Analisi. La prima volta dei Repubblicani
di Andrea Mancia
Doveva essere la “grande rivincita” del partito Democratico. L’obiettivo
dichiarato era quello di riconquistare il controllo della Camera,
consolidare la maggioranza al Senato e – magari strappando una mezza
dozzina di governatori ai Repubblicani – affrontare nel migliore dei
modi la lunga rincorsa alle elezioni presidenziali del 2004. Fino a una
decina di giorni dal voto, la sensazione diffusa era che questo
ambizioso progetto potesse avere molte probabilità di successo. Terry
McAuliffe, presidente del Democratic National Committee, aveva
addirittura lanciato il suo guanto di sfida al presidente George W.
Bush, da qualche giorno impegnato in un capillare tour di sostegno ai
candidati GOP. “Spero che il presidente intervenga nel dibatitto di
tutti i confronti elettorali più equilibrati – aveva dichiarato un
euforico McAuliffe agli attivisti del suo partito in Florida – noi
saremo in televisione prima del suo arrivo, durante la sua permanenza e
nei giorni successivi. Sempre, in ogni caso e in tutte le città”. Nel
mirino dell’immaginario collettivo democratico c’era soprattutto il
governatore della Florida, Jeb Bush, considerato la vittima ideale per
eccitare la fantasia di elettori e simpatizzanti in vista del 2004. Ma
in gioco c’era la politica stessa dell’amministrazione repubblicana,
dalla guerra contro il terrorismo internazionale ai tentativi di
risanamento dell’economia nazionale. E tutto, compresa la decennale
tradizione delle elezioni mid-term (sempre sfavorevole al partito che
controlla la Casa Bianca), faceva presagire un cambiamento di rotta
favorevole ai Democratici. Si trattava di una senzazione clamorosamente
sbagliata.
Ad urne chiuse, il risultato elettorale è inequivocabile. Il partito
Repubblicano riconquista il controllo del Senato (51 seggi contro 47,
aspettando il “ballottaggio” in Louisiana), rafforza quello della Camera
(226-204, con tre seggi ancora da assegnare) e continua ad essere in
vantaggio nel conto dei governatori (25-21, anche in questo caso
Alabama, Arizona, e Oklahoma sono in bilico). Una vittoria senza
precedenti, che può essere spiegata da tre fattori principali:
l’effetto-Bush, le scelte intelligenti degli strateghi Repubblicani, la
vocazione al suicidio degli orfani di Bill Clinton e dell’Ulivo
mondiale. La decisione repubblicana di far scendere in campo la Casa
Bianca per ribaltare l’esito del voto, insomma, si è rivelata tempestiva
ed efficace. Anche perché il presidente è riuscito a fare campagna
elettorale insieme ai candidati locali, al contrario di Al Gore che in
ogni comizio si è limitato a ripetere la favoletta del
come-sono-sfortunato-mi-hanno-rubato-le-elezioni, il più delle volte
mettendo in difficoltà (più che aiutare) i propri colleghi di partito.
Invece di concentrarsi su inutili tentativi di rivincita, come quello
tentato dai Democratici in Florida, il GOP ha invece concentrato i
propri sforzi sulle “contended races”, massimizzando sforzi e denaro in
vista del miglior risultato complessivo possibile. Ed ha avuto ragione,
perché mai come in queste elezioni, la vera partita si è giocata in
poche sfide, isolate e decisive.
