Italia. Il ritorno della politica estera
di Pierluigi Mennitti
Nell'arco di una sola settimana, a metà del mese di aprile, l'Italia è
salita agli onori della cronaca internazionale per due avvenimenti che
gli osservatori non hanno esitato a definire "storici". L'intesa
Nato-Russia per la creazione di un nuovo organismo di cooperazione a 20,
che include in posizione non più subalterna anche Mosca, la cui firma
verrà apposta nel vertice di fine maggio in Italia. Il raggiungimento,
con la sessantesima ratifica, del numero necessario al varo della Corte
penale internazionale, un tribunale mondiale permanente che giudicherà i
responsabili di crimini contro l'umanità, crimini di guerra e genocidio.
Nell'intesa Nato-Russia decisivo è stato l'impegno italiano, il lungo
lavoro di raccordo che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha
saputo tessere fra George Bush e Vladimir Putin, per superare le
reciproche diffidenze e condurre in porto una trattativa che rappresenta
il tassello più concreto nel nuovo sistema di sicurezza mondiale dopo
l'11 settembre. Nel varo del tribunale penale internazionale, decisivo è
stato il lavoro del Partito radicale e di alcune associazioni che gli
gravitano attorno (fra tutte l'Ong "Non c'è pace senza giustizia",
ispirata nel 1994 da Emma Bonino) e l'apporto del precedente ministro
degli Esteri Lamberto Dini. Due risultati importanti che, comunque li si
voglia giudicare (e a noi pare assai positivo il primo - l'intesa con la
Russia - e denso di incognite il secondo - il varo della Corte penale),
hanno dimostrato quanto il ruolo del nostro paese sullo scenario
internazionale, se ben svolto, possa essere tutt'altro che secondario.
In realtà, sono almeno cinque anni che, in Italia, la politica estera ha
preso il sopravvento rispetto a quella che siamo soliti considerare come
politica interna. Senza neppure che ce ne accorgessimo, l'agenda
politica dei governi, anche del nostro governo, si è infittita di
appuntamenti internazionali, di priorità "estere", rispetto agli anni
precedenti. Se oggi al centro dell'attenzione pubblica vi sono temi come
la sicurezza e la guerra al terrorismo internazionale, l'Europa, la
globalizzazione, l'interesse nazionale nel mondo, le relazioni con i
paesi dell'ex Europa orientale (Russia in primo piano) piuttosto che
temi più specificatamente "interni", qualcosa vorrà pur dire. Negli anni
Novanta, in Italia, prevalevano come priorità temi quali le riforme
istituzionali, la transizione politica, le riforme economiche e sociali.
Non che questi argomenti siano scomparsi, o divenuti meno urgenti, o che
su di essi non si giochi ancora la competizione elettorale delle
coalizioni partitiche. Sono, semplicemente, scivolati in seconda linea
rispetto a preoccupazioni e interessi che proiettano il nostro paese
verso l'esterno. Anzi, essi stessi sono diventati temi cruciali in
quanto possono consentire all'Italia di meglio competere nel mercato
globale, di operare con prestigio sulla scena mondiale, di acquisire
rango e responsabilità nelle organizzazioni internazionali. La fine
della Guerra fredda resta lo spartiacque attorno al quale ruota il
cambio di un'era. Lo scongelamento dei blocchi politici e ideologici -
frutto di una lunga competizione fra sistemi economici e tecnologici
delle due superpotenze - ha rimesso in moto tutta una serie di dinamiche
che in questi dodici anni hanno prodotto cambiamenti e scombussolamenti
ai quali non eravamo preparati. Come italiani abbiamo vissuto il
progressivo coinvolgimento in questioni estere proprio perché questo
disgelo ha raggiunto i nostri confini, sulle coste opposte
dell'Adriatico: le vicende tumultuose dell'Albania, poi quelle tragiche
dell'ex Jugoslavia, con la nascita dei nuovi Stati balcanici e la
drammatica guerra civile, una guerra nel cuore dell'Europa. E violenze,
stragi, campi di concentramento, profughi, cecchini, mine, missili,
attacchi aerei sono entrati nella vita quotidiana di ciascuno di noi,
rendendoci consapevoli di quanto decisiva sia, per la nostra sicurezza,
la capacità di affrontare e risolvere i problemi degli altri.
