Fortuyn, il cortocircuito tra paese reale e paese legale
di Barbara Mennitti


In Italia la prima immagine che abbiamo visto di Pim Fortuyn è stata quella del suo corpo esangue, steso sull’asfalto, con un buco in testa e la mano infilata in un sacchetto di plastica trasparente, per cercare di fermare l’emorragia, mentre in sottofondo una voce ci raccontava che si trattava del Le Pen olandese, dell’Haider dei tulipani. Ironia vuole che il professore stesse lasciando gli studi radiofonici, dove aveva appena dichiarato che, se fosse stato francese, si sarebbe turato il naso e avrebbe votato per Chirac. Ironia vuole che il “cattivo” professore di destra sia stato ucciso da un “buono” per definizione, un attivista ecologista e animalista, che trovava imperdonabile lo scarso impegno del leader per le questioni che tanto gli stavano a cuore. Ma questi sono solo due dei dettagli che rendono questa storia così singolare.

Noi Pim Fortuyn lo abbiamo conosciuto soprattutto dalle parole e dalle lacrime degli olandesi, quando siamo arrivati a Rotterdam convinti di trovarci in mezzo a estremisti rapati e con gli anfibi e ci siamo invece trovati in una sorta di tragedia nazionale. La prima cosa che ci ha colpito è che nei vari luoghi di raccolta per testimoniare la propria presenza (la villetta di Fortuyn, il municipio, il luogo dell’omicidio e piccola cattedrale cattolica) non c’era una singola tipologia di persone. Semplicemente c’erano tutti. Coppie di mezza età distinte e ben vestite, studenti arruffati, vecchiette, tifosi del Feyenoord con la maglietta della loro squadra, rasta, coppie di punk, motociclisti con i loro giubotti di pelle, neri e indiani, molti di più di quanto avremmo potuto immaginare, troppi per essere solo persone che non capiscono. Tutti in fila con il loro mazzolino di fiori in mano e gli occhi arrossati dal pianto. Molti erano venuti da altre città olandesi “per dimostrare il loro rispetto”. Perché dovevano esserci. E’ dalle parole di questi cittadini olandesi che vi vogliamo raccontare Pim Fortuyn.

Pimchen, come lo chiamano in maniera vezzegiativa qui, ha portato una ventata di freschezza nell’ingessata politica olandese. Eccentrico e passionale nella vita reale, si è tuffato in quella politica infischiandosene dei tabù e del politically correct, rifuggendo dagli eufemismi e toccando tutti gli argomenti più scabrosi. Come l’immigrazione, come la convivenza con gli islamici, come la criminalità. E le persone si sono riconosciute in lui, hanno amato la sua irruenza e hanno scoperto che anche loro avevano qualcosa da dire e volevano dirla. E quando lo hanno perso, hanno sentito di aver perso uno di loro e si sono sentiti lontani come non mai dai politici e dall’establishment olandese. “Dov’è Beatrice?” gridava la folla arrabbiata al funerale di Fortuyn, invocando la regina che non c’era. Che aveva scelto di stare lontana dal suo popolo.

Radjesh ha 24 anni, è del Suriname, lo abbiamo incontrato fuori dalla chiesa mentre si arrampicava sulle inferriate per fare un’ultima foto al feretro bianco, traboccante di fiori, di un leader bianco e xenofobo. “Non era un razzista – ci spiega concitato – è una invenzione dei politici ipocriti che temevano la sua popolarità”. Una signora poco lontano ci dice: “Stiamo scrivendo la storia”, e per quanto esagerata questa frase possa sembrare, in quel momento non era fuori luogo, sembrava davvero di assistere a un risveglio di massa, a una presa di coscienza epocale. Poi si accorge di aver detto una frase grossa, ci guarda e aggiunge con le lacrime: “Non vogliamo trasformare Pim in un santo, è solo che ci manca”. Chissà se il giovane ambientalista omicida aveva fatto i conti con tutto questo.

24 maggio 2002

bamennitti@hotmail.com

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