I limiti della diplomazia
di Pierluigi Mennitti


Recrudescenza dell'interminabile conflitto israeliano-palestinese? O nuova puntata della guerra fra Occidente e integralismo islamico, questa volta giocata sul terreno più sensibile, quello del Medio Oriente? Qualunque sia la risposta che le cancellerie si stanno dando, in queste ore sembra aver ripreso fiato l'iniziativa diplomatica. Non sempre con successo, non sempre con le idee chiare. Gli Stati Uniti sono in prima fila, unico paese in grado di poter influenzare la politica degli israeliani perché unico a non aver mostrato ambiguità nei confronti di Gerusalemme: dunque l'unico del quale Sharon e il suo popolo si fidano. Ma anche gli Usa ondeggiano fra posizioni che dovranno trovare una composizione finale. Da un lato la componente repubblicana raccolta attorno al vicepresidente Dick Cheney e al vicesegretario alla Difesa, Paul Wolfowitz, favorevole all'iniziativa di Sharon, considerata di legittima difesa dopo settimane di stragi e attentati perpetrati dai terroristi suicidi per le strade di Israele. Dall'altro la vecchia guardia, interpretata dalla competenza di Colin Powell, tradizionalmente legata ai paesi arabi moderati, che considera legittima ma pericolosa la china presa dall'intervento militare israeliano nei territori: un rischio di infezione per l'intera area mediorientale.

Sullo sfondo, per gli Stati Uniti, resta l'interesse primario della lotta al terrorismo islamico e dunque la seconda puntata della controffensiva militare, che questa volta ha nel mirino l'Irak. Un'operazione, quella contro Saddam Hussein, i cui preparativi sono stati ulteriormente messi a punto nell'incontro della settimana scorsa fra Bush e Blair. E allora le speculazioni americane convergono tutte su questo unico punto: qual è la situazione internazionale migliore nella quale calare l'intervento militare contro Bagdad? Secondo Powell non certo quella di un Medio Oriente infiammato, con i paesi arabi moderati spinti verso posizioni di intransigenza dalle rivolte dei loro popoli e con il Rais irakeno che prende in mano il vessillo propagandistico della resistenza palestinese. Ed ecco perché il segretario di Stato ha imposto la propria missione in Oriente, in Egitto, in Europa per raccogliere una dote consistente di alleanze attorno al progetto di ritiro di Israele dai territori e di ripresa del dialogo con Arafat. L'uomo che Powell e gli europei considerano ancora l'interlocutore necessario in una trattativa di pace e che invece gli israeliani e buona parte dell'Amministrazione Bush ritiene il responsabile del fallimento di Oslo e della nuova ondata terriristica che ha insanguinato Israele.

Come si vede l'intreccio diplomatico è assai complesso ma ruota tutto quanto attorno alle scelte che l'Amministrazione americana vorrà fare. L'Europa, come sempre, fa da contorno. Con tutti gli aiuti economici che ha mandato negli anni ad Arafat e l'intenso scambio commerciale in piedi con Israele, la ripresa del terrorismo palestinese e la reazione militare israeliana sono la testimonianza della sua impotenza diplomatica. Troppo tardi si sono svegliati a Bruxelles e a nulla servono le plateali smorfie del rappresentante diplomatico Solana in visita (non gradita) a Gerusalemme, se non a rimarcare la sconfitta. Come quella del Parlamento europeo, la cui risoluzione - faziosa e ideologica - votata a Strasburgo da una maggioranza senz'anima, sa troppo di politica e poco di diplomazia. Neppure la Chiesa, altre volte così autorevole, è stata capace di giocare un ruolo oltre la testimonianza della richiesta di pace. Eppure essa è presente su quei territori con tanti uomini. Ma le hanno nuociuto alcuni giudizi pubblicati dal quotidiano della Santa Sede in riferimento all'azione israeliana, che ne hanno inficiato una posizione equidistante.

12 aprile 2002

pmennitti@hotmail.com

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