Un ruolo neo-ottomano per la Turchia?
di Alessandro Grossato
E’ opinione diffusa in certi ambienti qualificati, che gli Stati Uniti
puntino sulla Turchia per gestire la complessa situazione geopolitica
che si verrà a creare immediatamente dopo la fine delle operazioni
militari contro il regime di Saddam Hussein in Irak. In effetti la
Turchia è già da qualche anno l’alleato su cui Washington (ma anche
Gerusalemme) fa affidamento nell’area del Vicino Oriente, e per il quale
ha di fatto abbandonato senza troppe spiegazioni, l’Egitto di Mubarak,
secondo noi con scarsa lungimiranza. L’Egitto infatti era e resta il più
importante dei paesi arabi sotto diversi punti di vista, mentre la
Turchia, privata del Califfato con la Grande Guerra, tende sempre più a
sentire il richiamo del sangue e della lingua, e dunque a guardare verso
est, verso gli altri paesi turcofoni dell’Asia Centrale con i quali si
sente inesorabilmente affine.
Su quale base geopolitica, dunque, gli Stati Uniti contano per
convincere l’attuale governo turco, oltretutto islamico ancorché
moderato, a gestire in prima persona dei territori sui quali,
comprensibilmente, non può certo sventolare a lungo la bandiera
americana, e tantomeno quella israeliana? Ebbene, la risposta va cercata
nel ruolo già avuto in questi anni dalla Turchia nell’area balcanica, e
più particolarmente in Bosnia e nel Kossovo. Proprio per
controbilanciare l’influenza arabo-islamica, determinata sia dai
petrodollari dell’Arabia Saudita che dalla considerevole migrazione di
guerriglieri veterani della guerra afghana, gli Usa hanno preferito la
presenza dei militari turchi inquadrati nella Nato, e più in particolare
della loro ottima polizia militare, graditissima ai mussulmani sia
bosniaci che albanesi, in forza del ricordo non ancora del tutto spento
della rimpianta sovranità ottomana su quei territori.
Ed ecco il punto, l’eredità ottomana. Un’eredità storica e culturale che
resta assai viva, oltreché nei Balcani, anche nel Vicino Oriente, più
particolarmente in paesi come il Libano, la Siria e, appunto, l’Irak. Un
ricordo ancora più intenso, in senso quasi esclusivamente positivo, per
quelle minoranze sia etniche che confessionali, come turcomanni, curdi,
sciiti, ismailiti, yezidi, cristiani dei vari riti orientali, e persino
ebrei, che solo sotto la Sublime Porta poterono godere di una relativa
pace e serenità (gli armeni costituiscono certamente un caso a parte),
prima che i cartografi dell’Intesa dividessero crudelmente i loro
destini. In particolare quello dei curdi, dietro confini pseudonazionali
totalmente arbitrari, entro i quali tali minoranze hanno spesso subito
da allora, sia pure con notevoli e notabili eccezioni, i loro sanguinosi
quanto oscuri calvari. In effetti, come si sa, tutte le rappresentazioni
giocano un ruolo importante nell’analisi geopolitica, e quella del
dominio ottomano resta certamente una delle più importanti in
quest’area.
Ma non va allora neanche dimenticato che essa è anche quella contro la
quale gli arabi combatterono lealmente al fianco dell’Intesa, quando
questa fece loro intravedere, ingannevolmente, per tramite di ingenui
intermediari come il povero El Awrence, un’altra potente
rappresentazione, quella del Califfato già arabo di Baghdad. Sappiamo
fin troppo bene come poi sia andata realmente a finire, e ancor meglio
di noi occidentali lo sanno gli abitanti di quei paesi. Giocare con le
rappresentazioni geopolitiche è cosa troppo seria e pericolosa per esser
lasciata all’improvvisazione del momento. Nel 1918 finì per volontà
occidentale sia il Califfato Ottomano che il “fantasma”, solo sognato,
del Califfato di Baghdad. E a quale Califfo guardan oggi, e guarderanno
ancor più domani, dopo la seconda guerra del Golfo, la maggior parte dei
musulmani dal Maghreb all’Indonesia è davvero meglio non pensare.
28 febbraio 2003
a.grossato@iol.it |