Italiani, protagonisti in Europa
di Gianfranco Fini

La riforma delle istituzioni avviata dalla Convenzione europea è destinata a determinare una nuova ricomposizione dell’Europa politica, soprattutto alla luce del processo di riunificazione con i paesi dell’Est. L’attuale struttura istituzionale dell’Unione si basa, infatti, su di un modello pensato per un numero limitato di membri. E questo modello deve necessariamente essere rivisto tenendo conto della riunificazione dell’Unione. Ormai siamo abituati a dire allargamento, ma certamente riunificazione è un termine molto più giusto. I paesi che aderiscono all’Unione, non entrano in Europa, ma vi tornano. La cultura e l’identità europea sono nate a Budapest, a Praga, a Varsavia, non diversamente che a Roma, Parigi, Madrid o Londra. La frattura determinata dalla Cortina di ferro e dalla Guerra Fredda ha ferito le identità nazionali che questi popoli oggi ritrovano a pieno titolo. Oggi, dall’Oriente e dall’Occidente ci si incontra nello sforzo di ricostruire un’Europa comune dopo le lacerazioni e le tragedie della storia. L’obiettivo che i Paesi candidati già pronti partecipino alle elezioni del Parlamento europeo nel 2004 in qualità di membri costituisce un apporto prezioso al futuro dell’Europa, ma rende evidentemente lo scenario più complesso.

Il processo d’integrazione europea si è sviluppato secondo successivi allargamenti, dal primo nucleo iniziale ai quindici Stati odierni, ma non c’è dubbio che questa volta si tratta di un passo dalle caratteristiche assolutamente innovative. Entreranno a far parte dell’Unione oltre 100 milioni di abitanti, che producono il 4,1 per cento dell’attuale reddito dei Quindici ma che, sotto il profilo istituzionale rappresentano un aumento del 66 per cento degli attuali componenti dell’Unione. È necessario, quindi, che un’Unione di venticinque o più Stati membri sia in grado di funzionare. Da qui la necessità di ridisegnare l’Europa in maniera più semplificata ed efficace. L’Europa che vogliamo è un’Europa più semplice, trasparente e leggibile. La Costituzione europea non dovrà essere rigida e geometrica, ma flessibile ed armonica. Il presidente Giscard d’Estaing ha ricordato che l’Unione europea non è una realtà “binaria” in cui si contrappongono da una parte il Consiglio, istituzione intergovernativa e dall’altra parte la Commissione e il Parlamento, istituzioni comunitarie, ma è un triangolo istituzionale. Io credo che dovremo fare uno sforzo per trasformarlo in un quadrilatero, inserendo accanto ai tre pilastri tradizionali, il nuovo pilastro dei Parlamenti nazionali.

La proposta, formulata ad ottobre dal Gruppo di lavoro sulla sussidiarietà, di istituire un meccanismo di allarme preventivo (early warning) che consenta ai Parlamenti nazionali di partecipare più attivamente al controllo della sussidiarietà, senza allungare o bloccare il processo legislativo, né dar luogo a una nuova burocrazia, mi sembra vada in questa direzione.
Se è vero che sarebbe inaccettabile trasformare il meccanismo di “allerta precoce” in un diritto di veto, mi sembra tuttavia necessario prevedere un obbligo giuridico di riesame della proposta a carico della Commissione, ove un numero significativo di Parlamenti nazionali ritenga leso il principio di sussidiarietà. Il Consiglio europeo, dotato di una Presidenza lunga, dovrebbe avere la funzione di adottare i grandi indirizzi di politica interna e internazionale dell’Unione. La Commissione rappresenterebbe la macchina esecutiva dell’Unione. Essa perderebbe i suoi compiti legislativi (conservando il potere d’iniziativa, anche se non in via esclusiva), ma manterrebbe il suo ruolo di garante del rispetto dei trattati. Il Parlamento europeo dovrebbe acquistare un ruolo legislativo, magari associato ad un Consiglio per gli Affari legislativi, di cui siano partecipi sia i governi che i rappresentanti dei Parlamenti nazionali. Questi ultimi dovrebbero svolgere un ruolo nuovo e incisivo a diversi livelli, intervenendo nelle attività dell’Unione Europea sia indirettamente, attraverso il controllo dei rispettivi governi, sia direttamente, attraverso forme organizzative interparlamentari. Ad essi, in ultima analisi, spetta il controllo ultimo della sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà, accanto a quello di proporzionalità (fare solo ciò che è necessario e nella misura strettamente necessaria) dovrà essere la guida per regolare i rapporti tra le istituzioni europee e quelle nazionali e per comprendere quali poteri vadano delegati dagli Stati all’Unione, e quali debbano, eventualmente, essere restituiti dall’Unione agli Stati. La sua applicazione ed il suo effettivo controllo, politico e non solo giurisdizionale, rappresentano la garanzia che l’Unione manterrà un carattere autenticamente decentrato.

