La politica per la difesa dell’Italia
di Antonio Martino

Ad oltre un anno dall’attacco alle Torri gemelle di New York ed al Pentagono, l’impegno militare dell’Italia a sostegno della propria sicurezza e della stabilità internazionale si sviluppa secondo modalità diverse rispetto ai decenni della Guerra Fredda. Nel periodo che va dal 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, al 2001, anno dell’attacco agli Usa, abbiamo infatti assistito a mutamenti che hanno radicalmente cambiato il quadro geo-politico del nostro Paese, dell’Europa e della Comunità atlantica. I mutamenti riguardano sostanzialmente la natura della minaccia e le grandi scelte di schieramento e sicurezza internazionale. L’Italia, dopo la tragica esperienza del secondo conflitto mondiale ed il suo ingresso nell’Alleanza atlantica, ha lealmente partecipato agli sforzi alleati per fronteggiare la decisiva minaccia militare, politica, ideologica, dell’Urss e del Patto di Varsavia. Tale minaccia ha comportato una scelta unidirezionale in campo militare, e cioè l’intera difesa terrestre orientata prioritariamente verso la soglia di Gorizia e le forze aereonavali schierate contro un attacco da Est.

La staticità della Guerra Fredda

I decenni della Guerra Fredda sono stati anche il periodo della “guerra ideologica”, in cui l’opposizione parlamentare di allora aveva come riferimento – pur se con un approccio critico progressivamente crescente – il modello sociale dell’Urss. L’opposizione interna alle scelte atlantiche, affievolitasi nel corso del tempo, è stata tuttavia presente fino a tutti gli anni ’80, quando avversò con durezza il dispiegamento degli euromissili in risposta agli SS 20 sovietici. Una parte ampia del Paese ha percepito a lungo la stessa istituzione militare con pregiudiziale avversione politica e culturale, determinata anche dalla diversa percezione e valutazione dell’aggressività del mondo comunista, dal quale proprio le Forze armate erano chiamate a difenderci. Allora fu contrapposta l’effettiva sicurezza nazionale ad uno pseudo-pacifismo che non riusciva a nascondere la scelta di natura ideologica in favore del socialismo sovietico; scelta contraria agli interessi nazionali che pretendeva di tutelare, come poi hanno dovuto riconoscere quasi tutti i suoi assertori.

La nostra difesa comprendeva il suolo italiano e la partecipazione allo schieramento Nato nel nostro Paese e nel Mediterraneo centrale. Ma anche questo posizionamento, che non è azzardato definire “minimale”, era condizionato dalla peculiare situazione politica italiana e dalla mancanza, purtroppo, di una legittimazione sostanziale delle Forze armate. Maggioranza ed opposizione, nel richiamarsi ai valori della Costituzione, concordavano solo sulla collocazione ideale delle Forze armate nel solco della lotta antifascista. Ogni richiamo alla natura combattente dell’istituzione militare era sottaciuto, mentre se ne esaltava la funzione di concorso alla protezione civile (anche sulla scia del generoso contributo effettivamente dato dai militari in occasione di calamità naturali). Le conseguenze di questa impostazione, teorica e pratica, delle nostre Forze armate sono state tali che, per decenni, financo l’espressione “politica di difesa” è stata espunta sostanzialmente dal lessico politico nazionale. Nei media e nella larga opinione pubblica, le istituzioni militari sono state oggetto di attenzioni “ideologiche” anziché tecniche, e spesso dalla connotazione critica fortemente negativa. Pochi si attardavano a valutarne la reale efficacia complessiva, anche in rapporto all’utilizzo delle risorse assegnate.

Lo spartiacque del Libano

Il quadro statico della Guerra Fredda inizia ad incrinarsi nei primi anni ’80. L’esperienza libanese, maturata attraverso due missioni negli anni dal 1982 al 1984, introduceva nuovi elementi di riflessione sulla natura peculiare della sicurezza italiana, che non poteva esaurirsi in una dimensione centro-europea ma doveva necessariamente ampliarsi allo scenario dell’intero Mediterraneo e del Medio Oriente, squassato da tensioni spesso degenerate in crisi acute e in guerre aperte, estremamente pericolose per il nostro Paese. Fu avviata così una sorta di riscoperta della dimensione militare, europea e mediterranea, dell’Italia. Il “Libro Bianco” del 1985, realizzato dall’allora ministro Spadolini, contemplò infatti, fra le possibili missioni delle nostre Forze armate, anche la partecipazione ad operazioni della comunità internazionale fuori dalla tradizionale area atlantica. Né può essere dimenticato l’impatto politico ed emotivo che l’esperienza libanese ebbe presso l’opinione pubblica. Sotto l’aspetto politico, emerse la sostanziale unitarietà d’intenti circa un’operazione che aveva anche una visibile componente umanitaria oltre che funzioni di presenza e stabilizzazione. Sotto l’aspetto emotivo, l’opinione pubblica partecipò all’operazione militare come mai era successo prima nella storia repubblicana, superando anche un certo complesso d’inferiorità nei confronti dei principali alleati. Le nostre forze in Libano non sfiguravano, anzi dimostravano capacità e preparazione mai disgiunte da doti di umanità.

