Il nuovo volto del nemico
di Carlo Pelanda
Sarebbe retorica enfatizzare gli attentati dell'11 settembre come uno
spartiacque della storia. Ma non si può negare che dopo quella data le
tendenze politiche internazionali abbiano preso un binario diverso da
quello su cui stavano viaggiando prima. Forse sarebbe meglio dire che si
sono sbloccate ed accelerate direzioni già in atto. Ma, libero ciascuno
di utilizzare le metafore ed allegorie che desidera, di fatto lo
scenario dell'ordine mondiale è a una svolta. E questa è stata
determinata dall'emergere di un nuovo tipo di nemico. Non tanto il
"terrorismo" di per sé che è una tecnica razionale e tradizionale di
guerra adottata da chi si sente in inferiorità contro un avversario e
cerca di contrastarne la potenza aggirandola con mezzi "asimmetrici". Ma
il terrorismo che si delocalizza ed assume capacità di destabilizzazione
globale.
Prima dell'offensiva terroristica l'amministrazione Bush era bloccata su
due problemi: trovare sia un nemico sia un partner credibili e di scala
globale. L'emergere come nemico del terrorismo con basi diffuse a
livello internazionale e connesso con un'area culturale e politica che
conta un quinto della popolazione mondiale, ha reso necessario il
passaggio da una coalizione "ordinativa" solo occidentale ad una più
vasta, globale. Tale requisito ha sbloccato i due problemi detti
presentando nuove soluzioni. Vediamo il primo. L'unico nemico credibile
rimasto - per scala, ambizione nazionalista espansiva e diversità - era
la Cina popolare. L'importanza della "nemicizzazione", per la Pax
Americana, era ed è enorme perché giustifica il mantenimento di un
apparato militare di raggio mondiale e gli investimenti pubblici in
tecnologie di superiorità utili per quella dell'industria civile. A sua
volta essenziale per mantenere la capacità degli Usa e del dollaro di
essere al centro del sistema finanziario mondiale, con evidente
vantaggio geoeconomico. Nel 1994 l'Ufficio scenari (Net Assessment) del
Pentagono aveva definito la potenza cinese in grado di sfidare,
prospetticamente, quella statunitense e raccomandato la costruzione di
un nuovo arsenale di superiorità assoluta, e non solo relativa, da
costruirsi entro il 2020. Tuttavia la nemicizzazione della Cina è
apparsa subito imbarazzante e densa di controindicazioni. Tra cui la
principale era ed è quella economica: non ha senso aprire una frizione
con un paese dal cui sviluppo e collaborazione dipendono sia
l'espansione sia la stabilizzazione del mercato globale. E qualora
avesse senso per necessità sarebbe difficilissimo bilanciare le
politiche di contenimento con quelle di cooptazione della Cina nel
sistema dell'economia mondializzata.
L'emergere del nuovo nemico ha risolto il problema rendendo necessario
l'emergere di una coalizione globale, con sempre al centro gli Usa,
legata dall'interesse di tutte le potenze simmetriche (per i comuni
interessi alla stabilità del mercato globale) contro la minaccia
asimmetrica diffusa. Non è marginale osservare che tale mutamento non
rende inutile la strategia americana dei nuovi arsenali di superiorità,
pur riselezionando la priorità di alcuni. Infatti resta, anzi diviene
più pressante, il requisito di possedere degli strumenti di potenza
classica sempre più tecnologicamente raffinati, per poter proiettare la
potenza in qualsiasi luogo del mondo contro territori disordinati o
infettati che possono fare da base - intenzionale o meno - al
terrorismo.
L'altro problema degli Usa era quello di trovare un partner. Fin dal
1973 gli Usa hanno cercato di passare dalla gestione singola della
sicurezza globale ad una più condivisa con gli alleati sul piano dei
costi e dei rischi. Da questa dottrina (formulata da Kissinger come
passaggio dal single al collective management) è emersa l'architettura
degli attuali G8. Ma non ha mai soddisfatto granché Washington perché i
partner nipponico ed europei hanno sempre portato molte richieste e
poche contribuzioni, soprattutto sul piano della sicurezza. Già nei
primi mesi dell'amministrazione Bush si era notata la volontà di
esplorare i potenziali cooperativi della nuova amministrazione Putin in
Russia. L'urgenza della talassocrazia americana di trovare un alleato
terrestre per le operazioni di controllo nell'area centroasiatica ha
accelerato tale iniziativa. Ma la cooperazione tra i due è presto
evoluta ben oltre gli accordi settoriali di contingenza fino a
trasformarsi in un'ipotesi di partenariato bilaterale stabile per la
gestione degli affari globali. Ciò è dovuto a tre caratteristiche della
Russia. La prima è che i suoi giacimenti energetici sono di entità tale
da ridurre la capacità dell'Opec di determinare quasi monopolisticamente
il prezzo del petrolio. La seconda riguarda il fatto che la Russia è il
naturale guardiano geopolitico dell'Asia centrale ed ha disposizione un
buon potenziale militare per eventualmente proiettare la forza sia
contro i regimi islamici sia, in caso remoto, a contenimento della Cina.