Molti dei paesi dell’Est, reduci dall’esperienza sovietica, temono che l’Europa possa rivelarsi una gabbia da cui sia difficile uscire. Dobbiamo fugare questi timori. Nella “nota” presentata dal commissario Barnier nell’ottobre 2001 viene per la prima volta teorizzato il diritto di secessione degli Stati, cioè la possibilità di abbandonare l’Unione di fronte ad una revisione istituzionale cui si sia contrari. Fino ad ora, nelle Conferenze intergovernative, gli Stati membri si erano sempre accordati su testi che potessero essere accettati da tutti, arrivando, nelle ultime ore, a spasmodici compromessi che non lasciavano contento nessuno. Credo che sia nell’interesse di tutti abbandonare questa politica di “compromesso al ribasso”. Ritengo che ogni Stato dovrebbe avere il diritto di non associarsi ad una decisione che non fosse condivisa dal proprio paese. Al fine di non esercitare una coazione sugli Stati membri, l’Unione potrebbe prevedere formule di opting out, ogni qualvolta un singolo Stato ritenesse di non associarsi all’impegno dell’Ue su una specifica area. La formula dell’opting out è chiaramente preferibile a quella estrema della secessione che dovrebbe essere comunque garantita, senza penalizzazioni, a ogni popolo che con la stessa libertà con cui ha deciso di entrare nell’Unione stabilisca di uscirne.

L’introduzione dell’opting out mi sembra necessaria soprattutto per quanto riguarda le decisioni in materia di politica estera e di difesa dove, per altro verso, sarebbe necessario passare dall’unanimità al voto a maggioranza qualificata. L’Europa ha di fronte a sé una straordinaria opportunità: la possibilità di realizzare un progetto che riesca a combinare l’apporto insostituibile delle identità nazionali con quello, non meno necessario, di una struttura politica comune integrata a diversi livelli. Questo nuovo ruolo dell’Europa è divenuto cruciale soprattutto dopo la tragedia delle Twin Towers. L’aggravamento della situazione internazionale rende necessario che l’Unione europea definisca la sua identità e formuli una comune strategia, soprattutto per quanto riguarda la politica estera. Dobbiamo ammettere che oggi una delle questioni di fondo è rappresentata dall’assenza dell’Europa come soggetto attivo e autorevole nella politica internazionale. In questo campo dobbiamo trovare formule nuove che superino l’attuale tensione tra metodo intergovernativo e metodo comunitario. Si potrebbe pensare a una forma di rappresentante giuridico dell’Unione che agisca in nome e per conto degli Stati da cui ha ricevuto un preciso mandato o incarico, con lo scopo di realizzare quanto espressamente disciplinato nell’ambito del mandato stesso.
Incertezza e rischi si riducono se la politica estera e la difesa diventano europee; aumenta la democrazia internazionale perché non c’è più un solo Stato che si occupa della sicurezza del mondo; rafforzandosi la democrazia internazionale, si riduce l’anarchia e si rafforzano le democrazie nazionali e crescono anche le speranze di quei paesi che, avendo uno Stato, non hanno ancora la democrazia, tanto meno lo sviluppo.

Credo, comunque, che l’ambizione e l’efficienza della Pesc non possano essere determinate solo da formule istituzionali, ma dipendano dalla volontà politica. Le prime non possono sopperire alla carenza della seconda. Ma una volta che la volontà politica si manifesti, occorre che le sia data la possibilità di esplicare i suoi effetti. In questo senso, una maggiore forza politica dell’Europa sulla scena internazionale potrà nascere da un esercizio congiunto di sovranità degli Stati membri che deve esprimersi in una maggiore tempestività ed efficienza nell’azione. Una politica estera efficace deve essere coerente ed unitaria, riguardare tutte le relazioni contrattuali con i paesi in questione e, soprattutto, essere sostenuta anche da un adeguato strumento militare. L’Unione europea, nel dare concretezza alla Pesc, sta affrontando, infatti, una grande sfida di integrazione, pari per complessità e portata a quella attuata per la realizzazione della moneta unica. Un esercito europeo deve diventare la realtà del prossimo decennio, come è diventata realtà la moneta unica.

17 gennaio 2003

(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)
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