del ruolo italiano sulla scena internazionale, consentendoci di sedere con pari dignità nei principali consessi, dal G7/G8, alla Nato, all’Eu ed al suo nascente braccio militare. Che poi molte occasioni propizie per valorizzare e sfruttare quanto viene fatto vadano perdute perché il sistema-Paese non riesce a muoversi in modo adeguato, come accade ad esempio nei Balcani, è un altro discorso.

Gli impegni sono moltissimi, nazionali ed internazionali, in qualche caso sono molto pesanti e richiedono alla struttura ed al personale uno sforzo molto considerevole. Le sole attività operative all’estero vedono mediamente in attività dagli 8.500 ai 10.000 uomini. Tenendo conto che il personale di leva (chissà perché) non può essere impiegato all’estero, nemmeno in compiti di seconda linea, questo vuol dire che i soli volontari/professionisti sono sottoposti ad un tasso di utilizzo elevatissimo, superiore a quello che mediamente si riscontra presso Paesi con Forze armate professionali. Normalmente si considera che per ogni soldato in linea ce ne siano 3/4 in patria in attività di ricondizionamento, addestramento, preparazione specifica per la nuova missione. Anche dal punto di vista logistico l’onere è notevole, non tanto per le operazioni nei Balcani, che si svolgono un po’ nel cortile di casa, viste le distanze in gioco, quanto quelle in Afghanistan o in Africa. Anche nel campo dei materiali e degli equipaggiamenti il miglioramento è stato più che notevole in moltissimi settori e presenta qualche nicchia di eccellenza a livello internazionale, mentre alcune delle carenze più gravi sono state faticosamente corrette e diversi programmi di ammodernamento stanno dando i primi frutti dopo anni di investimenti.

I lineamenti del modello di Difesa

Tutto questo è sicuramente positivo e sarebbe stato semplicemente impossibile anche soltanto una dozzina d’anni fa. E’ facile ricordare in quali ambasce ci si trovò quando si dovette inviare nel Golfo una forza combattente, solo aeronavale, per partecipare a Desert Storm. Ci sono però anche aspetti negativi. La prima considerazione riguarda il fatto che l’Italia sta spendendo il “capitale” accumulato faticosamente in passato sottoponendo i mezzi ad un uso molto intenso che li sottopone ad un logoramento anticipato, senza che sia possibile sostituirli, perché i provvedimenti del Parlamento che di volta in volta finanziano le missioni coprono i costi vivi, gli stipendi, ma non tengono conto dell’ammortamento di mezzi e materiali e neanche del dispendio di munizionamento pregiato e costoso. In tutti gli altri Paesi al termine di una guerra come quella del Golfo o quella del Kosovo si provvede al reintegro di scorte e mezzi con provvedimenti ad hoc, in Italia no. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’efficienza media dei reparti e dei sistemi d’arma precipita, i costi di manutenzione aumentano, le scorte di parti di ricambio e munizioni sono insufficienti. La Marina ad esempio è a mal partito ed ha dovuto tagliare drasticamente gli impegni operativi, come conferma il fatto che il contributo in Enduring Freedom, dopo la “fiammata” iniziale con l’impiego della Garibaldi, si è ora ridotto ad una sola fregata. Quelle che stanno entrando in servizio oggi sono unità di seconda linea, che certo non sostituiscono le unità di squadra che possono tirare avanti solo se usate con cautela e sottoposte a costosi programmi di estensione della vita. L’Aeronautica non è certo messa meglio, come confermano le valutazioni negative espresse in sede Nato e in attesa dei nuovi aerei ricorre al noleggio dell’usato altrui. L’Esercito per fortuna impiega prevalentemente mezzi “leggeri” e ruotati, ma buona parte di questi veicoli è in condizione disastrosa, mentre si spende molto per adottare un equipaggiamento in linea con la dotazione degli altri eserciti professionali (qualcosa di molto diverso da quanto risulta accettabile per un soldato di leva impiegato in patria). Non ci sono poi le risorse per procedere all’ammodernamento di molti dei sistemi più costosi e sofisticati.

