Le responsabilità di Arafat e il dilemma degli
arabi
di Rodolfo Bastianelli
Oltre che impegnarsi nelle solite manifestazioni a senso unico e nelle
solite interminabili discussioni, quello che oggi la comunità
internazionale e i paesi europei dovrebbero iniziare a fare è domandarsi
per quale ragione Israele ha avviato la più vasta operazione militare
dai tempi dell'intervento in Libano, e chi effettivamente abbia la
responsabilità di questa crisi che rischia di destabilizzare il
Medioriente. Gran parte delle responsabilità ricadono su Yasser Arafat.
Decisa da Sharon dopo la strage compiuta in un albergo di Netanya,
all'inizio delle celebrazioni della Pasqua ebraica da un attentatore
suicida, l'operazione "Muro di Difesa" è stata la risposta ad una
lunghissima serie di attentati che da mesi vengono compiuti da kamikaze
palestinesi contro obiettivi civili israeliani, e dai quali il leader
palestinese non ha mai preso ufficialmente le distanze. Rifiutato il
piano di pace presentato da Clinton e dall'allora premier israeliano
Barak al vertice di Camp David nell'estate di due anni fa - che gli
assicurava il controllo del 95 per cento della Cisgiordania, più la
sovranità sui luoghi religiosi islamici di Gerusalemme - il presidente
dell'ANP non ha intrapreso nessuna concreta opera di repressione dei
gruppi terroristici attivi nei territori palestinesi, convinto che
assumendo una posizione più rigida nei confronti di Israele avrebbe
riguadagnato la popolarità persa in seguito alle accuse di corruzione e
autoritarismo che venivano mosse alla sua amministrazione. I legami
esistenti tra Arafat e le "Brigate Al-Aqsa", ritenute da Israele una
diretta emanazione "Al-Fatah", ed il suo coinvolgimento nell'affare
della nave "Karine A", sequestrata con a bordo un carico d'armi
proveniente dall'Iran, hanno poi ulteriormente rafforzato l'opinione che
il leader palestinese abbia fatto poco o nulla per combattere il
terrorismo.
Sul piano politico questa posizione ha prodotto due risultati
diametralmente opposti: se da un lato oggi intorno ad Arafat si
raccolgono tutti i vari gruppi palestinesi compresi anche quelli che,
come "Hamas", per anni lo avevano criticato, dall'altro il suo
atteggiamento ha finito per rafforzare nella società israeliana il
partito di chi considera l'ANP del tutto inaffidabile. Lo spostamento a
destra operato nelle ultime ore dal governo Sharon con l'ingresso del
Partito Nazionale Religioso, e il fatto che qualora il premier dovesse
essere rimpiazzato gli elettori molto probabilmente opterebbero per il
ben più duro Netanyahu confermano che oggi gli israeliani non sarebbero
assolutamente disposti ad accettare concessioni come quelle fatte a Camp
David da Barak.
L'altro punto riguarda il ruolo e la posizione assunte dai paesi arabi.
Al recente vertice di Beirut i diversi stati della Lega Araba hanno
approvato all'unanimità la proposta di pace saudita che prevede la
normalizzazione dei rapporti con Israele in cambio del suo ritiro dai
territori occupati durante la guerra del 1967. Ma il largo consenso
ottenuto dal piano di Riyadh nasconde le contraddizioni esistenti
all'interno del mondo arabo e nella stessa proposta di pace saudita. Il
progetto del principe Abdallah infatti non entra nel merito di
importanti questioni, quali i confini che dovrebbe avere il futuro stato
palestinese, il controllo dei luoghi santi di Gerusalemme ed il problema
del ritorno dei profughi, limitandosi a proporre uno schema generale sul
quale impostare i futuri negoziati di pace. Inoltre, il fatto che il
piano sia stato criticato fin dall'inizio dalla Siria e dagli altri
paesi più radicali, rende la sua applicazione alquanto incerta. Un
accordo che non ricevesse l'appoggio siriano avrebbe ben poco
significato, dato che solo il riconoscimento di Israele da parte di
Damasco sarebbe in grado di assicurare la stabilità della regione. Come
ha ricordato il Presidente americano Bush, se Sharon deve contenere la
forza dell'azione militare israeliana evitando di infliggere inutili e
pericolose umiliazioni ai palestinesi, i paesi arabi allo stesso tempo
devono però riconoscere Israele ed impegnarsi nella lotta al terrorismo,
cercando di far capire ad Arafat ed ai dirigenti dell'ANP che è solo con
il dialogo e la diplomazia, e non con gli attacchi suicidi contro la
popolazione civile, che possono creare uno stato palestinese
indipendente.
12 aprile 2002
rodolfobastianelli@tiscalinet.it
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