Un conflitto senza strategia
di Vittorio Emanuele Parsi
Ancorché la fase afgana della guerra contro il terrorismo sia
sostanzialmente conclusa, e si sia rivelata un successo maggiore e più
rapido di quanto potessimo sperare, non possiamo nascondere una
sensazione di disagio crescente, quasi un dubbio insinuante e malevolo,
la sensazione cioè di ritrovarci a combattere una guerra senza disporre
di un'adeguata strategia. Il dubbio si fa più consistente e fastidioso
ora, quando cresce la consapevolezza che privi di un pensiero strategico
su come (e dove) condurre questa campagna contro il terrore, potremmo
ritrovarci nell'impossibilità, o meglio, nell'incapacità di sfruttare
politicamente il successo militare conseguito sul campo, e così passare
da una posizione di forte vantaggio nei confronti del nemico terrorista
a una di pericolosissima vulnerabilità. Mentre ancora la situazione del
dopoguerra in Afghanistan si presenta fluida (per gli sviluppi
possibili) e vischiosa (per il rischio di non riuscire a disimpegnarsi
rapidamente e con efficacia), nubi di guerra si addensano sull'Irak o la
Somalia, sul Sudan o magari le Filippine meridionali. Potremmo cioè
ritrovarci nostro malgrado coinvolti in una colossale e continua
successione di "guerre di faglia", in grado di dar corpo a quello
"scontro delle civiltà" ipotizzato da Samuel Huntington come lo schema
interpretativo più plausibile dei conflitti post-Guerra Fredda.
Forniremmo così a bin Laden o ai suoi emuli e successori una
straordinaria opportunità propagandistica per convincere le masse
musulmane (già peraltro alienate rispetto al sistema economico globale e
al processo politico statuale) della natura antislamica dell'ennesima
"crociata occidentale". Eppure, per la stessa coerenza della campagna
antiterrorista, si fa sempre più probabile che una coalizione
occidentale (in quel caso nuovamente ridotta a Stati Uniti e Gran
Bretagna) si ritrovi costretta a battersi, proprio a causa dell'assenza
di una strategia appena un po' articolata, in cui la guerra sia una
scelta possibile e non l'unica alternativa prevista alla resa di fronte
al terrore.
Per comprendere le ragioni di questa assenza o carenza di una
prospettiva che non preveda esclusivamente una sorta di conflitto
permanente col mondo musulmano, dobbiamo partire dalla constatazione che
stiamo in effetti scontando l'assenza dell'elaborazione di una nuova
Grand strategy da parte delle diverse amministrazioni americane che si
sono succedute tra il 1991 (fine della Guerra Fredda) e oggi. Al di là
della tanta retorica che è stata abbondantemente impiegata intorno alla
vittoria dell'Occidente nella lunga Guerra Fredda, e nonostante
l'evidenza che il sistema bipolare e il suo equilibrio del terrore siano
tramontati, portandosi dietro anche la correlata idea di un ordine tanto
più stabile quanto più "bilanciato", gli Stati Uniti non sembra abbiano
ancora intrapreso una elaborazione convincente della nuova situazione di
egemonia globale che configura l'ordine attuale (più o meno effettivo)
del sistema.
In fondo, sembrerebbe che a Washington siano convinti che il venir meno
della potenza rivale (nella sostanziale assenza di uno sfidante globale
credibile) non comporti altro che l'estensione dell'egemonia
statunitense (già relativa all'Occidente e a porzioni consistenti
dell'Asia orientale) all'intero pianeta, a prescindere dal fatto che le
regole di funzionamento e i pilastri su cui quell'egemonia si fondava
siano utili ed efficaci anche fuori della comunità politica occidentale.
