Un conflitto senza strategia
di Vittorio Emanuele Parsi


Ancorché la fase afgana della guerra contro il terrorismo sia sostanzialmente conclusa, e si sia rivelata un successo maggiore e più rapido di quanto potessimo sperare, non possiamo nascondere una sensazione di disagio crescente, quasi un dubbio insinuante e malevolo, la sensazione cioè di ritrovarci a combattere una guerra senza disporre di un'adeguata strategia. Il dubbio si fa più consistente e fastidioso ora, quando cresce la consapevolezza che privi di un pensiero strategico su come (e dove) condurre questa campagna contro il terrore, potremmo ritrovarci nell'impossibilità, o meglio, nell'incapacità di sfruttare politicamente il successo militare conseguito sul campo, e così passare da una posizione di forte vantaggio nei confronti del nemico terrorista a una di pericolosissima vulnerabilità. Mentre ancora la situazione del dopoguerra in Afghanistan si presenta fluida (per gli sviluppi possibili) e vischiosa (per il rischio di non riuscire a disimpegnarsi rapidamente e con efficacia), nubi di guerra si addensano sull'Irak o la Somalia, sul Sudan o magari le Filippine meridionali. Potremmo cioè ritrovarci nostro malgrado coinvolti in una colossale e continua successione di "guerre di faglia", in grado di dar corpo a quello "scontro delle civiltà" ipotizzato da Samuel Huntington come lo schema interpretativo più plausibile dei conflitti post-Guerra Fredda. Forniremmo così a bin Laden o ai suoi emuli e successori una straordinaria opportunità propagandistica per convincere le masse musulmane (già peraltro alienate rispetto al sistema economico globale e al processo politico statuale) della natura antislamica dell'ennesima "crociata occidentale". Eppure, per la stessa coerenza della campagna antiterrorista, si fa sempre più probabile che una coalizione occidentale (in quel caso nuovamente ridotta a Stati Uniti e Gran Bretagna) si ritrovi costretta a battersi, proprio a causa dell'assenza di una strategia appena un po' articolata, in cui la guerra sia una scelta possibile e non l'unica alternativa prevista alla resa di fronte al terrore.

Per comprendere le ragioni di questa assenza o carenza di una prospettiva che non preveda esclusivamente una sorta di conflitto permanente col mondo musulmano, dobbiamo partire dalla constatazione che stiamo in effetti scontando l'assenza dell'elaborazione di una nuova Grand strategy da parte delle diverse amministrazioni americane che si sono succedute tra il 1991 (fine della Guerra Fredda) e oggi. Al di là della tanta retorica che è stata abbondantemente impiegata intorno alla vittoria dell'Occidente nella lunga Guerra Fredda, e nonostante l'evidenza che il sistema bipolare e il suo equilibrio del terrore siano tramontati, portandosi dietro anche la correlata idea di un ordine tanto più stabile quanto più "bilanciato", gli Stati Uniti non sembra abbiano ancora intrapreso una elaborazione convincente della nuova situazione di egemonia globale che configura l'ordine attuale (più o meno effettivo) del sistema.

In fondo, sembrerebbe che a Washington siano convinti che il venir meno della potenza rivale (nella sostanziale assenza di uno sfidante globale credibile) non comporti altro che l'estensione dell'egemonia statunitense (già relativa all'Occidente e a porzioni consistenti dell'Asia orientale) all'intero pianeta, a prescindere dal fatto che le regole di funzionamento e i pilastri su cui quell'egemonia si fondava siano utili ed efficaci anche fuori della comunità politica occidentale. Per essere franchi - che si ritenga la stabilità dell'ordine fondata sull'equilibrio tra potenze rivali, ovvero sull'egemonia (più o meno costituzionalizzata) di una sola grande potenza - ciò che tendiamo a dimenticarci è che l'insieme delle nostre categorie non è mai stato messo alla prova in una situazione in cui la minaccia alla sicurezza o la diffusione del potere uscivano dall'ambito del "Nord del mondo" (cioè di una nozione di Occidente assai allargata). Equilibrio, alleanze e paci, egemonia, istituzioni e cooperazione hanno sempre avuto come termini di riferimento l'Europa e le sue nuove e più forti propaggini. Quando abbiamo dovuto confrontarci con rivalità od ostilità provenienti dai paesi esterni alla cultura europea, in realtà la nostra unica risposta è sempre stata la guerra. E' da questa lacuna concettuale che dobbiamo partire, per far sì non tanto che la guerra sia esclusa dal mondo (sarebbe solo puro e pericolosissimo utopismo), ma perché essa torni a essere una possibile scelta politica e non una necessità di sopravvivenza, la prosecuzione della politica con altri mezzi e non la sua abdicazione.