Dall'11 settembre 2001, poi, lo scenario è mutato di nuovo. Siamo ancora
troppo dentro gli avvenimenti scaturiti dall'attacco del terrorismo
fondamentalista islamico a New York e Washington per poter valutare
appieno i cambiamenti che si stanno producendo. Eppure, alcune linee di
tendenza sembrano delinearsi e, all'interno di esse, gli Stati dovranno
operare nei prossimi anni. Non v'è dubbio che la questione della
sicurezza abbia preso il sopravvento rispetto a tutto il resto. Rispetto
anche alla necessità, ormai riconosciuta da tutti, di realizzare davvero
quell'ordine mondiale attorno a nuovi valori e nuove istituzioni che
senza successo si era provato a disegnare negli anni Novanta. Le
tendenze emerse sull'onda dell'emergenza terroristica hanno rilanciato
gli Stati Uniti alla guida del mondo occidentale nella reazione contro
il fondamentalismo. L'elezione di un repubblicano alla Casa Bianca aveva
illuso gli americani di poter tirare i remi in barca lasciando che il
mondo regolasse da sé conflitti regionali e diatribe interne. Seguendo
la presunta tradizione conservatrice dell'isolazionismo (non suffragata
però dai fatti in questi ultimi decenni), si credeva che gli Usa
avrebbero pensato un po' più ai fatti propri, invece che fare i
guardiani in giro per il mondo. Ma l'attacco dei fondamentalisti ha reso
evidente che lo scontro, da parte della componente più agguerrita del
mondo islamico, era giunto al massimo livello. Nel mirino c'erano
proprio gli Stati Uniti, il loro territorio, i loro cittadini. E con gli
Usa noi tutti, parte integrante di un sistema
economico-politico-culturale che definiamo "Occidente". Il conflitto
latente, che Bill Clinton aveva colpevolmente potuto e voluto
procrastinare, è esploso, infine, nella forma più violenta e crudele.
Ogni volta che la minaccia si fa seria, l'Onu dimostra tutta la sua
inadeguatezza sul piano operativo. Dunque gli Stati Uniti hanno preso il
comando delle operazioni e hanno steso una rete di alleanze a geometria
variabile, bypassando le organizzazioni internazionali e rafforzando di
nuovo il ruolo degli Stati nazione, che una scuola di pensiero assai di
moda negli anni Novanta aveva dato per spacciati. La Casa Bianca tratta
direttamente con la Gran Bretagna, con la Francia, con l'Italia, non con
la Nato o con l'Unione europea. E profondo è stato il rinnovamento degli
equilibri geo-politici emersi nel lungo lavoro diplomatico di
Washington, che ha prodotto l'eclissi dell'Europa e la centralità
dell'area asiatica e del Pacifico. Questa novità, che molti osservatori
europei hanno cercato di esorcizzare e minimizzare, è apparsa di tutta
evidenza quando George Bush ha intrapreso in ottobre il suo viaggio in
Oriente, il primo dopo l'attacco terroristico all'America, per
partecipare a Shangai al Forum dell'Apec, il vertice della cooperazione
economica dell'area Asia-Pacifico. Da quell'incontro, e da altri che si
sono poi succeduti, è nata la nuova strategia americana che salta
(geograficamente, politicamente e - temiamo - anche economicamente)
l'Europa e rimbalza nell'area asiatica attorno alla quale ruotano grandi
malati come il Giappone, giganti emergenti come la Cina, continenti
floridi come l'Australia, paesi turbolenti e vivaci come le Tigri del
Sud-Est. Con loro gli Stati Uniti hanno intrecciato relazioni che
possono disegnare un nuovo equilibrio mondiale, ritenuto necessario sia
per vincere la lunga guerra contro il terrorismo, sia per governare
politicamente il fenomeno della globalizzazione. Ma, almeno per quel che
riguarda l'offensiva contro il fondamentalismo, dopo l'Afghanistan si
assiste a un'impasse che sembra dovuta più a un'incertezza strategica
che operativa. Riconoscere, dunque, agli Usa la leadership globale per
guidare e portare a compimento il processo necessario di global
governance è un atto di sano realismo. Quella di tirarsi fuori da questa
sfida, e magari provare a percorrere l'illusoria strada della mediazione
fra gli Usa e i paesi canaglia (quelli che giocano col terrorismo), è
una scelta scellerata che l'Europa dovrebbe evitare di percorrere. Non
c'è più spazio, in campo internazionale, per una politica di
intermediazione, come dimostra il fallimento della diplomazia europea
nell'ultima crisi mediorientale. Ma una presenza europea qualificata al
fianco degli americani sarebbe auspicabile per condividerne le
responsabilità e avere voce in capitolo nelle decisioni.
