Medio Oriente in fiamme
di Emanuele Ottolenghi


Iniziato nel settembre 1993 con la firma della Dichiarazione di Princìpi tra l'allora primo ministro israeliano Rabin e il capo dell'organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, il processo di Oslo ha rappresentato una svolta storica nell'intricato contesto mediorientale. I due nemici storici, Israele e l'Olp, mettevano fine al loro ormai storico conflitto riconoscendosi l'un l'altro, e si impegnavano a risolvere la loro disputa in maniera amichevole attraverso il negoziato diplomatico. Israele riconosceva l'Olp come il legittimo rappresentante del popolo palestinese, l'Olp riconosceva lo Stato di Israele. Entrambi si impegnavano solennemente e formalmente a porre fine al loro conflitto in maniera negoziale e sulla base delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu 242 e 338. In quanto meccanismo di risoluzione del conflitto israelo-palestinese, Oslo aveva indubbiamente una dimensione locale. Tuttavia, al di là della retorica che lo ha sempre accompagnato, Oslo va inteso come frutto di una nuova realtà geo-politica regionale. La fine della Guerra fredda e la nuova alleanza di fatto tra Israele e il fronte arabo moderato unitosi agli Stati Uniti contro l'Iraq di Saddam Hussein durante la seconda Guerra del golfo crearono nel 1991 le condizioni per l'apertura di un dialogo tra Israele e mondo arabo e stabilirono le premesse per la creazione di un nuovo assetto regionale. Oslo è il prodotto di questa visione. La necessità di contenere e neutralizzare la minaccia fondamentalista rese attraente l'opzione di compromesso territoriale per gli israeliani e di normalizzazione con Israele per il mondo arabo. In altre parole, la visione strategica di Oslo comportava la divisione del Medio Oriente in tre cerchi concentrici. Il primo cerchio è il conflitto israelo-palestinese sui territori occupati e sul diritto di Israele a un'esistenza entro confini sicuri. Il secondo cerchio è il conflitto tra Israele e i paesi arabi confinanti. Il terzo cerchio è la regione intera, con le possibili nuove sfide e minacce geo-politiche provenienti da oriente. Per contenere il pericolo proveniente dal terzo cerchio, occorreva trasformare il secondo cerchio in una zona non conflittuale; per modificare le relazioni internazionali della seconda fascia da conflittuali a cooperative, occorreva necessariamente risolvere il conflitto esistente all'interno del primo cerchio, cioè il conflitto locale tra Israele e Palestina. Di fronte alla minaccia proveniente da Oriente il prezzo del compromesso di Oslo diveniva non solo conveniente ma persino desiderabile alla luce dei collaterali vantaggi geo-strategici che offriva.

Il prezzo di questo accomodamento reciproco per fronteggiare la minaccia comune a tempi brevi passava necessariamente per un accordo pieno tra Israele e l'Olp, senza il quale la pace sarebbe risultata impossibile. La combinazione dei fattori sopraelencati produsse la consapevolezza del governo israeliano di Rabin, eletto nel giugno 1992, che occorreva raggiungere in fretta un accordo che potesse capitalizzare sul nuovo assetto geo-politico della regione e potesse far fronte più efficacemente alle nuove sfide strategiche all'orizzonte entro la fine del millennio. Il processo di Oslo ha subìto alti e bassi, si è ripetutamente incagliato su ostacoli imprevisti o volutamente posti, a turno, sia dagli israeliani che dai palestinesi, e ha sofferto ritardi e intoppi: il fenomeno del terrorismo suicida e la difficoltà di Arafat di intervenire a prevenirlo, la continuazione della politica di insediamento israeliana, l'instabilità politica israeliana di tutti gli anni Novanta, l'assassinio di Rabin sono alcuni dei fattori che hanno rallentato l'applicazione del processo di Oslo e che ne hanno diminuito la legittimità agli occhi degli elettori israeliani e del pubblico palestinese. Nonostante le dovute riserve sull'applicabilità degli accordi, sulle vere intenzioni delle parti, sulla viabilità del processo di Oslo, l'accordo e le conseguenze politiche da esso creato hanno determinato la natura e la direzione delle trattative e dei rapporti tra Israele e mondo arabo tra il 1993 e l'estate del 2000 quando, fallito l'ennesimo tentativo di mediazione americana tra Siria e Israele, il negoziato israelo-palestinese ritornava alla ribalta con un vertice tra l'allora primo ministro israeliano Ehud Barak, il presidente americano Bill Clinton, e il leader palestinese Yasser Arafat.