Vivere al di sopra delle nostre possibilità

In pratica l’Italia della difesa sta vivendo molto al di sopra di quelle che sono le sue effettive possibilità. E di questo all’estero ne sono tutti perfettamente consci. I “soliti” noti ed i pochi reparti qualitativamente impiegabili in un contesto alleato (perché oggi o si è all’altezza degli altri, per capacità e qualità, o si resta a casa) sono spremuti al massimo, troppo. Gli stessi alleati poi non disposti ad accettare i “bluff” italiani, che del resto non reggono quando ci si deve sottoporre a reali valutazioni in base a standard comuni concordati e rigorosamente applicati. Ad esempio, non è un mistero che l’Italia abbia fatto promesse eccessive per poter aver un ruolo identico a quello di Francia, Gran Bretagna e Germania nella nascente forza di reazione rapida europea, che in teoria dovrebbe essere operativa già il prossimo anno.

Tutti questi nodi arriveranno drammaticamente al pettine se l’Italia dovrà essere coinvolta in una vera e propria operazione di guerra su vasta scala. Perché un conto sono le operazioni di pace, con un livello di rischio variabile, altro sono quelle di guerra o peace enforcing che dir si voglia. Cosa succede se qualcuno ci chiede davvero di mantenere gli impegni sottoscritti e non si tratta più di svolgere compiti di guarnigione nei Balcani, ma di andare in battaglia? Negli ultimi lustri è stata l’Aeronautica la Forza armata che più pesantemente è stata impegnata in operazioni di combattimento vere e proprie e ne ha tratto salutari lezioni e disillusioni, l’Esercito, se si escludono gli imprevisti episodi somali, non è stato coinvolto, la Marina solo in parte. A sparare e a sfidare il fuoco nemico sono stati quindi pochissimi, così come sono state poche, per fortuna, le perdite subìte. Ma ora il clima è cambiato e dalla stagione delle operazioni di pace si passa a quella della guerra vera e propria, sia pure etichettata come guerra al terrorismo. La differenza in termini di capacità richieste, costi e impatto psicologico morale, sui militari, ma soprattutto sull’opinione pubblica, sarà notevole, proprio perché si è sempre pensato che queste cose non ci riguardino più di tanto. Una prima prova arriverà con l’impiego dei nostri soldati in operazioni di combattimento in Afghanistan, dal quale non ci si può esimere.

L’Italia ha alle armi, escludendo i Carabinieri, circa 250.000 militari, dei quali circa 87.000 dovrebbero essere quelli di leva. La ripartizione è quella tradizionale, con l’Esercito che pesa per circa il 61 per cento del totale, la Aeronautica con il 23 per cento e la Marina con il 16 per cento. A questi si aggiungono 42.000 civili. Questi numeri sono coerenti con un modello “misto”, che affianca un numero crescente di volontari e professionisti ad un contingente di leva che continua a ridursi ed in realtà è già molto vicino a scomparire. Il traguardo al quale si vuole pervenire in poco più di due anni è quello di una forza complessiva di 190.000 elementi, tutti volontari e professionisti (22.000 ufficiali, 64.000 sottufficiali e 104.000 volontari di truppa), ripartiti chissà perché ancora secondo i criteri tradizionali, con 112.000 elementi per l’Esercito, 44.000 per l’Aeronautica e 34.000 per la Marina. Peraltro queste cifre non sono definitive e dovrebbero essere oggetto di aggiustamenti. I civili invece saranno 43.000.