Di fronte a questa guerra, allora, di cui la campagna afgana rischia di essere solo un secondo round (dopo il primo, terribile, scatenato l'11 settembre), è assai poco utile l'applicazione acritica di categorie che rimontano a Westfalia, dove fu sancito internazionalmente quel principio di sovranità che doveva mettere termine alla sanguinosissima stagione delle guerre di religione. Dimenticheremmo infatti che quelle furono, innanzitutto e schmittianamente, guerre civili di religione, mentre il crinale sul quale pericolosamente stiamo correndo è quello della guerra tra religioni. Altrettanto inutile è evocare Westfalia oggi, quando la minaccia arriva principalmente da attori non statali (come la rete terroristica di bin Laden). Siamo infatti in presenza di un evento così rivoluzionario che diviene inservibile persino il criterio della distruzione reciproca assicurata - presupposto logico di quell'equilibrio del terrore che faceva scrivere Raymond Aron di una guerra improbabile (ma che i fatti hanno dimostrato essere "impossibile" almeno tanto quanto la pace, visto come si è autodissolta l'Urss) - dal momento che non è uno Stato quello che minaccia un attacco atomico su New York o Londra.

Siamo al paradosso (per quanto tragico) per cui, pur essendo le principali "potenze" allineate o alleate tra loro, la sicurezza del sistema è realmente a uno dei punti più bassi mai toccati fin dai tempi della "crisi di Cuba". Eccoci quindi a una nuova guerra contro i pirati, o contro i corsari forse, ma dove il rapporto di sudditanza tra corsaro e sovrano sembra essere capovolto. Si direbbe che, come in tempo di pace l'esclusività dell'azione dello Stato in politica internazionale è sfidata da una serie di nuovi soggetti (dai movimenti alle Ong, dalle Chiese alle multinazionali), anche in tempo di guerra lo Stato sta perdendo quell'antico monopolio conquistato duramente a Westfalia nel 1648. Stiamo cioè forse assistendo all'estendersi degli effetti della globalizzazione dal campo della pace a quello della guerra. Una guerra che cambia, analogamente alla pace dunque, e i cui caratteri nuovi abbiamo del resto già conosciuto nelle ultime guerre balcaniche, dove un "capo-tifoso" di Belgrado trasformò se stesso in imprenditore di violenza, e mutò degli ultras in una compagnia di ventura al "servizio" di un'improbabile Repubblica serba di Bosnia.

Uno spartiacque epocale tra due sistemi d'ordine

Una guerra contro i pirati, eppure non una guerra minore, anzi, quantomeno nei suoi effetti, una vera e propria guerra costituente, in grado cioè di segnare il passaggio tra due sistemi d'ordine. Questa campagna chiude definitivamente il post Guerra Fredda e ridispone i set di alleanze. Essa segna innanzitutto una fase nuova di cooperazione tra Stati Uniti e Russia: non più rivali globali, ma possibili partner regionali. L'Amministrazione Bush, infatti, mentre non rinuncia alla visione di un mondo unipolare, appare disponibile a una serie di gestioni congiunte con le altre grandi potenze regionali, a partire dalla Russia di Putin. Se Mosca si rivela un partner fondamentale per la sicurezza nell'Asia Centrale, la stessa strada inizia a farsi percorribile anche con la Cina, come hanno dimostrato due fatti importanti: l'ammissione di Pechino al Wto e la dichiarazione congiunta sinoamericana sulla lotta al terrorismo durante l'ultimo vertice dei paesi Asia/Pacifico. E questo significa un passo avanti, non solo simbolico, per il superamento della logica della Guerra Fredda anche in Estremo Oriente, dove nessun Muro era caduto e nessuna grande potenza era implosa tra il 1989 e il 1991. L'Europa perde forse una storica occasione di presentarsi unitariamente a questo appuntamento, ma la partecipazione effettiva di Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia alla coalizione antiterrorismo colma almeno parzialmente il vuoto lasciato (incolpevolmente) da Bruxelles, o meglio dal ritardo nella concreta costruzione di un effettivo soggetto politico continentale.