La rottura dell’Ottantanove

Ma la vera rottura rispetto al precedente stato di cose venne dai fatti del 1989 e poi del 1991; da quel tumultuoso susseguirsi di eventi che portò prima alla caduta dei regimi socialisti, poi alla scomparsa del Patto di Varsavia, alla dissoluzione dell’Urss ed all’avvio del processo di democratizzazione nella Repubblica russa. Questi grandi accadimenti storici determinarono sconvolgimenti geo-politici su scala planetaria, che tuttora durano, obbligando tutti i Paesi dell’Est e dell’Ovest, un tempo rivali, ad adeguare le strategie di difesa, nazionali e collettive, il carattere degli strumenti militari e le loro modalità operative. Tornando alle vicende del nostro Paese, la fine dei regimi socialisti è stata uno dei fattori determinanti della svolta nella storia della nostra Repubblica, e tra l’altro ha indotto il comunismo italiano ad evolvere verso l’accettazione non strumentale dei valori basilari di libertà e democrazia, sostanzialmente intesi all’occidentale. La contrapposizione ideologica pura e dura tra sistemi irriconciliabili è terminata. Sono relegate in frange minoritarie dello schieramento parlamentare le posizioni pregiudizialmente ostili alle istituzioni militari e alla Nato, anche se permane il finto pacifismo, vecchia maniera, nell’area estrema definita “antagonista”.

Testimonianze di questo mutato quadro sono già presenti nelle pagine conclusive dell’indagine conoscitiva della Camera dei deputati “Evoluzione dei problemi della sicurezza e ridefinizione del modello nazionale di difesa” del 1991. Basta rileggerle per rendersi conto di quanto, già dieci anni orsono, fosse elevata la percezione delle nuove minacce e della possibilità di una crescita qualitativa del terrorismo con l’acquisizione e l’utilizzo di armi di distruzione di massa e vettori missilistici. In quell’analisi si esaminavano le tendenze degli scenari internazionali e le mutazioni della minaccia per il nostro Paese e, più in generale, per il mondo occidentale. Con apprezzabile lungimiranza, le minacce venivano individuate soprattutto nella possibile degenerazione, anche in termini di crescita del terrorismo, delle numerose tensioni che la Guerra Fredda aveva ingessato ma non risolto, e nella proliferazione di armi di distruzione di massa. L’invasione del Kuwait, la guerra del Golfo ed il succedersi degli eventi nell’area balcanica hanno purtroppo confermato quelle previsioni. L’11 settembre ne ha tragicamente dimostrato l’esattezza. Ben diverse dal passato sono le minacce da affrontare nel presente e nel futuro e ben diversi sono, pure, gli scenari planetari, che registrano tendenziali intese fra il mondo occidentale e la Russia. Il recente vertice di Pratica di Mare ha quasi suggellato la ricomposizione del vecchio continente, avviata dai fatti dell’89. La minaccia terroristica ha collocato Nato e Russia dalla stessa parte e fornito loro ragioni di riavvicinamento, se non addirittura di amicizia. L’estremismo pseudo-religioso, alimentato da rancori etnici, nazionalistici, ideologici, costituisce ormai il nemico comune degli antichi nemici. Finito nella pattumiera della storia, come profetizzò Ronald Reagan, il comunismo sovietico, americani e russi riscoprono le comuni radici culturali e religiose e forse si avviano a fondersi in quello stesso mondo libero che la vecchia Urss irrideva come ingannevole e fallace.

