Questo pacifismo etico allontana l’Europa politica
di Alessandro Campi

Ma chi sono (e soprattutto cosa pensano) i milioni di persone che sabato 14 febbraio hanno sfilato in tutta Europa al grido perentorio di “No alla guerra”? Cosa anima questo popolo di pacifisti che, nella sua variante italiana, si è atteggiato contro il conflitto in Iraq “senza se e senza ma”, dunque senza l’esercizio del dubbio, ma in modo unilaterale ed assoluto? Secondo Ruggero Guarini, che ama il paradosso e le provocazioni, e che conosce bene, per averla frequentata da giovane, la storia del comunismo internazionale, i pacifisti d’oggi sono l’inconsapevole (ed ennesima) metamorfosi dei “partigiani per la pace” inventati da Stalin all’inizio della “guerra fredda” con il preciso obiettivo di inserire un cuneo – appunto pacifista e neutralista – nel cuore di un’Europa occidentale all’epoca fortemente impegnata, sul piano politico, ad impedire l’avanzata dei partiti comunisti nei diversi paesi. Quella odierna – con milioni di persone in marcia nelle strade ad inveire contro la guerra e contro gli Stati Uniti – sarebbe dunque una sorta di vittoria postuma di Stalin, vero vincitore del post-guerra fredda. Il suo sogno di disarmare politicamente l’Europa e di renderla vulnerabile (anche se non più nei confronti del comunismo, bensì nei confronti della minaccia islamico-integralista) si sarebbe dunque realizzato.

Per altri studiosi ed osservatori – ad esempio Luciano Pellicani o Massimo Teodori – i pacifisti di oggi sarebbero gli anti-americani di sempre: finti pacifisti dunque, animati essenzialmente da una sorta di viscerale avversione nei confronti del sistema di valori occidentale. La riprova di ciò starebbe nel fatto che nessuno di essi, per quanto amante e difensore della pace e della legalità internazionale, si è mai sognato di scendere per strada e di avviare mobilitazioni di massa in occasioni di guerre, conflitti ed aggressioni che hanno avuto per protagonisti paesi diversi dagli Stati Uniti. Un pacifismo a senso unico, insomma, con un obiettivo politico-culturale rappresentato solo e soltanto dagli Usa. Dunque un pacifismo in mala fede, facile da smascherare, esattamente come quello degli “utili idioti” che, negli anni Cinquanta marciavano (anche se incosapevolmente) a maggior gloria del dittatore georgiano.

Si può essere d’accordo con queste chiavi di lettura? Che all’interno del movimento pacifista che vediamo sfilare in questi giorni per le strade di mezza Europa alberghino i fantasmi ideologici dell’antioccidentalismo e dell’antiamericanismo è un fatto. Chi accetterebbe di definire “pacifisti” coloro che si stanno impegnando per sabotare i convogli ferroviari adibiti, a loro giudizio, al trasporto di strumenti di morte?. Ciò non toglie che il pacifismo attualmente all’opera sia, a mio giudizio, qualcosa di diverso dal passato: dunque è difficile liquidarlo sul piano della critica politico-ideologica. Tra i milioni scesi in piazza non c’erano solo esponenti della sinistra antagonista e “no global” oppure ex-comunisti tornati per una volta alle loro passioni di un tempo. C’erano anche – ed anzi erano la maggioranza – giovani studenti senza convinzioni ideologiche radicali, pensionati, famiglie intere di tranquilli piccolo-borghesi, casalinghe, esponenti dell’associazionismo cattolico, rappresentanti del volontariato. Insomma, come si diceva un tempo, persone semplici, persone comuni, genuinamente mosse da un sentimento profondo di pace.

Si tratta – se ciò è vero – di capire cosa ciò significhi. Perché all’interno dell’opinione pubblica europea (o quantomeno all’interno di una sua parte cospicua) si sono sedimentati un sentimento così radicalmente antipolitico, una visione così rinunciataria (e al fondo anche piuttosto egoista) dei conflitti e dei contrasti che caratterizzano la scena politica contemporanea? Cosa può comportare, in prospettiva, aver abbracciato una visione edificante dei rapporti internazionali, centrata su una prospettiva etico-giuridico-umanitaria che nega qualunque legittimità all’uso della forza nella soluzione delle contese tra Stati e potenze sovrane? Questo pacifismo, proprio perché non più ideologico o strumentale, ma di tipo etico-antropologico, è una grande incognita politica rispetto al cammino dell’Europa verso una forma (peraltro ancora lontana) di unità politica (e in prospettiva anche militare). In che modo la futura classe politica dell’Europa unita potrà inserirsi nei contrasti della politica mondiale avendo alle spalle una cultura politica diffusa che basa se stessa, unicamente, sui buoni sentimenti, sul desiderio di quieto vivere, sulla propria tranquillità ad ogni costo, sulla rinuncia, in poche parole, a qualunque azione politica?

Se è vero che quello che sta nascendo è un pacifismo di tipo nuovo – per certi versi “politicamente” più pericoloso di quello che abbiamo conosciuto nella seconda metà del Novecento – forse converrà lasciare da parte interpretazioni forzate e polemiche (i “partigiani della pace”, l’anti-americanismo) e portare la critica nei suoi confronti su un livello diverso e più appropriato.

28 febbraio 2003

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