Russia e Nato: l’Occidente è alle porte
di Giuseppe Mancini
L’Occidente è alle porte. In senso geografico, ora anche in senso
politico. Il summit tra Putin e Bush, a Mosca e San Pietroburgo dal 23
al 26 maggio, il nuovo rapporto tra Nato e Russia formalizzato il 28 a
Pratica di Mare, dovrebbero rappresentare i pilastri di una nuova
partenership. La Guerra fredda è morta da tempo, questa è la giusta
occasione per farle finalmente il funerale.
Ma cos’ha da offrire l’Occidente alla Russia? Da parte degli Stati
Uniti, in verità, le proposte sembrano eccessivamente timide. Sin
dall’inizio del suo mandato presidenziale, Putin ha infatti compiuto un
vigoroso riposizionamento in politica estera, operando anche all’interno
per una convinta ripresa delle riforme verso lo stato di diritto e
l’economia di mercato. Soprattutto dopo l’11 settembre, la Russia ha
appoggiato con convinzione le operazioni belliche in Afghanistan,
inghiottendo senza troppe rimostranze l’amaro boccone della presenza
militare degli Usa in Asia centrale (ed ora, anche in Georgia). I frutti
di quest’apertura di credito sono però insoddisfacenti: un trattato per
la riduzione degli armamenti nucleari (una riduzione di due terzi degli
arsenali in dieci anni, ma senza l’obbligo di distruzione delle
testate), una possibile futura forma di cooperazione nel progetto di
difesa spaziale anti-missili, l’avvio di una concertazione in materia
energetica.
L’unica conquista concreta è la creazione di una cornice bilaterale,
blandamente istituzionalizzata, che dovrebbe favorire la cooperazione in
politica estera e nelle relazioni economiche. Insomma, quasi un trattato
di amicizia e cooperazione, ma senza la necessaria solennità; un impegno
fatto intuire, ma che non c’è. Probabilmente, le aperture di Putin
avrebbero meritato una più convinta ricompensa, da spendere nei
confronti di quelle élites russe ancora riluttanti ad accettare la
svolta, la competizione dei seggi elettorali e dei mercati. Un
ricompensa, ad esempio, che portasse all’eliminazione dell’emendamento
Jackson-Vanik, un relitto della Guerra fredda che lega esplicitamente lo
status commerciale della Russia (dell’Unione sovietica di ieri) al
livello di emigrazione ebraica permesso; oppure, alla dichiarazione
formale della Russia come “economia di mercato”, con i vantaggi -
giuridici ed economici - che tale riconoscimento comporta nei rapporti
commerciali con gli Stati Uniti. Lo hanno impedito, ufficialmente, dei
meccanismi burocratici inaggirabili; è mancato, in buona sostanza, il
coraggio politico.
Quel coraggio politico che, invece, ostenta Silvio Berlusconi. Il nuovo
capitolo dei rapporti tra Nato e Russia è il più eclatante successo in
politica estera del premier italiano: un Consiglio a 20, in cui il
consenso di Mosca sarà determinante, e non più facoltativo (cioè, del
tutto irrilevante), nella cooperazione in materie così delicate come la
lotta al terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di
massa, la difesa missilistica e le operazioni di peacekeeping. Un primo
passo verso il pieno inserimento della Russia nella rinnovata Europa:
nelle sue strutture di sicurezza, nei suoi meccanismi di interscambio
economico, soprattutto - in prospettiva - nelle sue istituzioni
politiche.
24 maggio 2002
giuse.mancini@libero.it
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