Le ragioni di una strana guerra
di Vittorio Mathieu
Le manifestazioni in tutto il mondo contro la guerra non richiedono una spiegazione diversa da quella delle manifestazioni, anch’esse globali, contro la globalizzazione: l’antiamericanismo. E’ vero che chiunque conosce o dovrebbe conoscere gli orrori della guerra (mentre i no-global capiscono ben poco della globalizzazione); ma a proposito dell’Irak gli orrori della guerra sono di fatto lontani dalla mente dei manifestanti. Sono presenti, semmai, al Pontefice. Al contrario la popolazione irachena, destinata di fatto a subirli, sembra (anche se non è ) piuttosto bellicosa in favore di Saddam Hussein. Cerchiamo dunque qualche ragione diversa dal pacifismo di maniera o pretestuoso. Nel secondo Ottocento era di moda additare come “pescicani” i mercati di cannoni, che fomentavano guerre per vendere i loro prodotti. Oggi le transnazionali sono oggetto di attacchi anche se commerciano in burro (di cacao). Ma il sospetto che la guerra sia per qualcuno un affare esiste anche oggi, e Luigi Einaudi ne spiegava bene il perché: è difficile incrementare le vendite di birra, anche con slogan come il celebre “Chi beve birra campa cent’anni”; ma è facilissimo indurre l’opinione pubblica ad accettare, anzi a chiedere più armamenti, persuadendola che il nemico incombe.
Questo argomento contro la guerra riaffiorò nel ’68, ma non è al centro delle manifestazioni di oggi. Esso è presente in chi non vorrebbe una nuova “tempesta nel deserto”, ma non scende per questo in piazza. Di chi, in particolare, concordando con Bush nel dire che siamo già in guerra (contro il terrorismo), obietta tuttavia che questa guerra va combattuta con mezzi diversi dai milioni di tonnellate di bombe. Migliori i mezzi – più efficaci e meno chiassosi - che gli israeliani usarono altre volte con successo, ad esempio ad Entebbe.
Può darsi, poi, che lo spiegamento di forze abbia anche un altro scopo: mettere alla prova sul campo, e non solo in laboratorio, le nuove armi, che si evolvono rapidamente. Uno scopo che interessa i militari, più ancora che le promozioni e le decorazioni. Effettivamente conviene restare preparati anche ad una guerra convenzionale. La motivazione dunque, anche se cinica, è comprensibile. Quella, per contro, contro cui è bene mettere in guardia è un’illusione, per dir così, keinesiana: che la guerra serva a dare una spinta alla produzione stagnante. Se cercate in un manuale (ad es. il Samuelson) i grafici del Pil nel corso degli anni, troverete che essi s’impennano in occasioni di guerre anche minori, come la guerra di Corea. Che cosa significa ciò? Significa soltanto che il Pil (inventato per tutt’altri scopi) non è punto un indicatore del benessere macroeconomico, perché il benessere certamente non cresce durante le guerre. Non è escluso che nell’amministrazione qualcuno veda con favore una guerra locale, lontana da casa, per incoraggiare la produzione: sarebbe una pessima motivazione. Ma, detto ciò, rimangono ragioni tutte diverse, per riconoscere che siamo effettivamente in guerra, in una strana guerra. E non per colpa nostra.
31 gennaio 2003 |