E' la stessa ecatombe con cui si apre, che colloca questa guerra tra quelle in grado di produrre conseguenze tipiche delle major wars. Del resto, chi l'ha scatenata sembra guidato da un lucido progetto: provocare una guerra che conduca alla fine dell'egemonia americana, coalizzandole contro il mondo islamico (nell'accezione di Islam della sua allucinata lettura) e così rompere l'unitarietà del sistema politico mondiale, visto come mera estensione dell'Occidente e dei suoi valori. Per quanto aberrante possiamo giudicare un simile proposito, bisogna riconoscere che i suoi artefici mostrano di aver colto il punto debole dell'attuale sistema: e cioè la non perfetta coincidenza a livello internazionale tra ordine politico e ordine economico. Se infatti il secondo è sostanzialmente aperto a tutti (e anzi ha rappresentato per oltre un decennio, sotto il nome di globalizzazione, la principale proposta ideale e ideologica offerta a chi voleva entrare nel "club occidentale"), il primo resta un ordine segmentato. Detto altrimenti, non c'è perfetta sovrapposizione tra l'area in cui l'ordine economico è garantito e quella in cui l'ordine politico lo è altrettanto. E' possibile riscontrare quanto diversa sia l'effettività dei due ordini guardando a come del tutto opposti siano stati i tempi di reazione del sistema nei confronti di minacce alla sua sicurezza economico-finanziaria (si pensi alla crisi asiatica) o alla sua sicurezza politica (si veda la lentezza di risposta di fronte alla crisi balcanica). E, sia detto solo per inciso, non basta a giustificare una simile discrasia la minor obsolescenza delle istituzioni economiche globali (dalla Banca mondiale al Fondo monetario internazionale) rispetto a quelle più tipicamente politiche (come l'Onu). Essa sembra invece imputabile a quella impostazione ideologica iperliberista (e assai poco liberale) che nell'ultimo decennio ha spesso visto nella politica una fonte di problemi aggiuntivi, e non già una risorsa per risolvere situazioni complesse, e che ha pensato quindi di "lasciare alle forze del mercato" il compito di autoregolamentare la globalizzazione.

E' su questa "sconnessione" che ha puntato le sue carte bin Laden, colpendo il centro dell'economia e della finanza mondiale mentre da questo stesso sistema traeva il sostentamento per le proprie attività criminali. Ed è ancora per questo che, in definitiva, il suo gesto ha voluto sfregiare innanzitutto la "capitale del moderno", quasi a mettere a una tragica berlina questo sempre meno accettabile stridore tra ordine economico e ordine politico. Ma nel fare ciò, il tentativo di jihad lanciato da bin Laden ha prodotto una reazione inaspettata, un cambiamento tipico delle guerre costitutive, che tende proprio a ridurre quel punto di vulnerabilità tragicamente sfruttato dal terrorismo. Nei giorni successivi l'11 settembre, infatti e senza che venisse convocata alcuna "nuova Bretton Woods", è cominciata un'attività di intelligence finanziaria a livello internazionale che ha modificato il regime sui movimenti di capitali e quello sul segreto bancario. Mentre il presidente Bush ammoniva le grandi banche internazionali che si aspettava la più aperta e leale collaborazione per distruggere le basi finanziarie di al Qaeda (pena la sostanziale esclusione dal mercato americano), la Svizzera assicurava l'attenuazione delle regole poste a tutela della riservatezza dei conti bancari. Per cogliere la rilevanza del passo elvetico, basterà ricordare come appena due anni fa la Confederazione, a cinquant'anni dalla guerra "a più alto tasso etico" mai combattuta e solo grazie alla straordinaria pressione di potenti lobbies transnazionali, si decideva a rendere pubblica la questione dell'oro dei nazisti (ovvero dei proventi della spoliazione degli ebrei operata dai nazisti), per oltre mezzo secolo occultato e protetto in nome dell'inviolabilità del segreto bancario.

