Le domande della Santa Sede
di Paolo Terenzi

Molti osservatori si chiedono le ragioni della posizione del Vaticano nell’attuale crisi internazionale. Il 13 gennaio, in occasione dell’Udienza al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il Papa ha detto: “Come ricordano la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale, non si può far ricorso alla guerra, anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni”. Nel Catechismo della Chiesa si legge che “si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra, dati i mali e le ingiustizie di cui è causa” (n. 2327) e che solo “una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa” (n. 2308). Il Catechismo elenca tutte le condizioni che devono sussistere per poter parlare di una “guerra giusta” (n. 2309): 1) il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni deve essere durevole, grave e certo; 2) tutti gli altri mezzi per porvi fine devono essersi rivelati impraticabili o inefficaci; 3) ci devono essere fondate condizioni di successo; 4) il ricorso alle armi non deve provocare mali e disordini più gravi del male da eliminare. 

Negli ultimi mesi, autorevoli esponenti della Santa Sede, come il card. Sodano, segretario di Stato, il card. Tauran, il segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Martino, presidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax e già Osservatore permanente della Santa Sede all'Onu, e i vertici dell'episcopato statunitense, hanno richiamato l’attenzione su alcuni interrogativi. E’ legittimo ampliare drammaticamente i tradizionali limiti morali e legali della causa giusta per includervi l’uso preventivo della forza militare per abbattere regimi pericolosi o per affrontare il problema delle armi di distruzione di massa? Esiste una chiara e sufficiente evidenza di una connessione diretta tra l’Irak e gli attacchi dell’11 settembre o una chiara e immediata evidenza di un imminente attacco di carattere grave? Avrebbe successo una guerra preventiva per rendere vane le gravi minacce, o invece provocherebbe gli attacchi che pretende di evitare? 

E ancora, sono state percorse tutte le strade della diplomazia? Quale impatto avrebbe la guerra sulla popolazione civile in Irak a breve e a lunga scadenza? Quanti soldati americani morirebbero? Quanti soldati e civili iracheni morirebbero o resterebbe senza casa, senza i mezzi di sussistenza e senza lavoro? L’impiego della forza militare condurrebbe alla nascita di un ordine legittimo o farebbe crescere la conflittualità e l’instabilità in un’area delicata come il Medio Oriente? Una guerra contro l’Irak darebbe forza o indebolirebbe la coalizione contro il terrorismo? Che ne sarebbe, in caso di un’azione unilaterale, del ruolo dell’Onu nelle controversie internazionali e del suo impegno per evitare o comporre i conflitti nel mondo? E’ proprio alla luce di questi interrogativi che il Papa e i suoi più stretti collaboratori ritengono che, almeno allo stato attuale, non ci siano le condizioni per parlare di un intervento armato legittimo.

14 febbraio 2003

p.terenzi@libero.it

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