Il vertice di Camp David, durato due settimane tra l'11 e il 25 luglio 2000, si concludeva con un nulla di fatto, e l'accusa del presidente americano ad Arafat di essere stato il maggior responsabile del fallimento di Camp David. Il vertice veniva peraltro seguito da attività diplomatica tra le parti durante agosto e settembre, ma l'intero edificio di Oslo entrava in crisi allorché alla fine di settembre 2000, a seguito della visita di Ariel Sharon - leader del partito israeliano di opposizione Likud - al Monte del Tempio/Nobile Santuario, si scatenava la nuova Intifadah palestinese. Durante l'estate del 2000, l'opinione pubblica israeliana era convinta che la pace fosse questione di settimane, al massimo mesi, e persino dopo il ritorno dell'allora primo ministro Barak da Camp David, il 60 per cento dell'elettorato israeliano era pronto a sostenere un compromesso territoriale che includesse la creazione di uno Stato palestinese territorialmente contiguo, l'evacuazione di parte degli insediamenti israeliani nei territori occupati, la divisione di Gerusalemme, e la rinuncia israeliana sulla strategicamente fondamentale valle del Giordano, lungo i confini con la Giordania. Anche dopo l'infruttuoso vertice l'accordo appariva vicino e la società israeliana era già sintonizzata a un'era di pace e cooperazione con il mondo arabo e il futuro Stato palestinese, dove le centrali questioni politiche sarebbero tornate a essere principalmente le questioni domestiche: identità nazionale, economia, conflitti sociali, istruzione, sanità ed ambiente. Lo scoppio dell'Intifadah è stata quindi una doccia fredda per i sostenitori della pace e una sorpresa per molti in Medio Oriente e in Occidente, visto che nessun osservatore occidentale aveva notato lo stato di ebollizione dei territori occupati e pochi hanno compreso che il fallimento del vertice di Camp David derivava da una sostanzialmente incolmabile distanza tra le parti.

Dall'estate del 2000 sono passati quasi due anni, durante i quali le speranze di pace sono diventate pie illusioni. Il processo di Oslo è crollato, travolto dalla nuova Intifadah palestinese, che ha prodotto più di mille e cinquecento vittime da ambo le parti. La maggior parte delle vittime israeliane sono civili uccisi in atti di terrorismo. La maggioranza delle vittime palestinesi è composta da giovani, adolescenti e bambini. Più di 10.000 palestinesi sono portatori di handicap come conseguenza di ferite riportate negli scontri con l'esercito israeliano e negli atti di rappresaglia contro il terrorismo. Le due economie, condannate a essere interdipendenti e in larga misura integrate, hanno sofferto più del dovuto, anche grazie alla globale recessione e ai nefasti effetti dell'11 settembre. Lo stato d'assedio imposto da Israele ai territori ha privato molti lavoratori palestinesi del sostentamento, alzando drammaticamente il livello medio di disoccupazione e sussistenza nei territori a oltre il 50 per cento. L'industria turistica israeliana, il settore edilizio e agricolo sono bloccati e migliaia di lavoratori hanno perso il posto. Il flusso degli investimenti stranieri, attirati in passato dall'alta tecnologia e dall'alta concentrazione di manodopera specializzata e ad alto livello di istruzione, si è momentaneamente fermato. Le principali agenzie internazionali hanno abbassato il rating dell'economia israeliana a causa della corrente situazione di conflitto. Il mondo arabo ha reimposto il boicottaggio economico di Israele, ha interrotto le relazioni diplomatiche e i contatti commerciali con lo Stato ebraico, e persino Egitto e Giordania hanno richiamato i rispettivi ambasciatori.

