Il soffio islamico dell'Asia
intervista ad Alessandro Grossato di Patrizio Li Donni

Un paese dalle forti contraddizioni interne, pericolosamente in bilico fra laicità e fondamentalismo islamico. Questo è oggi la Turchia, secondo il professore Alessandro Grossato, docente di Storia ed istituzioni dell'Asia Meridionale presso l'Università di Trieste e Gorizia, che sull'ingresso della Mezzaluna nell'Unione Europea ha una posizione controcorrente. E per nulla entusiasta.

Nell'era della globalizzazione che posizione occupa la Turchia nello scacchiere geopolitico?

L'aspetto che io, come orientalista e geopolitico dell'Asia, colgo di più, è quello di un'estrema fragilità dell'edificio laico dello Stato, quale sopravvive dalla fine della prima guerra mondiale. Secondo me ormai basterà un soffio di vento per farlo crollare definitivamente. Vedo, quindi, la Turchia come un paese a forte rischio e credo che la stessa crisi irachena, e soprattutto la paventata costituzione di uno Stato curdo a ridosso dei suoi confini meridionali sia potenzialmente un elemento di grossa destabilizzazione.

L'attuale classe politica turca sta cercando con insistenza di entrare nell'Unione Europea. Pensa che questo potrebbe giovare alla Turchia?

Credo che agganciarsi all'Europa servirebbe solo a prolungare l'agonia. Ma sicuramente un simile passo non sarebbe nell'interesse europeo, perché si tratterebbe di incamerare un corpo estraneo per cultura e dal punto di vista geopolitico. Tant'è che con un po' di malizia viene da pensare che chi dall'esterno insiste per l'ingresso della Turchia, abbia interesse a indebolire più che a rafforzare l'Unione stessa.

Questa volta ci si è spinti fino a Cipro, quindi il passo successivo potrebbe essere la Turchia.

Io avrei evitato anche questo, ma purtroppo la diplomazia oggi non è lungimirante e non tiene conto degli aspetti, storici, culturali e soprattutto religiosi. Infatti uno degli errori più frequenti commesso da molti osservatori, apparentemente esperti, è quello di considerare la rivoluzione laica di Ataturk come un dato acquisito quando in realtà non è affatto così. Basterebbe pensare al ruolo politico che ha avuto qualche anno fa la confraternita della Nachibandia, arrivando fino al governo.

Cos'è esattamente la Nachibandia?

La Nachibandia è una delle più importanti "Turuk", che in arabo vuol dire "vie dell'esoterismo islamico", quello che viene detto comunemente misticismo islamico. Erbakan, che fu primo ministro, era uno dei maggiori esponenti della Nachibandia. E il partito della Refah era il braccio politico della Nachibandia, che fu messo fuorilegge nel 1997. Anche tutte le "Turuk" ed il sufismo ufficialmente sono fuorilegge, ma dietro la basilica di Santa Sofia ci sono delle librerie gestite dalle "Turuk" che vendono i testi del sufismo e della mistica islamica. Questo per dire che il tessuto reale del paese è profondamente islamico, mentre il pilastro dello Stato resta l'esercito che ha un'impronta totalmente laica. Ma questo non basta; le oscillazioni, i sussulti, sia interni che esterni alla Turchia, potranno spezzare questo equilibrio apparente della società turca.

Anche per l'Italia sarebbe l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea poco favorevole?

Sì, perché l'Italia ha di fronte a sé il Mediterraneo che è per metà è islamico e quindi dovrebbe ragionare come un piccolo paese al confine dell'area asiatica e islamica. I veri confini sono quelli religiosi, non quelli politici, quindi il Mediterraneo è veramente un mare per metà asiatico dal punto di vista culturale. L'Italia dovrebbe misurare le sue azioni politiche sull'insieme e non sui singoli Stati. Dovrebbe concepire una linea politica articolata e sofisticata, come era la quella che aveva abbozzato tra la fine dell'Ottocento ed i primi del Novecento, quando la penetrazione italiana nelle aree islamiche era accompagnata da riviste italiane in lingua araba, da centri di cultura e da azioni di intelligence, abbinate ad uno studio profondo del territorio, della religione e delle confraternite.

Samuel Huntington, nel famoso libro "Lo scontro delle civiltà" ha parlato della Turchia come del possibile Stato guida del mondo islamico, sia per dimensioni che per posizione geopolitica. Se questo accadesse, potrebbe allontanare definitivamente l'area mediorientale dall'Europa?

Si certamente. Io definisco la Turchia un diapason, perché è sensibile a tutto quello che avviene nella cosiddetta "zolla islamica", come io preferisco definirla. La Turchia è come un gigante addormentato e l'interesse diplomatico che ha suscitato negli ultimi anni nasce anche dal fatto che potenzialmente è il referente di tutte le repubbliche ex sovietiche islamiche di etnia turco-mongola, che guardavano, e guardano tuttora, alla Turchia come ad un possibile faro. Se volesse essa potrebbe svolgere un ruolo geopolitico straordinario in Asia centrale. Non lo fa, perché la sua laicità attuale glielo impedisce e molti politici e militari guardano agli interessi del paese in senso stretto.

Dunque la Turchia potrebbe di nuovo diventare il centro di un'area panislamica, come ai tempi dell'Impero ottomano?

Il baricentro di quello che potrebbe essere "un nuovo califfato" oggi si è spostato verso Est, tra l'Afghanistan e l'India, perché le varie nervature che percorrono in maniera sotterranea il mondo islamico e che oltrepassano i confini nazionali, ormai si annodano nell'area nord-occidentale del sub-continente indiano.

Quali ripercussioni potrebbe avere la crisi irachena sulla Turchia? Crede davvero che, dopo la caduta di Saddam Hussein, possa costituirsi uno Stato curdo?

La prospettiva di uno Stato curdo è forse l'espediente usato dagli Stati Uniti per accattivarsi dei collaboratori sul territorio, ma è un po' come giocare con il fuoco. Il vero motivo del rallentamento dei preparativi bellici a livello diplomatico, è la mancanza assoluta di una prospettiva sicura per il futuro. I piani concepiti fino ad ora si scontrano con resistenze locali, cioè degli Stati del vicino Oriente, o europee. D'altra parte bisognerebbe chiedersi se l'Irak sia davvero l'obiettivo principale del vicino Oriente. O se queste apparenti esitazioni non siano in realtà il lancio dei fumogeni prima di un attacco.

Dunque l'obiettivo non è l'Irak?

Bisogna tenere a mente che esistono quattro obiettivi: l'Arabia Saudita, la Siria e l'Iran che è quello che ricopre maggiore interesse strategico. Però ritengo che la vera guerra sarà quella tra Cina e Stati Uniti. Tutte le mosse sono in vista di questo scontro, tant'è che le basi americane in Asia centrale sono presenti ben oltre l'Afghanistan, in Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan, a ridosso dei confini cinesi. Da oltre un decennio la Cina ha mire espansionistiche nelle aree bloccate con la "bona occasio" dell'intervento in Afghanistan.

C'entrano forse gli oleodotti per il trasporto del petrolio?

Certamente sono un aspetto importante ma non quanto il pericolo geopolitico di una ricomposizione, anche parziale, dell'area islamica che coinvolga anche le ex repubbliche sovietiche.

8 novembre 2002

freccia@libero.it


(da Emporion n. 18, 23 ottobre 2002)

 

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