Perché gli Usa possono agire da soli
di Stefano Magni


Nonostante lo scetticismo che domina il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Bush non sembra essere in difficoltà nel riproporre con vigore la sua intenzione di agire, anche militarmente, contro l’Irak. “Il più grande fallimento seguito al discorso tenuto da Bush presso le Nazioni Unite - sostiene l’editorialista statunitense Robert Tracinski - non consiste nel suo tentativo di rinnovare inutili ispezioni sulle armi in Irak. Consiste nell’aver tenuto quel discorso: l’aver scelto di subordinare il potere americano di fare una guerra alle procedure e ai dettami delle Nazioni Unite”. Un parere fortemente unilateralista che, benché non dichiarato, pare essere condiviso dalla Casa Bianca. A voler ben vedere, infatti, il consenso dell’Onu e degli alleati europei degli Stati Uniti, è solo una mera formalità e incomincia ad essere vissuta come tale.

Non si tratta nemmeno di attendere una legittimazione internazionale prima di compiere un atto di forza. Un intervento unilaterale statunitense, anche senza una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza che l’autorizzi, è perfettamente legale, stando agli studi del think-tank conservatore Heritage Foundation. Per quattro ragioni fondamentali. In primo luogo Bush, assistito da Blair, sta mirando a dimostrare la pericolosità immediata dell’Irak sul piano militare. Una volta accertato che l’Irak stia minacciando la sicurezza militare degli Stati Uniti (soprattutto dimostrando l’esistenza di evidenti legami con organizzazioni terroristiche internazionali e l’impegno nel dotarsi di missili a lungo raggio), questi ultimi hanno diritto di difendersi, anche mediante un attacco preventivo. Il diritto di attaccare preventivamente un paese terzo, nel caso di una minaccia esplicita da parte di quest’ultimo, è sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.

Secondo: gli Stati Uniti possono agire in base a precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che autorizzano l’uso della forza. Dal 1990 è in vigore la risoluzione 678, che prevede l’uso di “tutti i mezzi necessari” non solo a garantire il ritiro delle forze armate irakene dal Kuwait, ma anche a “restaurare una condizione di pace e di sicurezza nella regione”. Una risoluzione valida anche in questi stessi giorni: anche se le forze irachene sono state cacciate dal Kuwait, il conflitto fra iracheni e forze della Coalizione è tuttora in corso, sia pure con un’intensità minore rispetto a quella di una guerra aperta. Oltre alla risoluzione 678, sono in vigore altre 60 risoluzioni contro l’Irak.

Terzo: l’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite sancisce che, al fine di garantire la sicurezza internazionale, occorre “prendere misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace”. Anche nel caso in cui Saddam Hussein non costituisca una minaccia diretta per gli Stati Uniti, dunque, non ci sono dubbi che il suo regime, i suoi armamenti di distruzione di massa e la sua aggressività nei confronti di Israele e di altri vicini arabi moderati, costituiscono una minaccia per la pace regionale. Dunque, anche in questo caso, un intervento statunitense sarebbe pienamente legittimo sul piano del rispetto del diritto internazionale. Infine, la Costituzione degli Stati Uniti permette di mobilitare e impiegare le forze armate statunitensi per prevenire una minaccia esterna alla propria sicurezza militare. Per poter mobilitare l’esercito, la Costituzione prevede l’approvazione parlamentare. Non l’approvazione di paesi o istituzioni sopranazionali esterni agli Stati Uniti.

Che possano agire anche da soli, gli americani lo sanno. Semmai sono i governi europei che si ostinano a considerare qualsiasi atto unilaterale eventualmente compiuto dagli Stati Uniti come un’azione illegale e riprovevole, quasi fossero gli Stati Uniti (e non l’Irak) uno “Stato canaglia”. A questo proposito la distanza fra certi governi europei (soprattutto la Francia e la Germania) e la Commissione europea da una parte e gli Stati Uniti dall’altra, non può che aumentare a dismisura. Anche un diplomatico prudente e filo-europeo come Kissinger è giunto all’esasperazione per l’atteggiamento più che scettico tenuto dalle cancellerie europee. “Non siamo un branco di pazzi guerrafondai: l’Irak è un pericolo reale” sembrano dire unanimemente gli americani a diplomatici e ministri europei sempre più sordi alla loro voce.

11 ottobre 2002

stefano.magni@fastwebnet.it

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