Il Medio Oriente del 2002 ricorda di più quello degli anni Settanta, non il "nuovo" assetto regionale che si sperava di creare dopo la fine della Guerra fredda e la seconda Guerra del golfo. Oltre le familiari immagini del conflitto locale tra israeliani e palestinesi si staglia minacciosa l'ombra di missili ballistici intercontinentali che l'Iran otterrà entro cinque anni, l'acquisizione di tecnologia nucleare in Iran, lo sviluppo di tecnologia nucleare e altre armi non convenzionali in Iran e Iraq, e il facile accesso ad armi non convenzionali di organizzazioni terroristiche come al-Qaida. L'occasione della decade appena conclusa sembra sfumata, e Oslo appare non l'inizio di una nuova èra nei rapporti tra israeliani e arabi, bensì un breve e anomalo interludio nelle regolari tendenze a cui la regione ci ha abituati dagli anni Trenta in poi. Oltre l'orizzonte del conflitto locale si staglia la realtà del nuovo Medio Oriente del ventunesimo secolo, non caratterizzato da pace, frontiere aperte, cooperazione regionale e prosperità economica, bensì dalla proliferazione di armi non convenzionali, dalla penetrazione del fondamentalismo e da un radicalismo religioso che attraverso il terrorismo minaccia vaste aree del pianeta. Gli eventi dell'11 settembre sono in questo senso la cartina di tornasole del nuovo Medio Oriente, eventi di cui il conflitto israelo-palestinese non è la causa né tantomeno il fattore scatenante, bensì una componente collaterale minore ma non per questo meno importante di un nuovo più ampio conflitto geo-politico.

Oslo a Camp David

L'elezione di Ehud Barak, candidato laburista alla guida del governo israeliano, nel maggio 1999, diede nuovo impeto al processo di Oslo e alle speranze di pace della regione. Il nuovo governo, per quanto diviso sulla natura del compromesso territoriale da offrire all'Autorità palestinese, rappresentava senz'altro una svolta importante nella ripresa dei negoziati, dopo tre anni di stallo dell'èra Netanyahu. Tuttavia, la breve e illusoria opportunità presentatasi di poter raggiungere un accordo di pace con la Siria nell'autunno del 1999 rallentò il negoziato coi palestinesi a favore della pista siriana. Solo dopo il fallimento delle trattative coi siriani, naufragate al vertice Clinton-Assad di Ginevra del marzo 2000, il primo ministro israeliano accelerò il negoziato coi palestinesi, facendo chiara la sua intenzione di arrivare a breve ai negoziati sullo status finale, che il processo di Oslo aveva stabilito dovessero concludersi cinque anni dopo il periodo interinale, iniziato con la firma degli accordi del Cairo a maggio del 1994. L'annunciato ritiro unilaterale israeliano dal Sud del Libano, e la morte, tre settimane dopo, del presidente siriano Assad, rese la pista siriana irrilevante per tutto il periodo di transizione al potere in Siria e forse anche oltre e riportò quindi alla ribalta il processo di Oslo.

La creazione di canali ufficiali e più discreti (come il canale segreto di Stoccolma) permisero di produrre modesti progressi, che indicarono come un vertice dei leaders potesse sbloccare la situazione. Nonostante le reticenze palestinesi - dovute anche al fatto che gli israeliani non avevano mai attuato le clausole territoriali dell'Accordo di Wye (rinegoziato a Sharm el-Sheik nel settembre 1999) e che quindi essi si trovassero in una posizione negoziale particolarmente debole - il vertice fu convocato per luglio 2000 a Camp David. L'esplosione di una mini-Intifadah nei territori a maggio del 2000 e la rapida erosione della coalizione di Barak resero comunque urgente il raggiungimento di un accordo, poiché appariva chiaro che senza di esso il governo Barak sarebbe uscito di scena e l'opportunità di concludere il processo di Oslo sarebbe ancora una volta sfumata. In più, acuti osservatori palestinesi avevano chiarito già nella primavera del 2000 che l'erosione di legittimità di Arafat e lo scontento nei territori provocato sia dal malgoverno dell'Autorità palestinese sia dalla mancanza di progresso sul fronte diplomatico sarebbero presto sfociati nella rivolta.