La terza è che Mosca ha comunque ereditato le vecchie relazioni
dell'Unione sovietica.
Dall'Irak a Cuba (in dismissione), dai Balcani - come riferimento slavo
- all'India. Putin ha l'evidente interesse di monetizzare questo
investimento del passato scambiandolo con risorse ed accordi utili per
il futuro. In merito ai Balcani, nella tarda amministrazione Clinton,
ciò ha già funzionato. Ma per chiudere l'affare restavano due ostacoli:
la guerra di repressione in Cecenia è il dare rilevanza ai teatri in cui
la Russia può essere influente. L'emergere del terrorismo islamico ha
cancellato il primo problema. Il riscaldamento al calor rosso dei teatri
centroasiatico ed islamico hanno di colpo dato un enorme valore al
patrimonio di influenze residue ed utilità russe, che Putin ha giocato
con abilità. In sintesi, l'America ha bisogno della Russia per:
controllare il prezzo del petrolio; l'Asia centrale; tenere a bada
l'Iran (il cui rifornimento nucleare è tradizionalmente russo);
eventualmente bonificare l'Iraq; inquadrare la Siria; nonché tener buoni
i Balcani; dare un messaggio alla Cina che potrebbe avere una pressione
da nord; alla Corea del Nord da est; eccetera. Si inserisca anche il
fatto che Mosca è cruciale sul piano degli accordi antiproliferativi e
che ha un potenziale economico non trascurabile ed appare ovvia la
nascita di una cooperazione bilaterale stabile con gli americani. Che ha
il non secondario vantaggio, per Washington, di rendere meno necessaria
l'Unione Europea. E ciò spiega l'attivismo frenetico di Blair per
tentare di mantenere la rilevanza britannica nella prospettiva del nuovo
asse tra americani e russi.
Sarà questa - il "pilastro delle due aquile" - la nuova formula
dell'ordine mondiale? Potrebbe, ma per affermarlo bisognerà aspettare un
chiarimento nella strategia russa. Il partenariato forte con l'America è
per Putin un passo obbligato per risolvere il disastro interno e
recuperare ruolo esterno. Ma nel futuro una Russia consapevole della sua
importanza non si fermerà necessariamente al ruolo di potere subordinato
all'America e potrebbe volere di più. Infatti il pericolo per gli Usa
nel costruire la coalizione globale per un controllo più stretto della
sicurezza a livello planetario è quello, una volta dichiarati amici i
vecchi nemici simmetrici, di suscitare un competitore interno con forte
capacità di ricatto. Si vedrà, ma per il momento il tipo di nuovo nemico
ha costretto l'America a cercare il partenariato con Mosca e a
secondarizzare temporaneamente l'Unione Europea, imbelle e poco utile
nel frangente.
Queste considerazioni, se confermate, mostrano che la natura del nuovo
nemico e del tipo di guerra che ciò comporta ha stimolato la nascita di
una nuova architettura politica mondiale che in effetti ha la capacità
potenziale di stabilizzare il mercato globale perché ne include i tre
soggetti principali: America, che resta al centro, Russia come partner
privilegiato e Cina sorvegliata, ma non nemicizzata. Gli altri, di
seconda fascia (India, europei), comunque inquadrati. In tal senso,
visto che per un decennio un ordine mondiale così inclusivo è sembrato
inattuabile, molti hanno la tendenza a sostenere che l'emergere di un
credibile nemico asimmetrico abbia risolto più problemi di quanti ne
abbia creati. Tale tendenza, resa con una battuta che non vuole essere
irrispettosa delle sofferenze ed ansie provocate dall'evento
terroristico e dalle operazioni belliche attuate nell'operazione
"Libertà duratura", potrà consolidarsi? E' presto per dirlo, ma già si
può individuare l'evento cruciale che determinerà la risposta. Se la
Russia verrà incorporata a pieno titolo nell'Alleanza occidentale e la
Cina nei G8 (con l'India nell'agenda di inclusione successiva) si potrà
dire che la nuova architettura globale avrà preso una forma piuttosto
stabile. Certamente resterà il problema di come stabilizzare il mondo
islamico, ma una cosa è il tentarlo con una troppo piccola coalizione
occidentale e un'altra il circondare tale area con una coalizione
globale post-occidentale. Evidentemente la potenza combinata della
seconda opzione sarebbe tale da minimizzare o gestire meglio gli
eventuali problemi previsti e no. Ed è quella perseguita dagli Usa:
circondare, prima, il mondo geopolitico dell'area islamica con un
cordone di sicurezza per poi, dopo, rielaborarlo all'interno.