Il governo e la politica di sicurezza

Rispetto al progetto approvato nella scorsa legislatura, l’attuale governo ha deciso ad un tempo una marcata accelerazione, una serie di modifiche, anche non marginali e soprattutto sembra intenzionato a riappropriarsi di quelle competenze naturali in tema di definizione della politica di sicurezza che per decenni in Italia sono state totalmente trascurate, lasciando le Forze armate ad una sorta di autogoverno, che rendeva più facile digerire la bassa priorità accordata al settore e la dieta forzata per quanto concerne i finanziamenti. Ora si vuole cambiare pagina, come dimostra non tanto il “Libro bianco”, con carattere essenzialmente ricognitivo, quanto la Direttiva ministeriale, da cui discendono i “Lineamenti del nuovo modello di difesa” (faticosamente) approntati a fine ottobre dallo stato maggiore Difesa e, in prospettiva, si spera di breve termine, un nuovo modello vero e proprio ed una serie di decreti legislativi delegati. Entro il termine della legislatura è inutile aspettarsi miracoli, ma c’è tempo per impostare e portare avanti un progetto organico che il disinteresse del passato e la caducità cronica dei governi in passato hanno reso impossibili. A questo si accompagna anche l’entrata a regime della riforma avviata negli scorsi anni nel senso di superare le contrapposizioni tra Forze armate, privilegiando i due “poli”, stato maggiore Difesa per la parte operativa e Dna/Segredifesa per quella, lato senso logistica. I veti contrapposti, le “torte” divise secondo percentuali immutabili, i bilanci separati appartengono al passato. Si potrà così superare un pernicioso immobilismo e adottare una moderna ed unitaria concezione dello strumento complessivo, che, tanto per fare un esempio, consentirà di determinare in modo ragionato le priorità di spesa nell’ammodernamento o di costituire quel comando interforze per le operazioni speciali ed una brigata anfibia che altrove sono già consolidati da anni.

Le idee ci sono e vengono meglio precisate attraverso il processo di maturazione e riflessione in atto a livello internazionale, al quale anche l’Italia contribuisce fattivamente sul piano tecnico e politico. Visto che la minaccia si può manifestare in forme diverse e provenire da ogni direzione, anche dall’interno (terrorismo), mentre nel medio lungo-termine non si può escludere il ripresentarsi un “competitor” più speculare e convenzionale, è prudente costituire uno strumento caratterizzato dalla massima flessibilità, con l’attenzione per la difesa del territorio che non si traduce certo nell’abbandono delle esigenze di proiezione di potenza all’estero, anche a grande distanza e per lungo tempo. Anzi, la nuova dottrina “all’israeliana” sposata dagli Usa e recepita in Europa (e di cui l’Italia è ben conscia, basta leggere alcuni recenti discorsi del ministro e del Capo di stato maggiore Difesa) che sposa l’intervento offensivo preventivo per “eliminare” problemi, minacce o potenziali crisi prima che si manifestino apertamente, fa perno proprio sulla capacità di proiezione e implica anche un grado di prontezza molto più elevato. Difesa domestica poi non vuol dire impiego delle Forze armate per il controllo del territorio in chiave antiterroristica, cosa che può essere affidato ai servizi di sicurezza ed alle ipertrofiche forze di Polizia, quanto la sorveglianza/difesa degli spazi aeromarittimi, eventualmente difesa antimissile e contributi specializzati (ad esempio per la difesa Nbc). Insomma, tutto tranne un esercito domestico e polverizzato sul territorio, stile ottocentesco.