Il vertice, durato due settimane, fallì soprattutto per l'incapacità di Arafat di cogliere l'opportunità dell'offerta israeliana. Nonostante gli ovvi limiti, dal punto di vista palestinese, che tale offerta presentava; da un punto di vista territoriale e politico Barak era pronto sia a considerare quasi tutte le richieste palestinesi, che a negoziare seriamente un'eventuale controproposta di Arafat (mai avvenuta). Privo ormai di maggioranza politica in Israele, ma forte del sostegno popolare, Barak era disposto a concedere su quasi tutto a Camp David, pur di ottenere un accordo. I suoi limiti erano costituiti dalla questione dei rifugiati, dal futuro assetto dei luoghi sacri all'ebraismo e dalle considerazioni di sicurezza per lo Stato. Sul fronte palestinese la mancanza di preparazione e coordinazione, le rivalità interne alla delegazione, le ambiguità di Arafat, e lo scarso sostegno del pubblico palestinese nei territori e nella diaspora dei rifugiati, produsse un irrigidimento delle posizioni, soprattutto su Gerusalemme e la questione dei rifugiati palestinesi. Timoroso di un pubblico mai preparato al costo politico di un compromesso con Israele e prigioniero della sua stessa retorica bellicosa che mai aveva indicato ai palestinesi la necessità di rinunciare a parte del progetto politico del movimento di liberazione nazionale, Arafat preferì seguire gli umori della sua opinione pubblica, invece che influenzarla a seguirlo in decisioni coraggiose ma dolorose, che si imponevano come prezzo per ottenere uno Stato indipendente. Sulla questione territoriale l'offerta israeliana si attestò intorno al 94 per cento della Cisgiordania e Gaza, con disponibilità a considerare eventuali scambi territoriali a ovest della linea verde in cambio del mantenimento di sovranità territoriale israeliana su alcuni insediamenti (il Blocco Etzion a Sud di Betlemme, Ma'aleh Adumim a Est di Gerusalemme e Ariel a Sud di Jenin), e di controllo israeliano di fatto di una sottile striscia nel settore settentrionale della Valle del Giordano. I palestinesi erano disposti a concedere al massimo il 4 per cento, senza rinunciare alla Valle del Giordano.

In materia di sicurezza gli israeliani demandarono il controllo dello spazio aereo palestinese e il suo uso per scopi militari (addestramento e libertà d'azione in caso di emergenza/guerra); la presenza di basi e stazioni militari di rilevamento radar nella Cisgiordania; la completa demilitarizzazione dello Stato palestinese. I palestinesi accettarono in parte tali condizioni, pur ponendo riserve sulla questione dello spazio aereo, e della natura della presenza militare all'interno del loro territorio, preferendo osservatori internazionali. Se su tali questioni l'accordo poteva essere raggiunto, su Gerusalemme e sui rifugiati l'irrigidimento della posizione palestinese dimostra non soltanto una forte dipendenza dalle pressioni del mondo arabo e della comunità palestinese nella diaspora, ma anche una ambiguità che indica come le differenze tra le parti fossero probabilmente incolmabili. Su Gerusalemme il nodo cruciale era la città vecchia e il controllo dei luoghi santi, più facile la divisione tra quartieri arabi ed ebraici. Entrambe le parti accettarono che i quartieri cristiano e mussulmano diventassero palestinesi, che il quartiere ebraico con il Muro del Pianto rimanesse israeliano eche vi fosse qualche sorta di spartizione del quartiere armeno che garantisse a Israele un corridoio di accesso al quartiere ebraico. Ma per quanto riguarda il luogo santo comune a ebrei e musulmani - il Monte del Tempio/Nobile Santuario - le successive offerte israeliane di condominio, sovranità di fatto, sovranità del suolo ai palestinesi e del sottosuolo a Israele, furono tutte rifiutate.