Anni Novanta: le nuove sfide della sicurezza

Gli anni ’90, segnati da nuove sfide nel campo della sicurezza, sono stati così per l’Italia un periodo di intenso impegno militare, di ripensamento e riforme dell’intera struttura della Difesa, di partecipazione ai processi di ammodernamento della Nato, di crescita della dimensione europea di sicurezza e difesa. Dagli anni ’90 ad oggi, l’Italia ha assunto un ruolo di primo piano come Paese contributore alle missioni internazionali Onu e Nato. Attualmente oltre 9.000 uomini operano fuori dei confini nazionali, soprattutto nei Balcani, in Medio Oriente ed in Afghanistan. Siamo stati nel Golfo, in Africa e Timor Est ed, in prospettiva, potremmo essere chiamati ad incrementare la nostra presenza proprio in Afghanistan, affiancando con un contingente specializzato le forze che colà lottano contro il terrorismo. Si tratta di un impegno inedito per la nostra storia, con caratteri non contingenti, ma di medio periodo; e corrisponde ad una concezione della nostra sicurezza, volta a contrastare la minaccia – o la potenziale minaccia – lì dove potrebbe sorgere. La conclusione che dobbiamo trarre da queste considerazioni è che, dopo la lunga stagione della Guerra Fredda, anche il nostro Paese è pienamente “maturo” nel campo della sicurezza. È finito il tempo in cui, secondo il gergo degli analisti, il Paese è stato solo “consumatore di sicurezza”, beneficiando del contesto pacifico garantito dai principali alleati – Stati Uniti in testa – al quale, però, contribuiva meno di quanto ne ricavasse in sicurezza. Oggi l’Italia è chiamata a partecipare alla difesa della pace e del diritto in misura proporzionale al proprio peso economico, politico, culturale. In questo contesto, la Difesa e le Forze armate divengono elementi centrali nella vita nazionale. E la tutela della sicurezza nazionale, anche attraverso il corretto impiego della forza militare in accordo con le decisioni Onu, Nato, Ue, prescinde da limiti geografici e si affranca dalle pregiudiziali ideologiche del passato.

Il recente “Libro Bianco” della Difesa, pubblicato nel marzo del 2002, a circa sei mesi dall’avvio della legislatura, recepisce queste considerazioni. “Rispetto alla vecchia minaccia – vi è fatto notare – i rischi attuali, ma anche le sfide e le opportunità, sono di natura più complessa e richiedono risposte più ampie e diversificate. L’azione internazionale, oltre ai tradizionali strumenti politici, diplomatici, economici, culturali e di cooperazione, fa sempre più ricorso attivo allo strumento militare, divenuto uno degli indicatori essenziali della credibilità ed affidabilità del sistema Paese nell’ambito delle relazioni internazionali. Questa nuova fase geo-strategica pone gli strumenti militari europei ed alleati di fronte ad esigenze operative nuove ed alla necessità di acquisire quella flessibilità d’impiego necessaria per affrontare nuove missioni a geometria continuamente variabile. Le missioni delle nostre Forze armate oggi si definiscono nell’ambito del vasto spettro di azioni operative volte, nel rispetto dei princìpi costituzionali, alla tutela della sicurezza nazionale, dell’integrità politico-territoriale, dei valori della nostra civiltà, del benessere e dello sviluppo economico e sociale. Ma la tutela della sicurezza nazionale assume oggi un’accezione più ampia che include, oltre alla difesa della sovranità nazionale, il concorso alla stabilità ed alla sicurezza internazionali, la legittima salvaguardia e tutela dei nostri interessi nonché la prevenzione dei rischi vecchi e nuovi, ed il contrasto alle violazioni del diritto e della pace. Naturalmente, tale concetto s’incardina sempre più nell’azione delle grandi organizzazioni internazionali di cui siamo parte attiva e responsabile, in particolare l’Unione europea, l’Alleanza atlantica e le Nazioni Unite. Di conseguenza, il supporto alle missioni operative della comunità internazionale è divenuto, specialmente in questi ultimi anni, elemento caratterizzante l’impiego delle nostre Forze armate”.

Il nuovo ruolo nell’Alleanza Atlantica e la difesa della Ue

Di fronte a scenari così impegnativi, di fronte alla necessità di dover tutelare la sicurezza del Paese e degli alleati da nuove ed imprevedibili minacce, di fronte alla consapevolezza di dover contribuire alla difesa della pace, della libertà e del diritto anche lontano dai confini, il “Libro Bianco” ha fatto il punto delle nostre politiche di difesa e della situazione delle Forze armate. L’Italia resta saldamente incardinata nell’Alleanza atlantica, la quale, dopo aver confermato il suo ruolo nella gestione delle crisi nei Balcani, è divenuta un’istituzione tendenzialmente “inclusiva”, espandendosi ad abbracciare nuovi soggetti internazionali, non più solo “esclusiva”, cioè contrapposta a nemici minacciosi. Le nuove relazioni che si vanno sviluppando con la Federazione russa, suggellate dal recente vertice di Pratica di Mare, segnano sicuramente la fine di un’epoca, esaltano la flessibilità dell’Alleanza e la sua capacità di innovarsi e modificarsi, e la proiettano verso un ruolo politico ed una funzione militare capaci di unire ai Paesi di consolidata democrazia quelli che l’hanno conquistata o riacquistata recentemente.

