Medio Oriente, Bush e il tramonto di Arafat
di Emanuele Ottolenghi
Che il mondo arabo debba essere governato da despoti e satrapi, stretto
nella morsa della povertà e disperazione, non è una legge della natura.
Storicamente, fino al sedicesimo secolo, gli arabi erano culturalmente e
scientificamente più avanzati, le loro terre più ospitali e la loro
società più tollerante dell’Europa dei roghi di libri e di persone.
Certo, da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e oggi il mondo
arabo soffre di repressione, povertà, arretratezza e sovrappopolamento.
Il punto è che il presente declino del mondo arabo non deve esserne per
forza il futuro inevitabile sancito da un destino inappellabile.
Ecco perchè la nuova dottrina Bush per il Medio Oriente dovrebbe essere
applaudita e sottoscritta per quello che è: un riconoscimento di due
verità talmente ovvie che occorreva che qualcuno le annunciasse con
chiarezza e semplicità. La prima riguarda le cause, la seconda le
soluzioni dei mali del mondo arabo, Palestina inclusa. La causa non è né
la “malvagia” America, né “l’ancor più malvagia” Israele, bensì ha
radici endogene: a meno che naturalmente si voglia credere che se
Israele domani sparisse come per incanto, il contadino del delta del
Nilo, con i suoi dieci figli a carico, senza assegni familiari, scuola
gratuita, mutua e pensione, protetto dalle intemperie solo da un tetto
di paglia in una casa di una stanza, senza soldi per pagare la dote
delle figlie, diventerebbe improvvisamente un borghese benestante.
La soluzione per tale situazione è che il mondo arabo si prenda la
responsabilità delle proprie azioni e abbia il coraggio di decidere
quale sarà il proprio futuro. Quali scelte occorrono? L’abbandono del
nepotismo, al governo come nell’economia, la rinuncia di regimi
despotici gestiti come feudi medievali, l’eliminazione della corruzione
istituzionalizzata, dei monopoli di Stato e delle inefficienti
amministrazioni che approvano e servono solo grazie al pizzo e a un
cugino ben piazzato. L’alternativa deve essere indirizzata a sfruttare
l’enorme serbatoio di talento, ricchezza e potenziale di qualità che una
società così vasta senza dubbio possiede. Il discorso di Bush si è
concentrato sulla Palestina, ma potrebbe essere applicato all’intera
regione.
La dottrina Bush sostiene una soluzione pacifica del conflitto tra
Israele e i palestinesi, e contrariamente ad analisi superficiali, non è
stata elaborata ad hoc per Ariel Sharon. Bush ha detto chiaro e tondo
che Israele dovrà ritirarsi dai territori e smantellare gli
insediamenti, dovrà accettare uno Stato palestinese con cui convivere
pacificamente. Ma ha anche ammonito i palestinesi: è ora di smetterla di
fare le vittime e accusare Israele, l’America e il resto del mondo per
ogni male, ogni errore, ogni opportunità persa. È ora che i palestinesi
(e gli arabi) decidano il proprio destino e il proprio futuro attraverso
una coraggiosa presa di responsabilità invece di lasciar che altri
scrivano la loro storia. Perché nel secondo caso, la loro lotta potrà
anche continuare in eterno, ma il loro futuro sarà uguale al loro
passato: disperato e impotente, come il resto del Medio Oriente.
Ma una presa di responsabilità, per quanto dolorosa, difficile e irta di
rischi, porterà i frutti che i palestinesi si meritano: se scelgono la
strada delle riforme, della democrazia e della coesistenza pacifica con
lo Stato ebraico, se abbandonano il terrorismo e depongono quei leader
che hanno dato loro solo illusioni e sofferenze, i palestinesi
otterranno quanto vogliono, e non soltanto perchè l’America sosterrà la
loro indipendenza, ma anche perché, così facendo, essi conquisteranno
non soltanto la libertà nazionale, ma anche la libertà politica nel loro
futuro Stato.
E tutto questo è ingenuo e semplicistico? O rappresenta invece una
rivoluzione di pensiero sul Medio Oriente, che consegna alla storia
tutte le ipocrisie di settant’anni di intervento occidentale in una
regione governata dall’incompetenza, dalla corruzione e dalla brutalità,
e che porta alla ribalta una nuova visione di coinvolgimento fondata non
soltanto sul petrolio e sulla stabilità di chi ce lo vende (satrapi o
monarchi illuminati poco importa), ma anche sulla democrazia e la
prosperità economica? Coloro che accusano Bush di aver ceduto alla
“potente lobby israeliana” sono inetti a capire lo straordinario
cambiamento di politica estera nella nuova Casa Bianca repubblicana:
spiegare politiche che uno non approva come una conseguenza del “potere
ebraico” è solo il riflesso automatico di un odioso pregiudizio, non la
voce esperta di un sapiente analista della politica.
Quanto alla pace in Medio Oriente, la verità è altrettanto chiara, anche
se a molti non piace: Arafat forse è l’unico palestinese che ha oggi
l’autorevolezza per firmare un trattato di pace con Israele, ma quando
ne ebbe l’opportunità preferì la violenza. Per sua stessa ammissione in
una recente intervista al quotidiano israeliano Ha’aretz, Arafat si è
detto rammaricato per non avere accettato le proposte Clinton del
dicembre 2000. E allora, dopo più di duemila vittime, centinaia di
famiglie distrutte, due economie devastate, un’intera generazione di
giovani persa nell’odio che non morirà con la firma di un accordo, il
lider maximo della rivoluzione palestinese dichiara di aver fatto uno
sbaglio e che gli dispiace. A tutti dispiace. E secondo i criteri che si
usano dalle nostre parti, la dichiarazione di Arafat – quello stesso
leader che da quarant’anni conduce i palestinesi da un disastro
all’altro – rappresenta un’ammissione di fallimento che non offre
appelli e seconde chances. E Arafat non dovrebbe andarsene? Non dovrebbe
pagare per i propri errori? Chiedere che se ne vada significa cedere
alle pressioni di Sharon o della mitica “lobby israeliana”?
Come ha di recente dichiarato l’intellettuale Palestinese Edward Said in
un editoriale apparso sul quotidiano inglese The Independent, “Arafat ha
interesse soltanto a salvare se stesso”. E prosegue sostenendo che
Arafat “ha avuto dieci anni di libertà per governare il suo piccolo
reame, ed è riuscito ad attirarsi solamente disprezzo e obbrobrio”. E se
una figura di spicco e integrità intellettuale come Said dice che Arafat
è irriformabile, che cosa dovrebbe dire allora la Casa Bianca? Il
discorso di Bush presenta senza dubbio alcune zone d’ombra. Ma il suo
grande merito sta nel rivelare il bluff sul quale si costruisce la
politica estera in molte capitali arabe ed europee. Che Arafat sia
necessario per fare la pace in Medio Oriente è una pia illusione. Che
egli possa liberare la Palestina e trasformarla in una pacifica e
prospera democrazia è ancor più surreale. Una volta, forse, con tutta la
sua romantica teatralità e istinto di sopravvivenza, era un simbolo di
speranza per le masse palestinesi. Oggi, è soltanto un ostacolo.
5 luglio 2002
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