Il ritorno dell’Australia sulla scena mondiale
di Giuseppe Mancini
Bush, Blair, Berlusconi, Aznar. Ma tra i sostenitori di un intervento
anglo-americano per il disarmo dell’Iraq di Saddam Hussein, ad
appoggiare con più convinzione la “dottrina Bush” della guerra
preventiva è il premier australiano John Winston Howard, che ha già
inviato nel golfo Persico mezzi e truppe d’élite. Questi stretti legami
tra Australia e Stati Uniti non sono di certo una novità. Già durante la
Seconda guerra mondiale (la guerra del Pacifico), infatti, le forze
armate dei due paesi collaborarono attivamente per respingere
l’offensiva giapponese in Asia sud-orientale, sventando le minacce
contro l’Australia stessa; e nel 1951, insieme alla Nuova Zelanda, Stati
Uniti e Australia diedero vita col trattato di Canberra all’Anzus: il
cardine della politica di sicurezza nell’area del Pacifico, che portò
truppe australiane a combattere in Corea e Indocina al fianco degli
americani.
Un’alleanza di lungo corso, quindi, che già nel 1999 è stata resa ancora
più salda e dinamica dalla cosiddetta “dottrina Howard”. Con
l’intervento australiano a Timor Est per guidare il contingente
internazionale dell’Interfet, infatti, l’Australia ha inaugurato una
nuova concezione strategica, con la rivendicazione di un ruolo diretto
nella risoluzione dei conflitti in Asia sud-orientale, di concerto con
gli Stati Uniti: “La politica del vice-sceriffo”, come l’ha
sarcasticamente ribattezzata l’opposizione laburista. Un ruolo che è
politico ma anche e soprattutto militare, come testimonia l’ambizioso
piano di sviluppo delle forze armate delineato nel libro Bianco della
difesa (dicembre 2000): aumento degli effettivi, nuovi e più moderni
mezzi, grande attenzione per la proiezione di potenza. Con l’assistenza
da parte degli Stati Uniti per la fornitura delle tecnologie più
avanzate.
L’attentato terroristico di Bali dell’ottobre 2002, in cui hanno trovato
la morte decine di cittadini australiani in vacanza sull’isola
indonesiana, ha spinto Howard ancora oltre: con l’annuncio durante
un’intervista televisiva di interventi preventivi all’estero in caso di
pericolo convenzionale o terroristico per l’Australia. La convergenza
strategica verso le posizioni americane nella lotta al terrorismo è
pertanto completa: con Washington che potrà beneficiare di un alleato
preparato, dinamico e risoluto in una delle aree potenzialmente più
turbolente del pianeta, in cui il conflitto tra Islam radicale e Islam
moderato sembra pronto ad esplodere.
Ma se l’alleanza con gli Usa porterà un cospicuo dividendo in termini
economici, militari e politici, il rischio per l’Australia di un brutale
deterioramento dei rapporti coi vicini asiatici non è da trascurare.
Indonesia, Malaysia, Filippine e Thailandia hanno infatti espresso tutta
loro sdegnata preoccupazione per la nuova dottrina Howard della guerra
preventiva, come avevano del resto già fatto nel 1999: di conseguenza,
il tentativo diplomatico di forgiare più intensi rapporti di
collaborazione coi vicini asiatici, simboleggiati dalla richiesta di
partecipazione all’Asean + 3 (il vertice dell’Asean allargato a Cina,
Giappone e Corea del Sud), appare destinato al fallimento. L’opposizione
laburista, alcuni membri dello stesso partito liberale al potere e
l’opinione pubblica australiana si chiedono allora se i probabili costi
politici ed economici (l’interscambio commerciale con i vicini asiatici
dell’Australia ammonta al 65% dell’interscambio totale) di un’alleanza
così stretta con gli Stati Uniti e dell’interventismo militare
tratteggiato da Howard, compresa la partecipazione alla guerra contro
l’Iraq, non siano superiori, molto superiori ai benefici attesi.
28 febbraio 2003
giuse.mancini@libero.it |