La politica comune di sicurezza e difesa dell’Ue è l’altro cardine della sicurezza dell’Italia. Si tratta di un cammino né facile né breve, parallelo alla riforma delle istituzioni dell’Unione, ormai obbligato, soprattutto alla luce del suo prossimo allargamento. Nel frattempo, proseguiamo sulla strada tracciata ad Helsinki per creare un primo, ampio nucleo di forze europee in grado di operare congiuntamente. Per le missioni prettamente militari occorrono oggi capacità elevate, come definite nella Defence Capability Iniziative in sede Nato, che le Forze armate dell’Alleanza si impegnano a raggiungere anche per colmare il crescente divario con le forze statunitensi: un gap il quale, in prospettiva, potrebbe addirittura compromettere azioni comuni. Deve poi sottolinearsi che vi è piena compatibilità fra quanto previsto nella Defence Capability Iniziative e le scelte europee per il rafforzamento della difesa comune.

Il rinnovamento delle Forze Armate italiane

Su tali sviluppi esiste ampio consenso politico. La riforma dei vertici è una realtà con tutte le sue positive conseguenze in termini di unitarietà di comando e visione interforze dell’intero strumento militare; i Carabinieri sono divenuti la quarta Forza armata; le Forze armate si avviano ad una rapida professionalizzazione; l’area tecnico-operativa è tuttora in fase di semplificazione e snellimento al pari delle aree tecnico-amministrativa e tecnico-industriale. Tuttavia dobbiamo riconoscere che molti obiettivi di ammodernamento e professionalizzazione sono stati frustrati dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di corrispondere ai rilevanti obblighi internazionali. E parimenti è doveroso ammettere che l’attenzione verso le macro-riforme ha forse distratto la politica dal focalizzarsi sull’efficacia ed efficienza combattiva delle forze. Numerosi, pertanto, sono i problemi davanti a noi.

Il primo è che, oggi, dobbiamo fronteggiare esigenze operative prossime alle massime possibilità dello strumento militare attuale. E questo avviene, per giunta, in una delicatissima fase di transizione dalla vecchia coscrizione obbligatoria al più moderno servizio volontario, con obblighi internazionali sempre più pressanti. Esistono, poi, forti sbilanciamenti nell’utilizzo del personale. Con riferimento all’Esercito, a fronte di circa 60.000 operativi, esistono70.000 unità fra Comandi di vertice, Comandi intermedi ed Enti scolastici. Né questa disarmonia si attenua passando alla Marina e all’Aeronautica, dove è preponderante la funzione della macchina rispetto all’uomo, ma le strutture intermedie di Comando pesano sensibilmente a danno delle navi e dei reparti di volo. Il livello tecnologico complessivo presenta poi delle lacune, dovute ai bassi stanziamenti effettuati in passato per l’innovazione e le nuove acquisizioni. In definitiva, i principali handicap della nostra Difesa possono essere ricondotti a forti disequilibri nell’utilizzo del personale, ad una sottocapitalizzazione complessiva delle forze, ad un livello qualitativo dello strumento militare inferiore a quello medio dei nostri principali alleati. Sono fattori che pesano in modo incisivo nel rapporto con gli alleati e, più in generale, sull’azione politica globale dell’Italia. Le soluzioni devono essere cercate in una definizione dello strumento militare adeguata alle attuali esigenze dell’Italia e nell’adozione delle misure per raggiungere il modello definito, anche in base a programmi di medio periodo. L’architettura della Difesa non può prescindere dagli obiettivi e comunque deve articolarsi in strutture di comando più semplici e ridotte rispetto alle attuali. Necessita una revisione delle competenze centrali e l’eliminazione delle sovrapposizioni fra Stati Maggiori di Forza armata e Direzioni generali, valutando la possibilità di ricondurre negli Organi di Comando della struttura tecnico-operativa parte delle funzioni oggi svolte dall’area tecnico-amministrativa.

La logica dei cambiamenti sta nel trasferire i risparmi al settore operativo, da rafforzare e potenziare perché resta il cuore della Difesa. Tutto ciò ha costituito l’oggetto della “Direttiva ministeriale in merito alla Politica militare ed all’attività informativa e di sicurezza (2002-2003)” e della “Direttiva generale del ministro della Difesa sull’attività amministrativa”. La finanza pubblica, infine, deve fornire i mezzi economici funzionali alla politica di difesa, specie alla luce degli impegni internazionali dell’Italia ed in base alla necessità di esprimere reali capacità di combattimento nella lotta al terrorismo, superando visioni riduttive del peace-keeping e del peace-building.
In definitiva, principalmente con il “Libro Bianco” e le due Direttive, è stato avviato un aggiornamento delle politiche di difesa, incentrato sulle reali esigenze di sicurezza nazionale e sulle scelte dell’Italia in sede Nato e Unione europea.

28 febbraio 2003

(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)
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