La capacità di cogliere lo "spirito del tempo", per cercare di distruggerlo, bin Laden l'ha dimostrata anche nello scegliere di dare alla sua personale jihad la forma della "guerra deterritorializzata". L'attacco al cuore del potere economico e militare degli Stati Uniti è avvenuto infatti vanificando l'utilità delle ingenti risorse destinate alla protezione del territorio americano. Nel fare questo traspare la scelta di rompere anche simbolicamente quelle idee-cardine occidentali che sono alla base non solo dello Stato e del suo ordine interno, ma anche dell'ordine internazionale fondato sugli Stati. Questa volontà di spezzare concretamente e simbolicamente l'ordine occidentale si manifesta ulteriormente nella strategia di rivolgersi - lui, un arabo, rifugiato in Afghanistan, con alleanze in Pakistan, Malesia e Indonesia - alla comunità dei fedeli dell'Islam, e non già alla nazione araba. Quest'ultimo è infatti un concetto che incorpora almeno una categoria fondamentale dell'ordine occidentale, e che segnala vistosamente la fase di dipendenza del mondo musulmano dai concetti politici occidentali. Ma soprattutto, parlando alla Umma, Osama si svincola dal dato territoriale, si mette cioè nella condizione di poter temporaneamente cedere tutto il territorio possibile (tranne quelle montagne o quelle caverne in cui si rifugia) senza che questo intacchi la potenza del suo messaggio per le masse diseredate dell'Islam: dal Maghreb al Mar della Cina.

In questo Osama bin Laden segna un salto qualitativo rispetto a Saddam Hussein, l'ultimo "campione" (assai più posticcio) della causa del radicalismo arabo-musulmano (e non più "ampiamente" islamico), il cui potere sarebbe stato totalmente dissolto, se solo Bush senior, una decina d'anni fa, l'avesse privato del dominio territoriale dell'Irak. E rischiamo di trovarci a dover correggere questo errore dieci anni dopo, in realtà così cumulando un secondo errore a un primo. Anche Osama, apparentemente, ne commette uno: quando, dopo aver irriso alla sovranità territoriale della potenza egemone sembra convinto di potersi rifugiare sotto il debole scudo della sovranità di uno degli Stati più scalcagnato del pianeta, l'Emirato Islamico dell'Afghanistan. Più realisticamente dobbiamo ritenere che il capo di al Qaeda fosse consapevole che la reazione americana non si sarebbe fermata di fronte alle pretese sovrane di Kabul, ma probabilmente contava su una maggior tenuta del regime talebano, su una minor capacità di controllo da parte delle élite musulmane "moderate", e su una assai più rapida sollevazione delle masse islamiche.

Se questo si è rivelato un errore di calcolo da parte dei terroristi, un vero e proprio abbaglio è stato quello di non aver previsto che gli Stati Uniti fossero da tempo alla ricerca di un motivo sufficientemente grave per procedere alla revisione dell'ordine del sistema internazionale e delle sue regole. L'attacco portato alla sicurezza dell'unica superpotenza planetaria da un attore non statale palesa, agli occhi di Washington, come nessuna concentrazione di potere sia sufficiente se le regole del sistema le sono di impaccio. E parliamo di un impaccio che ha prodotto alcune migliaia di morti civili, in tempo di pace, nel cuore del territorio metropolitano degli Stati Uniti. E' dalla fine della Guerra Fredda che sono ricorrenti le accuse mosse all'America di comportarsi come una "potenza revisionista", una potenza oltretutto che chiede la "revisione" delle regole del gioco piuttosto che della sua parte della torta. Storicamente questo è un fatto inedito. Giacché di norma sono le potenze emergenti (come la Germania guglielmina) o quelle sconfitte e in risalita (come la Germania di Hitler) ad attuare politiche revisioniste. Eppure, lo si è ripetuto tante volte, gli Stati Uniti hanno "vinto" la Guerra Fredda, che di fatto ha rappresentato una guerra per l'egemonia, se è vero che ha portato alla fine del sistema bipolare e alla nascita di un sistema unipolare, ad egemonia americana. Come spiegare allora questo atteggiamento americano da "vittoria mutilata" (che in superficie, davvero e talvolta, richiama l'umore italiano dopo la Grande Guerra)? La risposta credo risieda nel fatto che anche se la Guerra Fredda è stata per davvero una guerra costituente vinta dagli Stati Uniti, la sua fine non ha visto alcuna "pace costituiva". Le istituzioni della Guerra Fredda (come l'Onu) sono sopravvissute, e quelle regole che prima consentivano alla pace d'equilibrio tra Usa e Urss di mantenersi e consolidarsi, ora impediscono alla nuova pace egemonica di assestarsi. E nel far questo espongono a rischi incredibili la sicurezza dell'egemone le cui mosse, in assenza di una ratifica per cosi dire "formale" del risultato conseguito sul campo, risultano assai spesso apparire come conseguenza di una volontà unilaterale, piuttosto che condizionate dal nuovo assetto unipolare del sistema.

