Commento. Quell'America che ci sorprende
di Pierluigi Mennitti

La vittoria repubblicana alle elezioni di mid-term è anche frutto dell'onda lunga dell'11 settembre. E se in Europa gli europei (siano essi tedeschi o francesi o inglesi o italiani) hanno messo la testa sotto la sabbia di fronte alle responsabilità della lunga guerra, negli Usa gli americani hanno deciso di volerla combattere in prima linea. E di volerlo fare al fianco del loro Presidente, quel George W. Bush che aveva strappato per un pugno di voti la poltrona della Casa Bianca e poi si era conquistato la leadership sul campo, quella mattina in cui si arrampicò sulle macerie fumanti di Ground Zero per abbracciarsi con i pompieri e gridare al mondo l'orgoglio suo e della sua nazione ferita.

Viene da lontano la vittoria dei repubblicani e porterà lontano. Non ce ne siamo accorti, qui in Italia, durante le ultime settimane di campagna elettorale, appesi come eravamo alle corrispondenze dei grandi giornalisti dei grandi giornali, che purtroppo - con qualche rara eccezione (penso all'ottimo Molinari sulla Stampa) - pestano le dita su tastiere troppo consumate per avere il buon gusto di calarsi nelle viscere del paese e raccontarci le sue vere pulsioni. Abbiamo così creduto che la popolarità del Presidente fosse in caduta rapida. Che gli elettori non approvassero la posizione della Casa Bianca sull'Irak. Che anzi fosse tutta una forzatura per sviare l'attenzione dei cittadini dalla crisi economica, come se quella crisi non fosse anche il risultato dell'11 settembre. Ci siamo lasciati cullare da interpretazioni che, sotto sotto, ricalcano la vulgata no global, divenuta la chiave di lettura di commentatori autorevoli: Bush è un pazzoide unilateralista, una sorta di Dottor Stranamore prigioniero di una visione militarista e imperialista della politica.

L'America, invece, resta un paese ferito e orgoglioso. Ma consapevole di avere una classe dirigente alla quale poter delegare (con forza rinnovata) la conduzione di una guerra lunga e difficile. L'America si sente in guerra. E' in guerra e avverte il fronte appena fuori l'uscio di casa. Mai come in questi mesi il fossato tra Stati Uniti ed Europa è stato così largo: ecco perché non li capiamo. Ecco perché gli articoli dei nostri corrispondenti ci hanno raccontato un'altra America, un'America che esisteva solo nelle loro teste di europei. Hanno sbagliato tutto senza nemmeno avere la prudenza dei sondaggisti che si sono astenuti dalla comunicazione degli exit polls. Dopo il voto di martedì guardiamo negli occhi questa America reale e non la riconosciamo. Non è pavida e spaurita. Non è perduta e indecisa. E neppure accomodante con chi ha deciso di deturparle la sua città simbolo trasformando due sontuosi grattacieli in un camposanto a cielo aperto. Non lo sarà neanche con i suoi alleati riottosi. E' bene saperlo perché da oggi si apre un'altra fase della guerra al terrorismo internazionale.

8 novembre 2002

pmennitti@ideazione.com

 

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