Le battaglie per la conquista dei seggi di Minnesota e Missouri, per
esempio, sono state essenziali per la riconquista repubblicana del
Senato. In Minnesota, lo spiraglio sì è aperto il 25 ottobre, con la
morte del senatore democratico uscente Paul Wellstone, scomparso insieme
alla moglie e alla figlia in un tragico incidente aereo. A sostituirlo
nel duello contro il repubblicano Norm Coleman, eccellente sindaco di
St. Paul dal 1993, il partito Democratico ha scelto in tutta fretta
Walter Mondale, vicepresidente di Jimmy Carter e vittima, nel 1984, di
una delle più clamorose disfatte del mondo “liberal” statunitense: la
seconda, larghissima vittoria di Ronald Reagan alle elezioni
presidenziali. Ma la scelta del vecchio dinosauro del welfare non è
stato l’unico errore tattico commesso dai Democratici. Ad indignare la
maggioranza dei cittadini del Minnesota, infatti, è stata la
commemorazione funebre in onore del senatore, trasformata in un comizio
politico di dubbio gusto (infatti era presente anche Clinton) che è
costato non pochi voti a Mondale. In Missouri è praticamente accaduta la
stessa cosa, ma con un paio d’anni di ritardo. A contendersi il seggio
senatoriale c’erano la democratica Jean Carnahan, vedova del senatore
Mel Carnahan, che è addirittura arrivata ad utilizzare l’immagine del
defunto nei suoi spot elettorali. Mossa che non le è bastata per battere
il candidato GOP, Jim Talent (davanti per poco più di 20mila voti).
Ancora una volta, dunque, il partito Democratico ha adoperato ogni
possibile mezzo per vincere. Ma ancora una volta è stato clamorosamente
punito dagli elettori. In Florida, il governatore Jeb Bush ha
letteralmente dominato sullo sfidante Bill McBride, distanziandolo di
quasi 800mila voti, malgrado l’enorme impegno finanziario profuso dai
Democratici nello stato. Nonostante le sconfitte di alcuni governatori
uscenti, come Scott McCallum in Wisconsin, il GOP ha conquistato il
Maryland con Robert Ehrlich dopo un dominio democratico di 35 anni, ha
vinto in Georgia con Sonny Perdue (più di 100mila voti di distacco
dall’uscente Roy E. Barnes), ha addirittura sfiorato il colpo
impossibile in California, dove fino a metà dello spoglio Bill Simon era
in vantaggio rispetto al democratico Gray Davis. E poi vittorie in
Arkansas, Colorado, Connecticut, Hawaai, Idaho, Massachusetts,
Minnesota, Nebraska, Nevada, New York, Ohio, Rhode Island, Soith
Carolina, South Dakota, Texas, Vermont.
Troppo complessi per essere analizzati compiutamente sono invece i
risultati della Camera, ma al rafforzamento della maggioranza
repubblicana hanno contribuito i seggi strappati ai deputati uscenti
democratici nel 5° (Virginia Brown-Waite) e nel 24° (Tom Feeney)
collegio della Florida, nel 2° collegio del Minnesota (John Kline) e nel
6° collegio della Pennsylvania (Jim Gerlach). Non si può non parlare,
poi, dello splendido successo di Katherine Harris nel 13° distretto
della Florida. L’ex segretario di Stato, massacrato da i media durante
il “recount” delle presidenziali 2000, si è sbarazzata con facilità (10
punti percentuali di vantaggio) del suo avversario democratico Jan
Schneider. Altre corse importanti vinte dai Repubblicani al Senato,
invece, sono state quelle di Saxby Chambliss in Georgia (53-46 contro il
senatore uscente Max Cleland), John Sununu nel seggio “aperto” del New
Hampshire (51-47 contro Jeanne Shaheen), Elizabeth Dole in North
Carolina (54-45 contro Erskine Bowles) e Lamar Alexander in Tennessee
(55-44 contro Bob Clement).
La metà abbondante degli Stati Uniti, insomma, ha scelto di stare dalla
parte di George W. Bush e del partito Repubblicano. E così, mentre il
leader democratico della Camera – Dick Gephardt – ha deciso di
percorrere
la strada delle dimissioni e il suo collega del Senato – Tom Daschle –
si appresta a fare lo stesso, il GOP si trova, per la prima volta dopo
la seconda guerra mondiale, di fronte alla storica possibilità di
governare nel pieno controllo delle istituzioni. Un’opportunità senza
precedenti, ma anche una responsabilità da affrontare con il massimo
impegno possibile. Anzi, qualcosa di più.
8 novembre 2002
anmancia@tin.it
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