Guerra e declino della sovranità

E' singolare ma spiegabile il nostro non accorgerci di questo passaggio, perché in realtà esso ha già rappresentato la chiave di volta della strategia americana di pacificazione postbellica di quel che oggi chiamiamo Occidente (con senso politico non del tutto coincidente rispetto a quello culturale). Tale strategia - elaborata negli anni Quaranta, a guerra ancora in corso - si proponeva un obiettivo immediato piuttosto ambizioso: evitare che le potenze che in un ventennio avevano trascinato per due volte il mondo in un conflitto devastante potessero ripetere il medesimo errore. Se l'obiettivo era già ambizioso, la strategia per realizzarlo lo era ancora di più. Essa partiva dalla considerazione che la pace d'equilibrio si era dimostrata non solo troppo fragile, ma anche estremamente difficile da perseguire: così difficile da rappresentare essa stessa una sorta di acceleratore della corsa verso la rottura di qualsiasi equilibrio, una volta che il sistema avesse iniziato a collocarsi sul piano inclinato della sua instabilità. In una parola, se il tentativo di perseguire la pace attraverso l'equilibrio aveva portato alla guerra, essa rappresentava un pezzo del problema e non già della soluzione. Per ovviare a questo, l'America si propose di "mettere insieme", sotto il proprio ombrello protettivo, gli attori che avevano così clamorosamente fallito nel tentativo di bilanciarsi reciprocamente.

Si doveva quindi passare da una pace d'equilibrio a una pace egemonica, di cui gli Stati Uniti sarebbero stati i garanti e gli artefici. Il corollario di una simile impostazione, in termini economici, implicava la partecipazione degli ex rivali a un sistema economico aperto, in cui quelle economie fossero interdipendenti tra loro e strutturalmente collegate a quella americana. Ciò avrebbe impedito che, a fronte di periodi di crisi economica, i diversi sistemi nazionali potessero optare per strategie protezioniste, ritenute giustamente concause dei conflitti politico-militari. Il progetto iniziale, non comprendeva ancora Giappone e Cina (allora non comunista), e nello stesso tempo non era concepito in chiave antisovietica. La chiusura verso Mosca, dovuta alla acquisita consapevolezza del carattere aggressivo e tirannico del regime comunista (e l'inclusione del Giappone), subentrò solo a partire dal 1945, e diede luogo al secondo pilastro della grande strategia americana della Guerra Fredda: il contenimento del comunismo.

Durante la Guerra Fredda, quindi, hanno convissuto un set di regole elaborate per assicurare una pace egemonica e almeno parzialmente "costituzionalizzata" intra-occidentale (cioè tra quelli che tale pace avevano messo a repentaglio due volte in vent'anni) e un diverso set di regole per garantire una pace di equilibrio tra Est e Ovest. Del primo assetto hanno fatto parte istituzioni come la Nato, la Banca mondiale, Il Fondo monetario istituzionale e il Gatt (l'antenato del Wto). Del secondo assetto hanno fatto parte istituzioni come l'Onu, i regimi sulla non proliferazione nucleare, i diversi accordi Salt e Start sul controllo delle armi nucleari, la Csce. La sconfitta dell'Urss e il tramonto del bipolarismo ha visto la semplice estensione della pace egemonica all'intero ex campo rivale. In questo caso, in forza di una particolare versione paneconomicista del pensiero sulla globalizzazione, le regole e le istituzioni economiche hanno preceduto quelle propriamente politiche, così che, per esempio, gli ex paesi comunisti sono stati immediatamente introdotti al regime di mercato e al capitalismo, ma lasciati a lungo sulla soglia di quel regime istituzionalizzato che nei fatti aveva stemperato la crudezza dell'egemonia americana sull'Occidente (pur rafforzandola in termini sostanziali).

