Un conflitto lungo mezzo secolo
di Giuseppe Mancini
Da più di cinquant’anni gli israeliani violano il diritto
internazionale: la risoluzione 18/1947 dell’Assemblea generale dell’Onu,
il piano di spartizione che prevede 2 stati (uno israeliano, l’altro
palestinese) e l’internazionalizzazione di Gerusalemme; la risoluzione
194/1948, sempre dell’Assemblea generale, che sancisce il “diritto al
ritorno” ed un equa compensazione per i profughi palestinesi; le
risoluzioni 242/1967 e 338/1973, che impongono ad Israele il ritiro dai
territori occupati; la quarta convenzione di Ginevra sulla protezione
dei civili; il diritto consuetudinario umanitario, nell’uso spesso
spropositato ed indiscriminato della forza militare; più recentemente,
le risoluzioni 1402 e 1403 del Consiglio di sicurezza, che hanno chiesto
ad Israele l’immediata cessazione delle operazioni militari nei
territori occupati.
Da più di cinquant’anni, i Palestinesi e gli stati
arabi violano il diritto internazionale: anch’essi il piano di
spartizione dell’Onu, visto che solo pochissimi stati (la Giordania,
l’Egitto, ma anche l’OLP a partire dal Consiglio nazionale palestinese
d’Algeri del 1988) ne accettano la legittima esistenza; il divieto,
sancito dall’articolo 2.4 della Carta delle Nazioni unite, di ricorrere
alla forza per risolvere le controversie internazionali (le guerre di
aggressione contro Israele del 1948, del 1956 e del 1973); tutte quelle
regole del diritto internazionale – scritto o consuetudinario – che
vietano atti di terrorismo, come gli attacchi ai coloni e agli
insediamenti israeliani in Cisgiordania, come gli attacchi suicidi in
Israele.
Ma serve davvero a qualcosa assegnare il torto e la ragione in un
contesto così complesso, così indecifrabile, così carico di viscerali
emozioni? Non è il negoziato, il necessario processo di dialogo
politico, ad essere intralciato dalle richieste non negoziabili sancite
dal diritto? Perché parlare ancora di diritto, quando esso, nel corso
degli anni ed ancora oggi, viene impunemente violato dalle parti in
causa? Obiezioni legittime. Tuttavia, solo un’analisi attenta del
diritto internazionale ci permette di comprendere con meno ombre cosa
sta accadendo, di capire quali soluzioni sono praticabili per assicurare
una pace duratura alla Palestina. Da più parti, si è cercato di
scaricare su Arafat la responsabilità politica della seconda Intifada,
per aver rifiutato la “generosa” offerta di Barak a Camp David, nel
luglio del 2000: la nascita di uno stato palestinese sul 95% della
Cisgiordania e sulla striscia di Gaza. Questa analisi nasce da una
doppia mistificazione della realtà: primo, l’offerta “generosa” di Barak
è molto inferiore a quanto la comunità internazionale ha riconosciuto
spettare ai Palestinesi: perché Arafat dovrebbe rinunciare a ciò che gli
appartiene di diritto? Secondo, e soprattutto, l’offerta “generosa” di
Barak non era tanto quella di uno stato palestinese, quanto quella di un
bantustan palestinese, sul modello sud-africano: tre spezzoni (quattro,
con Gaza) separati tra di loro, circondati da aree sovrane israeliane,
mutilati dalla presenza delle colonie e dalle strade che li collegano,
isolati dai loro confini internazionali da una ampia fascia di sicurezza
dello stato ebraico nella valle del Giordano, un’entità politica
impossibilitata a stipulare trattati internazionali senza l’approvazione
di Israele. Una proposta offensiva, più che generosa: che di certo, se
accolta, non avrebbe eliminato quel malcontento, quella disperazione,
quell’odio che rendono più facile reperire la manovalanza terroristica.
Ma cosa dovrebbe fare Israele? Le opzioni sembrano tre. Prima opzione,
potrebbe proseguire nella dura occupazione militare di questi giorni, i
cui costi sembrano eccessivi già nell’immediato e non sono assolutamente
sostenibili nel medio-lungo periodo; certo, l’occupazione militare
protegge con efficacia dal terrorismo, ma crea essa stessa i presupposti
del terrorismo per quando l’occupazione sarà finita. Seconda ipotesi,
potrebbe promuovere una operazione di pulizia etnica, per creare uno
Stato ebraico quanto più possibile omogeneo, espellendo dal suo seno i
rischi terroristici. Un’opzione, però, evidentemente impraticabile:
perché la comunità internazionale non potrebbe mai accettarla, dopo che
si è bombardata Belgrado affermando di voler scongiurare la pulizia
etnica di Milosevic in Kosovo; perché gli Stati arabi potrebbero essere
stuzzicati dall’idea di far pulizia etnica al contrario, distruggendo
una volta per tutte lo Stato d’Israele (anche se, le armi nucleari di
distruzione di massa di cui dispongono gli Israeliani sembrerebbero
metterli al riparo da un tale rischio). La terza ipotesi, è quella che
richiede l’apparente maggior sacrificio da parte di Israele, che
richiede maggior coraggio. I Palestinesi, da parte loro, hanno già fatto
concessioni storiche: hanno accettato l’esistenza di uno Stato ebraico
in Palestina (anche se, non si può giurare che questo non sia un
espediente tattico), hanno accettato una drastica riduzione territoriale
(il 22%, rispetto al 44% assegnato loro dal piano di spartizione del
1947), anche se rimangono troppo intransigenti sul problema del ritorno
dei profughi. Israele deve ritirarsi integralmente dalla Cisgiordania e
da Gaza, deve smantellare tutte le colonie, deve promuovere il
miglioramento delle condizioni di vita e poi lo sviluppo economico dei
Palestinesi. Solo in questo modo, con un’entità politica palestinese
funzionante ed avviata verso la crescita (economica ma anche politica,
verso forme di democrazia), in Terra santa sarà possibile cominciare a
pensare alla convivenza senza sistematici spargimenti di sangue. Una
soluzione finale che, più che sul modello 2 popoli-2 Stati, potrebbe
essere impostata su di una confederazione (per carità, estremamente
blanda: fondata sulla cooperazione economica, ma sulla totale
indipendenza politica), con Jerusalem/Yerushalaym/Al-Quds capitale unica
ed indivisibile per tutti.
12 aprile 2002
giuse.mancini@libero.it
|