I nuovi riferimenti politico-strategici

I problemi principali che si devono fronteggiare sono sostanzialmente due: il personale e le risorse finanziarie. Il primo aspetto è probabilmente quello più critico, perché il contesto nazionale, culturale, storico, politico, non fornisce certo l’humus ideale per permettere il successo di un sistema di reclutamento basato sui volontari. Non abbiamo la tradizione del “mestiere delle armi” e nonostante il tasso di disoccupazione, che resta elevato a dispetto della ripresa economica “alle porte”, il mestiere delle armi attira poco, non è competitivo e spesso viene erroneamente percepito come una forma di impiego statale come un altro. Tra l’altro non si tratta “solo” di sostituire 87.000 soldati di leva con altri 27.000 volontari, quando di rimpiazzare anche buona parte dei soldati di professione della precedente generazione con personale di tipo completamente diverso e al quale saranno richieste cose e capacità. Secondo gli schemi attuali il “turnover” potrebbe essere completato solo nel giro di due decenni, ma questo è evidentemente inaccettabile. Lo stesso tipo di rapporto di impiego cambierà, perché un esercito efficiente è un esercito giovane e servono quindi una serie di meccanismi per assicurare un “dopo” a chi ha svolto con successo una ferma nelle Forze armate. Una legge che permetta l’accesso alle forze di Polizia solo a chi ha servito con le Forze armate, per quanto osteggiata da potenti lobbies, è forse l’unico strumento per evitare che si manifesti una drammatica crisi di vocazioni. Peraltro anche Forze armate tradizionalmente professionali, come quelle britanniche, sono quasi sempre al di sotto degli organici tabellari, ma riescono a supplire sia impiegando riservisti e forze territoriali, sia limitando gli impegni. Il comparto delle forze di riserva o guardia nazionale da noi è ancora tutto da inventare. Anche il ruolo e la tipologia professionale del personale civile dipendente dalla difesa deve essere trasformato, mentre il numero di dipendenti ipotizzato nel progetto di riferimento appare molto inferiore a quello che deriverebbe applicando i rapporti militari:civili che si riscontrano nei Paesi dove le Forze armate professionali sono già una realtà.

Un migliore impiego del personale militare. E i suoi costi

La riforma proposta prevede poi di impiegare al meglio personale militare che sarà più “educato”, meglio pagato, alloggiato ed equipaggiato: più denti e meno coda, i soldati vanno in azione, non dietro una scrivania, esternalizzazione di tutti i compiti e delle funzioni che non richiedono necessariamente di essere svolti da personale in divisa, soluzioni interforze per ridurre le strutture ed i comandi inutili, snellimento di quella organizzazione territoriale che rimane pletorica, costosa e ingiustificabile, chiusura di reparti e basi ormai inutili o svuotati e così via. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi, anche perché in Italia le caserme e le basi non sono amate, tranne quando se ne prospetta la chiusura e le comunità e i politici locali realizzano il danno economico che ne conseguirebbe, con seguito di interrogazioni “trasversali” e raccolte di firme.

Tutto questo però costa, costa moltissimo. Inutile dire che la legge 331 che ha approvato la professionalizzazione delle Forze armate ha, come consuetudine, completamente sottovalutato i costi diretti indiretti: stipendi, certo, ma anche alloggi ed infrastrutture, equipaggiamento, formazione ed addestramento. In tutto il mondo un esercito professionale costa enormemente di più di uno basato su coscritti e, naturalmente, esprime una capacità operativa del tutto diversa. La questione è spinosa, perché le Forze armate italiane sono da sempre sottocapitalizzate, il bilancio della difesa rappresenta meno dell’1,46 per cento del prodotto interno lordo, una percentuale inferiore alla media Nato e decisamente lontana dalle percentuali che si riscontrano in Paesi quali Gran Bretagna e Francia o persino Germania. Per di più il bilancio della difesa italiano è un omnibus dove si trova un po’ di tutto, dalle pensioni, alle famigerate “funzioni esterne”, ai fondi per i Carabinieri. Depurata dai fronzoli, la spesa per la “funzione Difesa” propriamente detta scende all’1 per cento del Pil e questo anche senza considerare che il Pil tedesco o quello degli altri “grandi” è decisamente superiore a quello italiano. In soldoni questo 1 per cento si traduce nel 2002 in 13,5 miliardi di euro.