Per essere franchi - che si ritenga la stabilità dell'ordine fondata
sull'equilibrio tra potenze rivali, ovvero sull'egemonia (più o meno
costituzionalizzata) di una sola grande potenza - ciò che tendiamo a
dimenticarci è che l'insieme delle nostre categorie non è mai stato
messo alla prova in una situazione in cui la minaccia alla sicurezza o
la diffusione del potere uscivano dall'ambito del "Nord del mondo" (cioè
di una nozione di Occidente assai allargata). Equilibrio, alleanze e
paci, egemonia, istituzioni e cooperazione hanno sempre avuto come
termini di riferimento l'Europa e le sue nuove e più forti propaggini.
Quando abbiamo dovuto confrontarci con rivalità od ostilità provenienti
dai paesi esterni alla cultura europea, in realtà la nostra unica
risposta è sempre stata la guerra. E' da questa lacuna concettuale che
dobbiamo partire, per far sì non tanto che la guerra sia esclusa dal
mondo (sarebbe solo puro e pericolosissimo utopismo), ma perché essa
torni a essere una possibile scelta politica e non una necessità di
sopravvivenza, la prosecuzione della politica con altri mezzi e non la
sua abdicazione.
Di fronte a questa guerra, allora, di cui la campagna afgana rischia di
essere solo un secondo round (dopo il primo, terribile, scatenato l'11
settembre), è assai poco utile l'applicazione acritica di categorie che
rimontano a Westfalia, dove fu sancito internazionalmente quel principio
di sovranità che doveva mettere termine alla sanguinosissima stagione
delle guerre di religione. Dimenticheremmo infatti che quelle furono,
innanzitutto e schmittianamente, guerre civili di religione, mentre il
crinale sul quale pericolosamente stiamo correndo è quello della guerra
tra religioni. Altrettanto inutile è evocare Westfalia oggi, quando la
minaccia arriva principalmente da attori non statali (come la rete
terroristica di bin Laden). Siamo infatti in presenza di un evento così
rivoluzionario che diviene inservibile persino il criterio della
distruzione reciproca assicurata - presupposto logico di quell'equilibrio
del terrore che faceva scrivere Raymond Aron di una guerra improbabile
(ma che i fatti hanno dimostrato essere "impossibile" almeno tanto
quanto la pace, visto come si è autodissolta l'Urss) - dal momento che
non è uno Stato quello che minaccia un attacco atomico su New York o
Londra.
Siamo al paradosso (per quanto tragico) per cui, pur essendo le
principali "potenze" allineate o alleate tra loro, la sicurezza del
sistema è realmente a uno dei punti più bassi mai toccati fin dai tempi
della "crisi di Cuba". Eccoci quindi a una nuova guerra contro i pirati,
o contro i corsari forse, ma dove il rapporto di sudditanza tra corsaro
e sovrano sembra essere capovolto. Si direbbe che, come in tempo di pace
l'esclusività dell'azione dello Stato in politica internazionale è
sfidata da una serie di nuovi soggetti (dai movimenti alle Ong, dalle
Chiese alle multinazionali), anche in tempo di guerra lo Stato sta
perdendo quell'antico monopolio conquistato duramente a Westfalia nel
1648. Stiamo cioè forse assistendo all'estendersi degli effetti della
globalizzazione dal campo della pace a quello della guerra. Una guerra
che cambia, analogamente alla pace dunque, e i cui caratteri nuovi
abbiamo del resto già conosciuto nelle ultime guerre balcaniche, dove un
"capo-tifoso" di Belgrado trasformò se stesso in imprenditore di
violenza, e mutò degli ultras in una compagnia di ventura al "servizio"
di un'improbabile Repubblica serba di Bosnia.