Non è accidentale il fatto che bisognerà attendere l'esplodere dell'attuale emergenza terroristica per vedere l'inclusione della Russia nel "nuovo ordine" (e in parte persino della Cina, con la sua piena ammissione al Wto) oltre che il superamento definitivo della mentalità della Guerra Fredda da parte di Washington. Ma sono gli "Stati terzi" (del resto, con poche eccezioni, quelli più malfermi istituzionalmente) a veder ridotte le proprie capacità di manovra e di opportunità (ai tempi del bipolarismo derivanti anche dal muoversi per interstizi tra i due blocchi), senza peraltro ottenere i vantaggi dell'ordine egemonico e "costituzionalizzato" costruito in mezzo secolo a livello atlantico. In simili condizioni, come può sorprenderci che l'estensione anche a questi ultimi di una pace egemonica veda l'opposizione anche aspra di chi non vede alcun tornaconto in un tale passaggio? Sorprende semmai che l'America abbia dimenticato che alla radice del successo con cui ha trasformato potenziali rivali (come le potenze europee) in alleati e partner c'era una grande visione, una Grand Strategy di cui oggi proprio non c'è traccia. Se la costruzione di una pace egemonica non sarà accompagnata da una strategia adeguata, l'estremismo radicale avrà buon gioco nel mobilitare l'appoggio crescente di quanti si sentono alienati sia rispetto al sistema economico sia rispetto al sistema politico internazionale, e l'obiettivo di una sicurezza stabile e duratura del sistema si allontanerà sempre di più.

La "sovranità attenuata" era stata la chiave di volta che aveva permesso di costruire la pace egemonica dentro l'Occidente. Nel passaggio a una dimensione realmente globale dell'egemonia americana, l'attenuazione della sovranità si rivela insieme troppo e troppo poco. E' troppo, su una base consensuale, perché la "globalizzazione" (intesa nella sua dimensione anche di proposta ideologica) non offre agli Stati fino ad ora esterni rispetto all'Occidente gli stessi cospicui vantaggi politici ed economici che Nato e Piano Marshall (per dir così) avevano offerto all'Europa postbellica. E' poco, su una base di pura imposizione, perché solo una sua ancora più spiccata relativizzazione può forse offrire all'egemone un incremento reale e sostanziale della propria sicurezza. E' significativo che già a partire dall'amministrazione Clinton l'America abbia introdotto e ampliato l'accezione e l'uso della categoria degli "Stati canaglia" (rogue States), che implica non tanto la limitazione della sovranità di questo o quello Stato, quanto piuttosto la messa in mora della categoria di sovranità come assoluto. Con le recenti dichiarazioni, Rumsfeld si spinge oltre, affermando che la concreta partecipazione alla lotta antiterrorista (o per lo meno la possibilità di esibire una fedina penale pura) prende il posto della sovranità, come concetto cardine di quel nuovo ordine mondiale tante volte annunciato. La sovranità non è più il pilastro dell'ordine internazionale (lo si è già visto in Kosovo), perché non è più tempo che, in nome dell'affermazione del concetto di sovranità, si rinunci esplicitamente all'affermazione del concetto di giustizia. Gli americani dicono, in una parola, che Westfalia è finita.

Forse è proprio la "ferialità" con cui si compie questo passaggio oltre la sovranità - questa ennesima qualificazione (dequalificazione, a ben guardare) della sovranità, che da limitata o attenuata si fa categoria sempre meno assoluta e sempre più relativa - a rendere così difficile cogliere il movimento in atto, almeno per noi europei, che sulla forza di quella idea abbiamo costruito gli ultimi quattrocento anni di storia e gran parte della modernità. Per noi la sovranità resta un concetto connotato dalla sacralità, inevitabilmente, perché incorpora quel tanto di sacro che le restò incollato dall'esser stata sancita per porre fine alle guerre civili di religione. Nella memoria della cultura europea rimane questo duplice legame aureo tra sovranità e costruzione dello Stato (sul versante interno) e sovranità e neutralizzazione delle guerre di religione (sul versante esterno). Ma proprio la forza che la costruzione dello Stato acquisisce dalla sovranità a partire dal Seicento nasconde il fatto che, a livello di sistema, l'invenzione della sovranità ha rappresentato uno straordinario strumento per concorrere a realizzare la sicurezza collettiva, il primo principio di autolimitazione del potere arbitrario, accettato da ciascuno Stato nel nome dell'interesse egoistico "rettamente inteso". Il successo della sovranità deriva, in sintesi, non solo dall'aver saputo incatenare il demone delle guerre di religione, mettendone lo Stato a guardiano implacabile, ma anche dall'aver dato forma, attraverso il riconoscimento reciproco delle sovranità plurali in luogo di un'unica e (christiana) respublica, all'idea che tra simili possa regnare la pace. Il declino della sovranità oggi, deriva dal fatto che essa non sembra di grande utilità, quando non è tra simili che si è in guerra (Stati contro terroristi), non c'è una christiana respublica cui tutti si è appartenuto, non siamo di fronte a guerre (civili) di religione, ma semmai a guerre tra religioni.