Sui rifugiati l'offerta israeliana di accogliere circa 50.000 rifugiati palestinesi nel corso di dieci anni come atto umanitario, unita alla disponibilità di contribuire generosamente a un fondo internazionale per l'assorbimento dei rimanenti rifugiati nello Stato palestinese o altrove, fu rifiutata. La richiesta israeliana di includere nella questione rifugiati anche il risarcimento di 700.000 rifugiati ebrei espulsi dai paesi arabi dopo la guerra del 1948 e assorbiti da Israele fu anch'essa rigettata da parte palestinese. I palestinesi per contro richiesero che gli israeliani riconoscessero una piena ed esclusiva responsabilità nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi a seguito della guerra del 1948, concedessero almeno come principio il "diritto al ritorno" dei rifugiati e dei loro discendenti in Israele (circa 4 milioni), e si impegnassero a pagare il costo della loro integrazione. Al lato pratico il numero di rifugiati che Israele avrebbe dovuto assorbire si attestava, secondo le richieste palestinesi, intorno al mezzo milione a breve termine. La distanza tra le due posizioni, non eccessiva e forse percorribile in termini territoriali, era senz'altro incolmabile in termini esistenziali, sia sulla questione simbolica di Gerusalemme, sia sulla questione più tangibile e sostanziale della natura e assetto demografico dei due stati al termine del negoziato. Infatti, se Israele si fosse preso la responsabilità del problema dei rifugiati e avesse loro riconosciuto un 'diritto al ritorno' non v'è garanzia che i 3-4 milioni di persone registrate presso l'Unrwa come rifugiati palestinesi non ne avrebbero fatto uso. L'afflusso di rifugiati palestinesi in Israele, cosa demandata con insistenza da parte palestinese e araba fino ad oggi, significherebbe nel lungo periodo la modifica dell'equilibrio demografico all'interno di Israele, con la fine entro un decennio dell'esistenza di una maggioranza ebraica nel paese, la conseguente fine dell'esistenza di uno Stato ebraico e la trasformazione di Israele in una seconda Palestina, accanto allo Stato palestinese che sarebbe dovuto sorgere su Cisgiordania e Gaza a termine del negoziato di Oslo. La questione dei rifugiati, più di ogni altra cosa, ha creato dopo Camp David l'impressione condivisa da gran parte del pubblico israeliano, che la posizione palestinese riflettesse il desiderio nel lungo periodo di distruggere Israele - non più attraverso la lotta armata proclamata dall'Olp negli anni Sessanta, ma con l'arma demografica.

L'Intifadah al-Aqsa

Il vertice di Camp David non fermò il dialogo tra le parti, che continuò in maniera più discreta durante agosto e settembre con piccoli passi avanti. A livello pubblico e internazionale però la pressione crebbe principalmente su Arafat, visto come il principale responsabile del fallimento dei negoziati. Messo all'indice, Arafat trascorse la più parte dell'estate a cercare consensi e sostegno politico nel mondo arabo e islamico, cosa che peraltro venne a mancare. Fu questa situazione di quasi stallo nei negoziati, fragilità politica del governo Barak e isolamento diplomatico di Arafat a far da cornice all'Intifadah, scoppiata il 29 settembre 2000, all'indomani della visita del leader dell'opposizione israeliana Sharon al Monte del Tempio/Nobile Santuario. La visita fu permessa da Barak dopo essersi consultato coi palestinesi, che al momento non posero obiezioni. Avendo annunciato pubblicamente la sua intenzione di dividere Gerusalemme coi palestinesi, Barak non poteva impedire la visita di Sharon, capo dell'opposizione, al luogo simbolo dell'ebraismo. La visita per altro apparve al pubblico palestinese come una provocazione e servì da casus belli. Le ripetute e sostanziate accuse israeliane ad Arafat di avere volutamente innescato la crisi e pianificato la rivolta a partire dal fallimento dei negoziati di luglio non convincono completamente, dato che esistono moltissime prove che una rivolta poteva scoppiare in qualsiasi momento e visto che la rivolta si è rapidamente trasformata in aperta sfida ad Arafat stesso e alla sua autorità.