Uno spartiacque epocale tra due sistemi d'ordine
Una guerra contro i pirati, eppure non una guerra minore, anzi,
quantomeno nei suoi effetti, una vera e propria guerra costituente, in
grado cioè di segnare il passaggio tra due sistemi d'ordine. Questa
campagna chiude definitivamente il post Guerra Fredda e ridispone i set
di alleanze. Essa segna innanzitutto una fase nuova di cooperazione tra
Stati Uniti e Russia: non più rivali globali, ma possibili partner
regionali. L'Amministrazione Bush, infatti, mentre non rinuncia alla
visione di un mondo unipolare, appare disponibile a una serie di
gestioni congiunte con le altre grandi potenze regionali, a partire
dalla Russia di Putin. Se Mosca si rivela un partner fondamentale per la
sicurezza nell'Asia Centrale, la stessa strada inizia a farsi
percorribile anche con la Cina, come hanno dimostrato due fatti
importanti: l'ammissione di Pechino al Wto e la dichiarazione congiunta
sinoamericana sulla lotta al terrorismo durante l'ultimo vertice dei
paesi Asia/Pacifico. E questo significa un passo avanti, non solo
simbolico, per il superamento della logica della Guerra Fredda anche in
Estremo Oriente, dove nessun Muro era caduto e nessuna grande potenza
era implosa tra il 1989 e il 1991. L'Europa perde forse una storica
occasione di presentarsi unitariamente a questo appuntamento, ma la
partecipazione effettiva di Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia
alla coalizione antiterrorismo colma almeno parzialmente il vuoto
lasciato (incolpevolmente) da Bruxelles, o meglio dal ritardo nella
concreta costruzione di un effettivo soggetto politico continentale.
E' la stessa ecatombe con cui si apre, che colloca questa guerra tra
quelle in grado di produrre conseguenze tipiche delle major wars. Del
resto, chi l'ha scatenata sembra guidato da un lucido progetto:
provocare una guerra che conduca alla fine dell'egemonia americana,
coalizzandole contro il mondo islamico (nell'accezione di Islam della
sua allucinata lettura) e così rompere l'unitarietà del sistema politico
mondiale, visto come mera estensione dell'Occidente e dei suoi valori.
Per quanto aberrante possiamo giudicare un simile proposito, bisogna
riconoscere che i suoi artefici mostrano di aver colto il punto debole
dell'attuale sistema: e cioè la non perfetta coincidenza a livello
internazionale tra ordine politico e ordine economico. Se infatti il
secondo è sostanzialmente aperto a tutti (e anzi ha rappresentato per
oltre un decennio, sotto il nome di globalizzazione, la principale
proposta ideale e ideologica offerta a chi voleva entrare nel "club
occidentale"), il primo resta un ordine segmentato. Detto altrimenti,
non c'è perfetta sovrapposizione tra l'area in cui l'ordine economico è
garantito e quella in cui l'ordine politico lo è altrettanto. E'
possibile riscontrare quanto diversa sia l'effettività dei due ordini
guardando a come del tutto opposti siano stati i tempi di reazione del
sistema nei confronti di minacce alla sua sicurezza
economico-finanziaria (si pensi alla crisi asiatica) o alla sua
sicurezza politica (si veda la lentezza di risposta di fronte alla crisi
balcanica). E, sia detto solo per inciso, non basta a giustificare una
simile discrasia la minor obsolescenza delle istituzioni economiche
globali (dalla Banca mondiale al Fondo monetario internazionale)
rispetto a quelle più tipicamente politiche (come l'Onu). Essa sembra
invece imputabile a quella impostazione ideologica iperliberista (e
assai poco liberale) che nell'ultimo decennio ha spesso visto nella
politica una fonte di problemi aggiuntivi, e non già una risorsa per
risolvere situazioni complesse, e che ha pensato quindi di "lasciare
alle forze del mercato" il compito di autoregolamentare la
globalizzazione.