Tutte le incognite del Nuovo Ordine Mondiale

Nel momento in cui il riconoscimento dell'eguale sovranità di ogni Stato non contribuisce più a garantire la sicurezza dell'egemone, anzi, quando sembra addirittura renderlo più vulnerabile, perché stupirsi che questi ricerchi nuove regole per un nuovo sistema? In ciò si concreta il passaggio da un'idea di ordine fondato sull'accettazione della pluralità e sul principio dell'anarchia del sistema politico internazionale a quella di un ordine basato sulla riduzione della pluralità e sul principio della gerarchia, da una visione anarchico-plurale a una gerarchico-imperiale. E tutto questo mi sembra perfettamente funzionale rispetto alle esigenze della globalizzazione del sistema economico. Che si chiami pax americana o pace egemonica, neo-impero o nuovo ordine mondiale, siamo di fronte a una sostanziale discontinuità rispetto a Westfalia, il cui corollario è che la sovranità (come era del resto accaduto storicamente) funziona paradossalmente solo tra simili, laddove essa è volontariamente e multilateralmente affermata (in termini di principio) e relativizzata (nelle conseguenze concrete), come avviene in Occidente. L'idea di sovranità e una buona parte della sua pratica hanno infatti continuato a sopravvivere oltre mezzo secolo dentro l'egemonia americana sull'Occidente, e hanno prodotto quella nuova forma "costituzionalizzata" di dominio, che ha reso la riduzione della sovranità (sia pure in ambiti e con intensità differenti) un fenomeno reciproco e dagli effetti non così deprivanti della concreta libertà. Ma fuori di qui?

Come ogni studioso di politica internazionale sa bene, non è possibile costruire nessun ordine se lo spazio conquistato non viene elaborato, se non si riformulano le categorie necessarie a "pensarlo". Ridefinire la potenza degli Stati Uniti come the power of last resort, che interviene solo quando la sicurezza globale è minacciata (questo era un po' il cuore della "dottrina Bush", prima dell'11 settembre) non basta più. Nel suo riecheggiare quell'idea schmittiana di sovranità come potere di decidere nello (e dello) stato d'eccezione, essa riposa ancora sul presupposto di un mondo "ordinato" in Stati, e dove solo questi ultimi possono rappresentare una minaccia. La novità è invece costituita dal fatto che stiamo vivendo, e sempre più vivremo, in una pluralità di sistemi politici, e non più dentro un sistema internazionale. Questa unicità al tramonto era il frutto (forse illusorio, più probabilmente contingente o temporaneo) della Guerra Fredda e dell'opposizione tra i due grandi universalismi di matrice occidentale, capaci di imporre la propria chiave di lettura al mondo anche grazie al monopolio nucleare che detenevano.

Dobbiamo partire dall'accettazione che, accanto a un sistema in cui vige l'egemonia costituzionalizzata degli Stati Uniti - ricco di leggi, istituzioni e sovranità attenuate - ne esistono altri. Alcuni sono più evidenti, come quello economico globalizzato, altri lo sono assai meno, come quello che collega aspramente tra loro culture e paesi che hanno trovato il modo di elaborare la modernità (dall'Occidente alla Cina) e quelli che non ne sono ancora stati capaci. Si tratta di sistemi diversi, dunque, regolati da norme, princìpi e aspettative differenti, ovvero da diversi regimi internazionali: ed ecco che la rilevanza teorica di questo concetto sopravanza oggi di gran lunga quello di sistema internazionale. Sono sistemi a geometria variabile, in molti dei quali siamo presenti, sia pure con modalità differenti, che però hanno poco a che fare con l'unitarietà delle nostre identità. Questo mi sembra il senso più preciso del "nuovo medioevo" tante volte evocato. In fondo, il continuare a pensare il mondo come un unico sistema politico internazionale, fondato su sovranità simili, ci ha portato al paradosso che di fronte alla minaccia che proviene da ciò che - lasciandoci attoniti - si palesa come volontariamente "altro", sappiamo soltanto combattere. Pensare a un mondo in cui quelli come noi devono vivere accanto e insieme a quelli diversi da noi mi pare consenta quantomeno di poter scegliere la guerra, tutte le volte che lo si reputi legittimo.

29 marzo 2002


(da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)


 

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