Probabilmente non si saprà mai quanto attivo sia stato il suo ruolo nello scatenare la nuova Intifadah. Una cosa però è certa: una volta scoppiata la rivolta, Arafat ne vide gli indubbi vantaggi, e cercò politicamente di sfruttare la situazione a beneficio della posizione palestinese. Se fino a fine settembre Arafat era stato accusato del fallimento dei negoziati e Israele godeva di credito diplomatico per aver fatto il possibile per raggiungere un accordo, il rinnovo dello scontro militare impari tra palestinesi e israeliani permise nelle prime settimane dell'Intifadah di cambiare completamente l'immagine delle due parti, con Israele di nuovo nella parte dell'oppressore e Arafat nel ruolo del leader guerrigliero impegnato in una giusta lotta di liberazione nazionale. Il prezzo politico per riguadagnare il favore diplomatico è stato però enorme, ed esistono seri dubbi che Arafat abbia valutato le possibili conseguenze della sua scelta di sostenere, sia pur tacitamente la nuova Intifadah. Forse il ritorno alla trattativa senza tangibili risultati priverebbe Arafat di legittimità: da qui l'impossibilità (e la mancanza di volontà) del leader palestinese di riuscire a interrompere la rivolta. Da beneficiario della situazione, Arafat ne è divenuto gradualmente ostaggio.

L'enorme pressione su Israele e la unanime condanna internazionale delle reazioni militari israeliane alla rivolta avrebbero potuto fruttare ad Arafat molti punti sul terreno diplomatico, e spinto Israele a maggiori concessioni. In due occasioni, al vertice di Parigi dell'8 ottobre e al vertice di Sharm el-Sheik del 17 ottobre, Arafat ebbe l'occasione di riportare Israele al tavolo negoziale dietro pressione internazionale, di capitalizzare sul prezzo di sangue pagato nelle prime settimane di scontri, in cambio di un risoluto intervento per arrestare la violenza nei territori. Forse convinto che la continuazione della violenza avrebbe ottenuto risultati ancora migliori, Arafat decise di non intervenire nel modo previsto dagli accordi. La scelta di Arafat di proseguire nel conflitto rimane a tutt'oggi un enigma, e si possono dare tre risposte, non necessariamente alternative: 1) Il ritiro israeliano dal Libano è stato visto dai palestinesi, erroneamente, come un modello da imitare: solo sotto la pressione della violenza e delle perdite umane Israele avrebbe concesso quanto non era disposto a offrire in un negoziato diplomatico. Tale lettura della situazione scoraggia un'interruzione delle ostilità che preceda il ritiro israeliano dai territori occupati. 2) La mancanza di legittimità nel concludere un accordo con Israele poteva essere riguadagnata con un alto prezzo di sangue sul campo che creasse il mito di una guerra di indipendenza vinta contro un nemico superiore, al posto di uno Stato ottenuto per grazia ricevuta da un nemico vittorioso alle condizioni da esso imposte. Per poterne essere leader, Arafat doveva essere visto come colui che capeggia la rivolta, o almeno doveva evitare di ostacolarla. 3) La continuazione della violenza con il rischio di escalation avrebbe potuto condurre alla regionalizzazione del conflitto o alla sua internazionalizzazione, con intervento esterno europeo ed americano e soluzione imposta con la forza di osservatori e sanzioni a Israele; tale soluzione sarebbe stata più favorevole alla posizione palestinese che non a quella israeliana.

Tutte e tre le spiegazioni sono plausibili e non si contraddicono. Convinto che la continuazione del conflitto avrebbe ottenuto ulteriori concessioni israeliane, un possibile coinvolgimento internazionale a favore dei palestinesi, un eventuale intervento diretto del mondo arabo, e una riaffermazione di dignità palestinese, Arafat preferì probabilmente temporeggiare e attendere l'ottenimento di tangibili risultati prima di intervenire a interrompere la rivolta. Ciò che è sicuro è che per permettere all'Intifadah di raggiungere gli obiettivi prefissi, senza che Arafat venisse accusato dalla comunità internazionale di essere responsabile della situazione, Arafat ha deciso di rinunciare al monopolio della forza nelle aree sotto il suo controllo e giurisdizione. Nel fare ciò ha delegato a forze come Hamas e la Jihad el-Islami, e alle milizie paramilitari a lui vicine di al-Fatah e del Tanzim la funzione di combattenti. Questa decisione ha aperto un vaso di pandora che difficilmente può essere ora richiuso. Tali organizzazioni, infatti, hanno acquistato sempre maggior autonomia operativa e decisionale, mentre i loro leaders hanno visto la propria legittimità politica e il proprio seguito accrescere. Quindi la loro disponibilità ad accettare direttive e limitazioni imposte da Arafat si è man mano ridotta. La situazione che ne è derivata è di un'erosione dell'autorità di Arafat e del suo Stato in fieri, dell'apparizione di nuovi leaders la cui legittimità e credibilità è stata conquistata sul campo e che mette in discussione, e limita fortemente, l'autorità e la legittimità di Arafat di interrompere la rivolta e ritornare al negoziato. A quasi due anni dallo scoppio dell'Intifadah, la rivolta ha conquistato una sua autonomia e ragion d'essere che impedisce ad Arafat, anche se lo volesse, di interromperla, a meno che non sia disposto a pagare l'altissimo e rischioso prezzo di una guerra civile palestinese. Da qui la situazione di impasse attuale, dove non si può sperare in un ritorno al negoziato né, tantomeno, alla fine della violenza.