Un particolare "tecnico" è rilevante. Parecchi osservatori avevano
individuato nella riluttanza Usa a rinunciare all'unilateralismo la
maggiore difficoltà nel costruire nuove strutture internazionali a
grande raggio cooperativo. L'emergenza ha costretto l'America non a
diventare meno unilaterale, anzi, ma a bilanciare meglio l'unilateralismo
attraverso maggiori concessioni agli interessi degli altri. Questo è
considerato il punto specifico che ha sbloccato il sistema orientandolo
verso la nuova coalizione globale.
La bozza di scenario qui data appare tranquillizzante, per lo meno sugli
aspetti di grande cornice. Ma lo è veramente? Prima di poter rispondere
dovremo aspettare di poter valutare una conseguenza dell'emergere del
nuovo nemico. Da una parte, come sostenuto, toglie la necessità di
nemicizzare una potenza simmetrica e ciò è piuttosto comodo. Dall'altra,
presenta notevoli e nuove scomodità. La guerra con mezzi asimmetrici ha
un notevole potenziale di destabilizzazione sia simbolico sia reale (in
caso di ricorso ad armi nucleari e biochimiche), soprattutto in una
prospettiva dove la finanziarizzazione dell'economia rende il mercato
globale sempre più vulnerabile a crisi di fiducia. Ciò comporta la
necessità di ridurre a zero il rischio, perché un solo evento può essere
fatale, e quindi l'elaborazione di una nuova dottrina della bonifica
preventiva delle fonti di terrorismo.
Questa è la base concettuale dichiarata dell'operazione "Libertà
duratura" che ne definisce anche la caratteristica "senza termine". Ma
quali sviluppi implica? Il più politicamente rilevante riguarda il tasso
di anomalia tollerabile di un paese. "Prima" si poteva accettare che un
Afghanistan cadesse in mano a gente strana, che la Somalia restasse in
preda all'anarchia. Si isolavano e non producevano grandi danni. "Dopo"
non è più accettabile che un paese possa diventare sede logistica di una
fonte di guerra asimmetrica. O che possa adottare mezzi terroristici per
scopi locali che potrebbero scappare di mano. In sintesi, la nuova
dottrina propone che nessun territorio del pianeta possa restare senza
presidio. Qui c'è il nuovo problema. Quanto è lunga la lista? Dipende
dal motore generativo del terrorismo. Se è una fazione irriducibile
dell'estremismo islamista di cui non si prevede che possa esaurirsi
culturalmente o attraverso il taglio di una delle sue teste, allora è
inevitabile includere nel calcolo qualsiasi paese disordinato e povero.
Perché i terroristi cercheranno di impiantare lì le loro basi maggiori.
Poniamo che tale ipotesi sia sensata. La lista conseguente porta il
numero dei paesi da presidiare attorno agli ottanta. Al momento
(dicembre 2001) questo computo scoraggiante non è operativo. La lista
dei paesi da bonificare è molto più ridotta e riguarda Stati la cui
anomalia è correggibile con sostituzioni delle élite politiche. Ma se la
fonte terroristica restasse forte nonostante il contrasto in atto - non
escluso dagli esperti - sarà ovvio che cercherà altri luoghi dove
albergare anche senza la necessità di complicità forti con i regimi
politici. Appunto, ciò allarga la lista ai paesi disordinati, ovvero
senza capacità di controllo efficace del territorio. E sono molti di
quelli poveri e quasi tutti i poverissimi.
Tentare di presidiare questi luoghi predisposti all'infezione implica la
costruzione di un ordine interno dall'esterno. Con problemi enormi:
sospensione delle sovranità che può portare ad accuse di neocolonialismo
e reazioni violente conseguenti, strumentali o sentite; costi di entità
tale da non ritenerli copribili dall'attuale sistema dei paesi ricchi
anche qualora decidesse di sborsare, eccetera. Una parte del problema è
limitabile dal fatto che una coalizione globale, appunto, creerà un
forte consenso per gli atti di polizia internazionale e permetterà di
assorbire meglio le eventuali controreazioni. Ma ciò non riduce di molto
la complessità della combinazione tra nuovo obbligo a presidiare il
pianeta in dettaglio e costi e rischi che ciò comporta. Tutti noi
speriamo che si riduca il primo termine, cioè un autoesaurimento del
terrorismo a seguito o della punizione o per qualche altro fatto, e con
questo i problemi del secondo. Ma il punto è che prima di esserne
ragionevolmente certi passerà del tempo in cui opererà una strategia
fortemente interventista e finalizzata a ridurre le anomalie
geopolitiche in tutto il pianeta. Chi pagherà i costi di ricostruzione e
stabilizzazione delle nazioni bonificate? Cioè, chi e come metterà la
carota a fianco del bastone? Fino a che tale domanda resterà senza
risposta lo scenario complessivo, pur orientato verso il bel tempo,
rimarrà esposto a tempeste.
29 marzo 2002
(da
Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)
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