E' su questa "sconnessione" che ha puntato le sue carte bin Laden,
colpendo il centro dell'economia e della finanza mondiale mentre da
questo stesso sistema traeva il sostentamento per le proprie attività
criminali. Ed è ancora per questo che, in definitiva, il suo gesto ha
voluto sfregiare innanzitutto la "capitale del moderno", quasi a mettere
a una tragica berlina questo sempre meno accettabile stridore tra ordine
economico e ordine politico. Ma nel fare ciò, il tentativo di jihad
lanciato da bin Laden ha prodotto una reazione inaspettata, un
cambiamento tipico delle guerre costitutive, che tende proprio a ridurre
quel punto di vulnerabilità tragicamente sfruttato dal terrorismo. Nei
giorni successivi l'11 settembre, infatti e senza che venisse convocata
alcuna "nuova Bretton Woods", è cominciata un'attività di intelligence
finanziaria a livello internazionale che ha modificato il regime sui
movimenti di capitali e quello sul segreto bancario. Mentre il
presidente Bush ammoniva le grandi banche internazionali che si
aspettava la più aperta e leale collaborazione per distruggere le basi
finanziarie di al Qaeda (pena la sostanziale esclusione dal mercato
americano), la Svizzera assicurava l'attenuazione delle regole poste a
tutela della riservatezza dei conti bancari. Per cogliere la rilevanza
del passo elvetico, basterà ricordare come appena due anni fa la
Confederazione, a cinquant'anni dalla guerra "a più alto tasso etico"
mai combattuta e solo grazie alla straordinaria pressione di potenti
lobbies transnazionali, si decideva a rendere pubblica la questione
dell'oro dei nazisti (ovvero dei proventi della spoliazione degli ebrei
operata dai nazisti), per oltre mezzo secolo occultato e protetto in
nome dell'inviolabilità del segreto bancario.
La capacità di cogliere lo "spirito del tempo", per cercare di
distruggerlo, bin Laden l'ha dimostrata anche nello scegliere di dare
alla sua personale jihad la forma della "guerra deterritorializzata".
L'attacco al cuore del potere economico e militare degli Stati Uniti è
avvenuto infatti vanificando l'utilità delle ingenti risorse destinate
alla protezione del territorio americano. Nel fare questo traspare la
scelta di rompere anche simbolicamente quelle idee-cardine occidentali
che sono alla base non solo dello Stato e del suo ordine interno, ma
anche dell'ordine internazionale fondato sugli Stati. Questa volontà di
spezzare concretamente e simbolicamente l'ordine occidentale si
manifesta ulteriormente nella strategia di rivolgersi - lui, un arabo,
rifugiato in Afghanistan, con alleanze in Pakistan, Malesia e Indonesia
- alla comunità dei fedeli dell'Islam, e non già alla nazione araba.
Quest'ultimo è infatti un concetto che incorpora almeno una categoria
fondamentale dell'ordine occidentale, e che segnala vistosamente la fase
di dipendenza del mondo musulmano dai concetti politici occidentali. Ma
soprattutto, parlando alla Umma, Osama si svincola dal dato
territoriale, si mette cioè nella condizione di poter temporaneamente
cedere tutto il territorio possibile (tranne quelle montagne o quelle
caverne in cui si rifugia) senza che questo intacchi la potenza del suo
messaggio per le masse diseredate dell'Islam: dal Maghreb al Mar della
Cina.
In questo Osama bin Laden segna un salto qualitativo rispetto a Saddam
Hussein, l'ultimo "campione" (assai più posticcio) della causa del
radicalismo arabo-musulmano (e non più "ampiamente" islamico), il cui
potere sarebbe stato totalmente dissolto, se solo Bush senior, una
decina d'anni fa, l'avesse privato del dominio territoriale dell'Irak. E
rischiamo di trovarci a dover correggere questo errore dieci anni dopo,
in realtà così cumulando un secondo errore a un primo. Anche Osama,
apparentemente, ne commette uno: quando, dopo aver irriso alla sovranità
territoriale della potenza egemone sembra convinto di potersi rifugiare
sotto il debole scudo della sovranità di uno degli Stati più scalcagnato
del pianeta, l'Emirato Islamico dell'Afghanistan. Più realisticamente
dobbiamo ritenere che il capo di al Qaeda fosse consapevole che la
reazione americana non si sarebbe fermata di fronte alle pretese sovrane
di Kabul, ma probabilmente contava su una maggior tenuta del regime
talebano, su una minor capacità di controllo da parte delle élite
musulmane "moderate", e su una assai più rapida sollevazione delle masse
islamiche.