La politica di Sharon

Il governo Sharon si è trovato a far fronte a una situazione ingestibile, dove la pressione internazionale e locale a riattivare il processo di Oslo andava necessariamente equilibrata dall'obbligo di ogni governo di proteggere i propri cittadini. Le misure per ristabilire la sicurezza nella vita quotidiana di Israele divennero la priorità del governo, mentre la possibilità di riaprire il negoziato non poteva essere esclusa a priori, pena l'isolamento diplomatico. Va da sè che questo fattore imponeva dei limiti al tipo di responso militare adottato da Israele. Sharon ha quindi mantenuto una posizione principalmente reattiva, lasciando ai palestinesi l'iniziativa, ma rispondendo alla violenza con un'escalation graduale sia militare che simbolica. Le rappresaglie si sono intensificate, la politica di uccisioni mirate è continuata, e l'esercito ha stretto l'assedio alle città palestinesi in maniera sempre più dura. La libertà di movimento di Arafat è stata progressivamente limitata, fino al forzato arresto domiciliare a Ramallah, e dopo mesi di disattese promesse di azione contro il terrorismo, Sharon ha dato mano libera all'esercito di entrare nei campi profughi a rastrellare armi illegali e terroristi. Oggi più che mai il Medio Oriente necessita di terapie d'urto. La crescente tensione che è palpabile in tutto il mondo arabo potrebbe non tardare ad esplodere e a ritorcersi contro gli attuali governanti: la rabbia difficilmente porta pazienza. In tutto questo, Israele e gli Usa sono diventati i facili bersagli del rancore popolare non perché esista un rapporto di causa effetto tra questi due paesi e la povertà, umiliazione e ingiustizia di cui soffrono le società mediorientali.

Paradossalmente si potrebbe dire che forse se Israele non esistesse, il mondo arabo avrebbe dovuto inventarla. E che se il conflitto con Israele terminasse, le èlites al potere dovrebbero fare i conti con lo stato di salute delle loro società, la cui cura con tutta probabilità ne mette a rischio il potere. Paradossalmente quindi, la continuazione del conflitto serve come scusa ai governanti arabi per non adottare le necessarie riforme, e per rimanere così saldamente al potere. L'ostacolo principale al nuovo Medio Oriente oggi è la difficoltà di buona parte del mondo arabo di riformarsi e di affrontare le sfide poste dalla globalizzazione economica e dalla modernità che l'accompagna. Chi nel mondo arabo abbraccia questi valori e teme il fondamentalismo e le sue conseguenze, non potrà, dopo l'11 settembre, continuare a trovare scuse dietro l'ingiustizia. La soluzione del conflitto israelo-palestinese in termini di compromesso territoriale è un principio sacrosanto da sottoscrivere in maniera incondizionata. Ma nel lungo periodo l'imposizione di questa soluzione a Israele senza che la regione accetti di unirsi all'Occidente e alle sfide che tale scelta comporta non fa altro che rimandare il prossimo scontro militare tra Israele e paesi limitrofi, questa volta in una regione animata da sentimenti estremi, popolata da milioni di disperati, e guidata da regimi privi di legittimità ma dotati di armi non convenzionali. E l'onda lunga di tale conflagrazione non tarderebbe ad inondare anche l'Europa.

7 giugno 2002

(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)


 

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