Il ritorno di Al Qaeda
di Stefano Magni
Una prima ondata di attentati, quali l’affondamento di una petroliera
francese al largo delle coste yemenite, l’attentato a due marine in
Kuwait e la distruzione di una discoteca a Bali, erano stati
interpretati come un vero e proprio ritorno all’azione di Al Qaeda.
L’attentato suicida del 28 novembre scorso contro l’Hotel Paradise di
Mombasa, frequentato da cittadini israeliani e il contemporaneo
tentativo di abbattere un volo di linea della compagni israeliana El Al
sono ancora atti terroristici senza risposta. Ma le indagini portano
sempre più indizi a favore della tesi che si tratti di un’azione di Al
Qaeda. Si parla della cellula islamica che opera nell’Africa orientale,
la stessa che si rese responsabile dell’attentato contro l’ambasciata
statunitense di Nairobi nel 1998. E’ una cellula affiliata ad Al Qaeda,
guidata dall’integralista islamico egiziano Abdullah Mohammed Fazul, lo
stesso che attentò alla vita del presidente egiziano Mubarak nel 1995.
E’ una cellula integrata fra i gruppi islamici radicali in Somalia, un
grande territorio privo di Stato circondato da realtà politiche fragili
e da confini “simili a spugne”, come li ha recentemente definiti un
ufficiale della Cia che opera nell’area. Si tratta ancora di ipotesi,
anche se ben fondate. Nel caso si dovesse trattare di un duplice
attentato di Al Qaeda, come gli attentati condotti nel mese precedente
nello Yemen, in Kuwait e in Indonesia, non si può che trarre una
sconfortante conclusione: Al Qaeda è ancora un’organizzazione
efficiente, in grado di operare su scala globale.
Il fatto che la principale base dell’organizzazione islamica,
l’Afghanistan, sia stata neutralizzata e sia ora controllata da un
contingente internazionale, evidentemente, non ha cambiato di molto le
cose. Perché Al Qaeda è sopravvissuta a quello che doveva essere un
colpo mortale? Una prima possibile risposta, la più evidente, è che il
leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, sia sfuggito all’attacco contro
l’Afghanistan. La “caccia a Bin Laden” si è conclusa con un nulla di
fatto. Ci si domanda ancora se il famosissimo leader islamico sia ancora
vivo o morto, con una quantità crescente di prove che dimostrano come
sia ancora vivo e in grado di dare ordini ovunque nel mondo. In un primo
tempo si pensava si fosse rifugiato, in incognito, nel Pakistan; poi si
disse che Bin Laden era ancora in Afghanistan. Ora il sospetto più
fondato è che si trovi, sempre in incognito, nel suo paese natale,
l’Arabia Saudita, nell’area desertica chiusa fra i confini dell’Oman e
degli Emirati Arabi Uniti, luogo che costituisce lo scenario di molti
filmati propagandistici di Al Qaeda. Il sospetto è cresciuto nel momento
in cui nella stessa capitale Ryad, i radicali islamici sono insorti fra
il 16 e il 17 novembre scorso. La rivolta è stata domata rapidamente e
non si è estesa oltre il sobborgo di Shaafa, ma viene vista da molti
come un chiaro segnale che “qualcuno” stia armando e preparando una
rivolta islamica nel cuore dell’Islam.
Attribuire tutti i meriti e le colpe al “grande vecchio” Osama,
tuttavia, può essere ingenuo. Ahmed Massoud, fratello del defunto “leone
dell’Afghanistan” sostiene che la differenza fra Al Qaeda e una
qualsiasi precedente organizzazione terroristica, è nella sua struttura:
non piramidale, ma a rete. Con una rete di cellule terroristiche
affiliate, che operano in modo del tutto autonomo, che sono radicate nel
loro territorio, ciascuna a modo proprio, non serve a nulla uccidere un
leader. Al di là del valore simbolico che l’uccisione o l’arresto di Bin
Laden potrebbe costituire, i risultati concreti sarebbero ben misera
cosa: tutte le cellule che già operano nel mondo, rimarrebbero sempre
intatte e in grado di agire. Morto un Bin Laden se ne farebbe un altro,
come sosteneva francamente quel manifestante pakistano citato più volte
da Oriana Fallaci.
Distruggere una rete terroristica così dispersa può apparire un compito
impossibile. In alcuni casi l’intervento dell’esercito, in altri
semplici azioni di polizia, possono tagliare una o l’altra testa
dell’idra, ma non risolvere il problema alla radice. Strangolare i fondi
che vanno ad alimentare la rete di Al Qaeda può essere un’altra
strategia credibile per soffocare la rete terroristica, ma anche in
questo caso il compito appare più difficile di quanto non si sia creduto
all’indomani dell’11 settembre. Il ministro dell’Interno saudita, il
principe Naif, gestisce i fondi Nawa, quei capitali che servono alla
promozione e alla diffusione dell’Islam nel mondo. Ufficialmente, questi
fondi sono destinati alla costruzione di moschee, di scuole, di
strutture sanitarie e assistenziali, ma esiste più di un sospetto che
finiscano anche nelle tasche dei leader di Al Qaeda, degli estremisti
islamici in Cecenia, in Pakistan, in Indonesia, nell’Africa occidentale.
L’Arabia Saudita si è mostrata del tutto sorda a rivedere la sua
politica o anche solo a rendere più trasparenti i suoi finanziamenti.
Gli Stati Uniti, d’altra parte, sembrano stranamente disinteressati al
caso saudita, tuttora considerato come un “alleato difficile”, ma con
cui è possibile trovare una “comune piattaforma d’azione”. In questi
mesi il loro sforzo diplomatico principale, nei confronti della
monarchia saudita, è teso a ottenere il suo appoggio nella guerra contro
l’Iraq.
6 dicembre 2002
stefano.magni@fastwebnet.it |