Se questo si è rivelato un errore di calcolo da parte dei terroristi, un
vero e proprio abbaglio è stato quello di non aver previsto che gli
Stati Uniti fossero da tempo alla ricerca di un motivo sufficientemente
grave per procedere alla revisione dell'ordine del sistema
internazionale e delle sue regole. L'attacco portato alla sicurezza
dell'unica superpotenza planetaria da un attore non statale palesa, agli
occhi di Washington, come nessuna concentrazione di potere sia
sufficiente se le regole del sistema le sono di impaccio. E parliamo di
un impaccio che ha prodotto alcune migliaia di morti civili, in tempo di
pace, nel cuore del territorio metropolitano degli Stati Uniti. E' dalla
fine della Guerra Fredda che sono ricorrenti le accuse mosse all'America
di comportarsi come una "potenza revisionista", una potenza oltretutto
che chiede la "revisione" delle regole del gioco piuttosto che della sua
parte della torta. Storicamente questo è un fatto inedito. Giacché di
norma sono le potenze emergenti (come la Germania guglielmina) o quelle
sconfitte e in risalita (come la Germania di Hitler) ad attuare
politiche revisioniste. Eppure, lo si è ripetuto tante volte, gli Stati
Uniti hanno "vinto" la Guerra Fredda, che di fatto ha rappresentato una
guerra per l'egemonia, se è vero che ha portato alla fine del sistema
bipolare e alla nascita di un sistema unipolare, ad egemonia americana.
Come spiegare allora questo atteggiamento americano da "vittoria
mutilata" (che in superficie, davvero e talvolta, richiama l'umore
italiano dopo la Grande Guerra)? La risposta credo risieda nel fatto che
anche se la Guerra Fredda è stata per davvero una guerra costituente
vinta dagli Stati Uniti, la sua fine non ha visto alcuna "pace
costituiva". Le istituzioni della Guerra Fredda (come l'Onu) sono
sopravvissute, e quelle regole che prima consentivano alla pace
d'equilibrio tra Usa e Urss di mantenersi e consolidarsi, ora
impediscono alla nuova pace egemonica di assestarsi. E nel far questo
espongono a rischi incredibili la sicurezza dell'egemone le cui mosse,
in assenza di una ratifica per cosi dire "formale" del risultato
conseguito sul campo, risultano assai spesso apparire come conseguenza
di una volontà unilaterale, piuttosto che condizionate dal nuovo assetto
unipolare del sistema.
Guerra e declino della sovranità
E' singolare ma spiegabile il nostro non accorgerci di questo passaggio,
perché in realtà esso ha già rappresentato la chiave di volta della
strategia americana di pacificazione postbellica di quel che oggi
chiamiamo Occidente (con senso politico non del tutto coincidente
rispetto a quello culturale). Tale strategia - elaborata negli anni
Quaranta, a guerra ancora in corso - si proponeva un obiettivo immediato
piuttosto ambizioso: evitare che le potenze che in un ventennio avevano
trascinato per due volte il mondo in un conflitto devastante potessero
ripetere il medesimo errore. Se l'obiettivo era già ambizioso, la
strategia per realizzarlo lo era ancora di più. Essa partiva dalla
considerazione che la pace d'equilibrio si era dimostrata non solo
troppo fragile, ma anche estremamente difficile da perseguire: così
difficile da rappresentare essa stessa una sorta di acceleratore della
corsa verso la rottura di qualsiasi equilibrio, una volta che il sistema
avesse iniziato a collocarsi sul piano inclinato della sua instabilità.
In una parola, se il tentativo di perseguire la pace attraverso
l'equilibrio aveva portato alla guerra, essa rappresentava un pezzo del
problema e non già della soluzione. Per ovviare a questo, l'America si
propose di "mettere insieme", sotto il proprio ombrello protettivo, gli
attori che avevano così clamorosamente fallito nel tentativo di
bilanciarsi reciprocamente.
