Forza e debolezza.
Un saggio discute la divisione dell'Occidente

di Stefano Magni

Sembra che un nuovo conflitto di civiltà stia surclassando il vecchio. Il confine, questa volta, non è la lunga e insanguinata frontiera dell’Islam, ma l’Atlantico. L’oggetto in questione, non è una lotta “fra noi e loro”, ma “fra noi e noi”: fra noi occidentali membri del mondo libero, fra europei e americani. L’idea di un nuovo conflitto di civiltà, tutto occidentale, ha anch’essa il suo profeta: Paul Kagan, autore di “Power and Weakness”, un saggio dai toni molto “politically uncorrect” che, sicuramente, provocherà molte ire negli ambienti accademici europei. Naturalmente questo nuovo “conflitto” non ha i toni drammatici dell’altra prospettiva di scontro di civiltà, quella di Huntington: là si parlava di guerra vera, qui di divergenza, di incomprensione, di differenza nel determinare gli obiettivi.

La divergenza fra Stati Uniti ed Europa, per Kagan, si riassume tutta nel titolo del suo saggio: “Power and Weakness”, potere e debolezza. Il dissenso della vecchia Europa, con Francia e Germania come nucleo duro, nei confronti degli Stati Uniti, è solo apparentemente culturale, uno scontro fra gli “idealisti” europei e i “guerrafondai” americani, ma nasconde una tragica (soprattutto per noi europei) realtà: l’Europa tende sempre all’accordo, all’appeasement, al dialogo multilaterale, mentre gli Stati Uniti prendono maggiormente in considerazione l’uso della forza, solo perché l’Europa è militarmente debole e gli Stati Uniti sono militarmente forti. L’Europa è diventata il centro mondiale dell’appeasement solo perché non può, materialmente, fare altro. Fin dai tempi della Guerra Fredda, politiche europee ostili alla linea degli Stati Uniti, erano motivate più dalla paura della propria debolezza di fronte al nemico sovietico, che non da un (immotivato) orgoglio sciovinista o da uno slancio idealista cosmopolita. In questa prospettiva Kagan inquadra sia la politica gollista che la “Ostpolitik” tedesca: entrambe miranti a cercare un appeasement con l’Unione Sovietica, anche per paura di vedersi impotenti in mezzo a uno scontro fra questa e gli “aggressivi” Stati Uniti.

Culturalmente parlando, Kagan nota come la percezione di un’Europa “idealista” contrapposta agli Stati Uniti “cinici” che perseguono solo una politica di potenza nazionale, sia del tutto falsa. Semmai sono gli Stati Uniti che hanno mantenuto il loro carattere idealista, mentre l’Europa non mostra di aver mai seguito ideali nella conduzione della politica estera. Tre secoli fa, come adesso, gli Stati Uniti sono figli dei valori dell’Illuminismo, sono consci della perfettibilità dell’uomo come dell’ordine internazionale e per questo sono ancora disposti a scendere in campo, quando occorre militarmente, per arginare pericoli e punire ingiustizie nell’arena internazionale. Gli europei non sono mai stati mossi da questi valori. Nei secoli passati, le potenze europee hanno sempre perseguito politiche incentrate sull’interesse nazionale e sull’accrescimento della propria potenza. Con la prima e poi con la seconda guerra mondiale, l’Europa ha semplicemente cessato di avere rilevanza nella politica mondiale: interi imperi perduti, un nemico sovietico alle porte di casa, la paura dominante di un terzo bagno di sangue, hanno relegato l’Europa a un ruolo autodifensivo e marginale. Il deterrente nucleare e la presenza di forti contingenti americani sul suo suolo, hanno reso del tutto superflua la crescita della potenza militare europea: al budget della difesa, i nostri paesi hanno riservato percentuali sempre più irrilevanti del Pil.

E’ da queste condizioni straordinarie che, secondo Kagan, nasce la grande illusione europea, quella che porta al confronto/scontro con gli alleati americani: l’illusione di poter fare a meno degli eserciti e della guerra. I paesi europei hanno potuto condurre il progetto di costruzione di istituzioni comuni e per questo si sono illusi di aver creato un nuovo modo di fare politica nell’arena internazionale, estendibile anche a “rogue states” come la Corea del Nord, l’Iran, l’Irak e la Libia, ma non si sono accorti che questo “nuovo modo di fare politica” è stato reso possibile, finora, dal fatto che il lavoro sporco, quello della difesa, era interamente a carico degli Stati Uniti.

In questa sua analisi dell’integrazione europea, Kagan trascura del tutto il ruolo che il carattere liberal-democratico dei paesi europei ha giocato nel porre fine ai conflitti nel Vecchio Continente. Questo aspetto, che pure è al centro di molte analisi contemporanee, è completamente ignorato in quella di Kagan, che pone l’accento esclusivamente sui rapporti di forza militare. Questo può anche essere il tallone d’Achille della sua teoria. Resta comunque un saggio di grande forza provocatoria che potrebbe aprire un confronto franco e leale tra gli studiosi e gli esperti delle due sponde atlantiche. Soprattutto quando sottolinea l’assurdità dell’idea che l’integrazione europea possa essere trasformata in un modello universale di azione politica, anche quando ci si rivolge a Stati totalitari che si stanno preparando visibilmente alla guerra. Contro di noi.

28 febbraio 2003

stefano.magni@fastwebnet.it
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