Questa situazione non è certo una novità, sono decenni che la Difesa riceve meno di quanto sarebbe indispensabile ed il risultato non può che essere un progressivo ampliamento del gap di capacità che ci separa dagli Alleati. Per di più, dato che sugli stipendi non si può risparmiare e visto che ridurre manutenzione, addestramento e scorte è pericoloso, si finisce per sacrificare la spesa per investimenti, che in teoria non dovrebbe essere inferiore al 30 per cento del totale. Per l’anno in corso, tra ammodernamento e ricerca e sviluppo il bilancio prevede 3,3 miliardi di euro, quando lo stesso ministero ammette che ne servirebbero “almeno” 4,6 miliardi/anno, solo per evitare un nuovo scollamento rispetto ai primi della classe. Bisogna peraltro riconoscere che la Difesa può anche beneficiare, almeno in parte, dei fondi del Map stanziati in favore dell’industria aerospaziale e della Difesa e di quelli del ministero della Ricerca scientifica/Istruzione, che peraltro avrebbero un impatto più significativo se fossero spesi sulla base di una pianificazione interministeriali che rispondesse agli interessi effettivi del Paese: gli stanziamenti a pioggia e senza rispetto delle priorità effettive in passato hanno creato più danni che vantaggi.

Ora il Dpef prevede ufficialmente come obiettivo l’incremento della spesa per la “funzione Difesa” vera e propria all’1,5 per cento del Pil, il che vorrebbe dire, a valori 2002, un aumento di oltre 6,7 miliardi di euro, ma non è la prima volta che si ascolta questo discorso, anche in tempi recenti. E’ stato anche prospettato un intervento straordinario “tappabuchi” una tantum nell’ordine dei 7,5 miliardi di euro in 10/15 anni. Però, se il buongiorno si vede dal mattino, dobbiamo constatare che il progetto di bilancio 2003 riflette la realtà di una congiuntura economica sfavorevole e l’obiettivo realistico è quello di difendere i livelli già raggiunti. E non si sono visti neanche interventi straordinari “post 11 settembre” che Usa, Gran Bretagna, Francia ed altri Paesi europei “virtuosi” hanno già varato ed in buona misura stanno realizzando. Se questo è il contesto oggettivo, sembra necessario un atto di coraggio: una stima realistica di quello che il Paese può e potrà spendere per la Difesa e su questa base determinarne la consistenza (ovvero un procedimento inverso rispetto a quello corretto: definire esigenze, stabilire come soddisfarle e quindi provvedere i soldi necessari). Perché se procediamo sulla strada attuale rischiamo di avere la solita “hollow force” di mussoliniana memoria, tante baionette e nient’altro. E non sveliamo un segreto se rileviamo che gli studi “interni” cominciano a prospettare un calo degli obiettivi di forza da 190.000 ad appena 150.000 unità, con un secco -21 per cento!

Una più efficiente gestione delle risorse

Parallelamente occorre una cura dimagrante per i programmi di ammodernamento in corso: non ha senso spendere migliaia di miliardi per sviluppare qualcosa che poi si acquista in pochi esemplari, non è fondamentale, ma solo nice to have, o solo perché “lo fanno gli altri”. E se questa revisione la stanno facendo gli Usa che spendono oltre 400 miliardi di dollari all’anno nella Difesa, figuriamoci l’Italia. Meglio concentrarsi sui fondamentali. Naturalmente tutto questo ha un “costo” politico-strategico: i modelli di riferimento, almeno per le quantità, non sono più Gran Bretagna, Francia e Germania, ma piuttosto Spagna o Olanda. Da questo discenderebbe non solo un drastico ridimensionamento delle attività all’estero, ma anche del ruolo Nato ed europeo. Ormai la statura internazionale di un Paese si misura anche con il numero di divisioni (vere) che può mettere in campo, una retrocessione sarebbe perciò inevitabile. Mi rendo conto che tutto ciò è difficile da accettare, e mi auguro davvero che le condizioni economiche consentano di realizzare tutti gli ambiziosi obiettivi, ma se così non sarà, il “nuovo modello” dovrebbe prenderne onestamente atto, perché nel nuovo contesto barare è molto pericoloso, la realtà si svela non in una parata o in una delle vecchie e care esercitazioni “vasetto”, ma su un campo di battaglia.

28 febbraio 2003

(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)
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