Prospettive. La scommessa di George W. Bush
di Stefano da Empoli
E' destino di George W. Bush essere sottovalutato. Fin dai tempi in cui
decise di correre per il governatorato del Texas nelle elezioni del
1994. Un'elezione anche quella di mid-term per un presidente, Bill
Clinton, in carica da due anni. Allora finì in un trionfo per Bush
junior, che espugnò il fortino democratico del Texas, contro
un'avversaria alla vigilia popolare come Ann Richards, e in un'autentica
Caporetto per il presidente in carica, che in un colpo solo perse la
maggioranza alla Camera e al Senato e, per l'appunto, alcuni Stati
simbolo. Forse il ricordo non totalmente sbiadito di quegli eventi ha
convinto il presidente e il vice-presidente di allora (il redivivo Al
Gore) a scendere in campo pesantemente nelle prime elezioni di mid-term
che hanno seguito la loro Amministrazione, per cercare una rivincita ex
post. Solo che, per loro sfortuna, l'esito della contesa ha come al
solito lasciato sul terreno gli avversari di Bush, il cui coraggio oggi
come allora è stato premiato.
Molti analisti repubblicani negli scorsi mesi consigliavano infatti a
Bush di disinteressarsi del risultato di novembre. Un Presidente di
grande popolarità ma eletto per il rotto della cuffia appena due anni fa
non poteva permettersi di perdere prestigio e consenso, sporcandosi le
mani in una lotta dall'esito incerto. Tanto più che una Camera e un
Senato in mano ai democratici poteva paradossalmente far comodo allo
stesso presidente repubblicano. Che in un possibile blame game, in vista
del rinnovo del mandato nel 2004, avrebbe potuto rinfacciare ad un
Congresso da lui non controllato alcuni insuccessi politici. Una
soluzione bizantina che a un texano come Bush deve essere parsa lontana
anni luce dal suo temperamento naturalmente votato all'irruenza. Un po'
come se John Wayne, invece di sparare agli indiani, avesse deciso di
farci una grigliata insieme. Non sarebbe stato più John Wayne.
Bush ha quindi deciso giustamente di recitare la parte di George Walker
Bush. E a lui come a John Wayne la fortuna ha puntualmente sorriso.
Proiettandolo verso il traguardo del 2004 come il primo presidente
repubblicano della storia a vincere le elezioni di midterm (non c'era
riuscito neppure Ronald Reagan). Una bella dote di capitale politico,
che però non va dissipata. A iniziare dai prossimi mesi, da qui a
gennaio, quando si insedierà il nuovo Congresso. Le dimissioni di Harvey
Pitt, il presidente della Sec, la Consob americana, sono un primo
segnale incoraggiante. Per gestire al meglio il trionfo esultare non
basta. Occorre, anzi, approfittarne per prendere decisioni impopolari e
di rottura con il passato, prima che la luna di miele si esaurisca. Se
la politica per la sicurezza interna ed esterna non ha bisogno di subire
grandi correzioni di rotta (anche perché è risultata quella più premiata
dagli elettori), la politica economica appare in cerca di timonieri più
capaci degli esistenti. Perché è vero che l'economia americana è,
nonostante tutte le incertezze, sufficientemente forte da poter
viaggiare con il pilota automatico, a differenza di quella europea, ma
ogni tanto anche il pilota automatico va resettato.
In particolare, il team economico di un'amministrazione americana è un
punto di riferimento importante per i mercati finanziari, complementare
al Presidente della Fed. Deve dare insomma l'impressione di poter
prendere rapidamente i comandi in una situazione di crisi, senza far
schiantare la macchina nel frattempo. Pochi, anche tra i repubblicani,
negano che il team attuale non sia adatto allo scopo, a cominciare dal
ministro del Tesoro Paul O'Neill. Le cui frequenti gaffes sono diventate
argomento di intrattenimento divertente. Ma hanno finito per fargli
perdere il rispetto dei mercati (di cui senz'altro godeva, a torto o a
ragione, Robert Rubin, ministro di Clinton). Che poi è l'unico che conta
veramente. Di lì e da altri posti chiave (come anche la Sec, in tempi di
scandali finanziari) dipende più che da ogni altro il destino futuro di
Bush.
8 novembre 2002
sdaempol@gmu.edu
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