Il ritorno dello Stato nazione apre, come si è detto, nuovi scenari
anche per l'Italia, che non deve abbandonare la nave dell'Unione
europea, che con tanta fatica abbiamo contribuito a costruire e che
rappresenta un destino necessario per affrontare con maggior forza le
sfide della globalizzazione. Tanto più oggi che, varata la moneta unica,
la Convenzione si appresta a elaborare una Carta costituzionale che
dovrebbe far compiere all'intero continente il salto di qualità
auspicato. E' bene però dismettere l'idea ingenua che l'Europa sia
un'entità sacra e non criticabile, l'ennesimo totem ideologico al quale
votarsi dopo il fallimento delle utopie totalitarie del secolo passato.
L'Europa che abbiamo costruito, e che continueremo a costruire, ad
allargare e a rimodellare per tenerla al passo con i tempi, è una casa
che funzionerà (e ci sarà utile) solo in quanto sapremo infondervi le
nostre idee, i nostri interessi, le nostre esigenze. Ma dato a Bruxelles
quel che è di Bruxelles, sbaglieremmo ancora a ritenere che l'Europa
possa esaurire tutte le nostre esigenze in politica estera. L'Italia ha
specificità e interessi che può utilmente perseguire anche
singolarmente, dal momento che spazi ampi di manovra sono ritagliati
anche a misura degli Stati nazionali. E allora è necessario che questo
benedetto paese, le sue istituzioni politiche e culturali, militari,
economiche mettano bene a fuoco qual è l'interesse nazionale.
Recuperando innanzitutto le tradizionali linee geo-politiche che hanno
fatto la fortuna dell'Italia. paese marittimo e non terrestre, per il
quale il mare non è un limite o un confine naturale; al contrario invita
alla navigazione, alla scoperta, all'avventura. paese centrale e non
periferico, proiettato dopo l'apertura dell'ex blocco comunista al
centro dell'Europa, ponte naturale tra Est e Ovest e tra Nord e Sud, e
come tale costretto all'azione, destinato a espandersi o ad essere
invaso: in ogni caso obbligato a non essere mai neutrale. paese globale
e non regionale, in ragione della sua vocazione marittima che ne esalta
le qualità commerciali e mercantili, dell'adattabilità a paesi e
situazioni diverse dei suoi abitanti, della flessibilità del suo sistema
di imprese capaci di muoversi ed espandersi nelle aree più lontane: una
tradizione che inorgoglisce un paese capace di annoverare personaggi
come Marco Polo e Cristoforo Colombo.
Da questo profilo discendono alcune linee di politica estera obbligate
nei prossimi mesi. L'attenzione verso l'Est, ad esempio, i paesi
dell'Europa centrale e orientale, la regione danubiana, i Balcani. E'
un'area che ha in buona parte superato le emergenze degli anni di
transizione dal sistema comunista a quello democratico, dall'economia
collettivista a quella di mercato. Secondo gli operatori finanziari
internazionali, l'Europa centro-orientale è divenuta un'area di sicuro
rifugio per gli investimenti. Molti Stati sono ormai alla vigilia
dell'ingresso nell'Unione europea. E anche nei Balcani, sino a qualche
anno fa martoriati dalla guerra civile, la situazione politica ed
economica sembra rapidamente stabilizzarsi. E allora l'Italia deve porsi
l'obiettivo di intensificare i rapporti con questi paesi, potenziando i
sistemi di comunicazione verso Est, spingendo per la realizzazione dei
corridoi pan-europei di trasporto già progettati (Corridoio 5:
Trieste-Lubiana-Budapest-Kiev; Corridoio 8:
Durazzo-Skopje-Sofia-Burgas-Varna). Ottimo il lavoro diplomatico svolto
dall'attuale ministro degli Esteri ad interim, Silvio Berlusconi, nei
confronti della Russia, paese essenziale per la stabilità dell'Europa
centro-orientale e partner appetibile nei rapporti economici. Bisognerà,
inoltre, completare rapidamente quella rivoluzione culturale annunciata
dallo stesso Berlusconi alla Farnesina per dotare anche l'Italia di
ambasciatori e funzionari capaci di rappresentare gli interessi
economici al fianco di quelli politici. Nell'economia globalizzata sono
i sistemi-paese che si confrontano e il ruolo degli ambasciatori deve
essere di supporto alle esportazioni del proprio paese. Il made in Italy
ha una forza straordinaria di penetrazione nei mercati, è un nostro
pregiato biglietto da visita. Le relazioni d'affari e i rapporti
economici sono strumento di pace e di rafforzamento dei rapporti fra gli
Stati. L'Italia, semmai, arriva ultima, tra i paesi industrializzati, a
questa riforma del proprio apparato diplomatico. Ma si tratta di un
altro buon segnale nel senso di una politica estera finalmente
riscoperta. L'importante, adesso, è non fermarsi.
7 giugno 2002
(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
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