Alpini, la libertà afgana si tinge di tricolore
di Alessandro Gisotti
Quando, fra una o due generazioni, il popolo afgano ricorderà i simboli
della battaglia per la propria libertà – dopo l’orrore dell’occupazione
sovietica e il buio del medioevo talebano – un posto d’onore, facile
previsione, verrà attribuito alla penna nera degli Alpini. Il nero di
quella penna (molto più dell’iride sgargiante della bandiera pacifista)
rappresenta oggi per l’agricoltore di Mazar-I-Sharif come per
l’artigiano di Kabul, l’opportunità di costruire un futuro migliore.
Significa speranza. L’occasione per rimettersi sui binari della storia.
Che guarda avanti, non indietro come la follia talebana voleva imporre
ad un popolo, per lunga tradizione, libero e coraggioso. In Italia,
tuttavia, non tutti hanno compreso a pieno l’importanza della presenza
di questo spicchio di tricolore sulle montagne al confine tra
Afghanistan e Pakistan. Una fetta consistente del mondo politico ha
risposto con il silenzio, non solo metaforico, alla chiamata alla
solidarietà che una nazione seria dovrebbe sempre assicurare ai propri
soldati, nel momento in cui lasciano la propria terra per una missione
all’estero. D’altro canto, quegli stessi “silenziosi” hanno alzato la
voce - stracciandosi le vesti - quando un alto ufficiale americano ha
definito missione “combat” quella dei nostri militari. Quasi che a Khost
avessimo inviato un battaglione di pokémon e non, invece, mille uomini
tra i meglio addestrati dell’esercito.
Si vis pacem para bellum, affermavano con saggezza i latini. Una lezione
che gli Alpini della missione Nibbio dovranno far propria. Con
l’anarchia ancora dominante in numerose regioni dell’Afghanistan, la
pace ha il fiato corto. E’ in bilico sull’orlo dell’abisso. Per questo
va preservata, difesa anche manu militari, se necessario. La sicurezza
collettiva è la base irrinunciabile su cui erigere l’edificio dello
Stato. Di uno Stato capace di assolvere al suo compito primario:
garantire la convivenza pacifica dei propri cittadini. Non si conosce,
infatti, società umana che abbia assaporato il gusto della libertà senza
la contemporanea presenza di regole, riconosciute e rispettate dai
membri della società medesima.
Parte dell’opinione pubblica italiana sostiene – oggi come un anno fa –
che la guerra, che ha spazzato via il mullah Omar e i suoi tristi
accoliti, non ha sanato le molte e profonde piaghe del Paese. E’ vero.
Come è altrettanto vero che la democrazia, lo sviluppo socio-economico,
il radicamento delle libertà e dei diritti civili non si realizzano
nello spazio di un mattino. Nel Vecchio Continente, sono passati secoli
prima che gli insegnamenti di Locke e Montesquieu si tramutassero in
leggi e istituzioni. Ma, se democrazia è in ultima analisi
partecipazione del popolo al governo della res publica e si conviene che
tale principio travalica i confini geografici e le barriere temporali,
allora, nell’era nuova dell’Afghanistan va riconosciuto che la strada
intrapresa, per quanto irta d’ostacoli, è quella giusta. Hamid Karzai
esercita il potere esecutivo in ragione di un consenso popolare che gli
deriva dall’investitura della Loya Jirga, la grande assemblea tribale
afgana. Istituzione vecchia di secoli. Potere al popolo, dunque, nel
rispetto della tradizione.
Non manca, poi, chi fa notare – a volte, con malcelato e inopportuno
spirito di rivalsa – come tutt’ora siano molte le donne che in
Afghanistan indossano il burqa. Eppure, appare evidente una differenza
sostanziale rispetto al passato oscurantista propugnato dagli “studenti
di teologia”. Se oggi una donna decide di togliersi il burqa, non viene
lapidata in pubblica piazza. Forse i radical chic di casa nostra non
colgono la rilevanza di tale distinzione. Le donne afgane sì. E questo è
ciò che conta.
28 febbraio 2003
gisotti@iol.it |