Si doveva quindi passare da una pace d'equilibrio a una pace egemonica,
di cui gli Stati Uniti sarebbero stati i garanti e gli artefici. Il
corollario di una simile impostazione, in termini economici, implicava
la partecipazione degli ex rivali a un sistema economico aperto, in cui
quelle economie fossero interdipendenti tra loro e strutturalmente
collegate a quella americana. Ciò avrebbe impedito che, a fronte di
periodi di crisi economica, i diversi sistemi nazionali potessero optare
per strategie protezioniste, ritenute giustamente concause dei conflitti
politico-militari. Il progetto iniziale, non comprendeva ancora Giappone
e Cina (allora non comunista), e nello stesso tempo non era concepito in
chiave antisovietica. La chiusura verso Mosca, dovuta alla acquisita
consapevolezza del carattere aggressivo e tirannico del regime comunista
(e l'inclusione del Giappone), subentrò solo a partire dal 1945, e diede
luogo al secondo pilastro della grande strategia americana della Guerra
Fredda: il contenimento del comunismo.
Durante la Guerra Fredda, quindi, hanno convissuto un set di regole
elaborate per assicurare una pace egemonica e almeno parzialmente "costituzionalizzata"
intra-occidentale (cioè tra quelli che tale pace avevano messo a
repentaglio due volte in vent'anni) e un diverso set di regole per
garantire una pace di equilibrio tra Est e Ovest. Del primo assetto
hanno fatto parte istituzioni come la Nato, la Banca mondiale, Il Fondo
monetario istituzionale e il Gatt (l'antenato del Wto). Del secondo
assetto hanno fatto parte istituzioni come l'Onu, i regimi sulla non
proliferazione nucleare, i diversi accordi Salt e Start sul controllo
delle armi nucleari, la Csce. La sconfitta dell'Urss e il tramonto del
bipolarismo ha visto la semplice estensione della pace egemonica
all'intero ex campo rivale. In questo caso, in forza di una particolare
versione paneconomicista del pensiero sulla globalizzazione, le regole e
le istituzioni economiche hanno preceduto quelle propriamente politiche,
così che, per esempio, gli ex paesi comunisti sono stati immediatamente
introdotti al regime di mercato e al capitalismo, ma lasciati a lungo
sulla soglia di quel regime istituzionalizzato che nei fatti aveva
stemperato la crudezza dell'egemonia americana sull'Occidente (pur
rafforzandola in termini sostanziali).
Non è accidentale il fatto che bisognerà attendere l'esplodere
dell'attuale emergenza terroristica per vedere l'inclusione della Russia
nel "nuovo ordine" (e in parte persino della Cina, con la sua piena
ammissione al Wto) oltre che il superamento definitivo della mentalità
della Guerra Fredda da parte di Washington. Ma sono gli "Stati terzi"
(del resto, con poche eccezioni, quelli più malfermi istituzionalmente)
a veder ridotte le proprie capacità di manovra e di opportunità (ai
tempi del bipolarismo derivanti anche dal muoversi per interstizi tra i
due blocchi), senza peraltro ottenere i vantaggi dell'ordine egemonico e
"costituzionalizzato" costruito in mezzo secolo a livello atlantico. In
simili condizioni, come può sorprenderci che l'estensione anche a questi
ultimi di una pace egemonica veda l'opposizione anche aspra di chi non
vede alcun tornaconto in un tale passaggio? Sorprende semmai che
l'America abbia dimenticato che alla radice del successo con cui ha
trasformato potenziali rivali (come le potenze europee) in alleati e
partner c'era una grande visione, una Grand Strategy di cui oggi proprio
non c'è traccia. Se la costruzione di una pace egemonica non sarà
accompagnata da una strategia adeguata, l'estremismo radicale avrà buon
gioco nel mobilitare l'appoggio crescente di quanti si sentono alienati
sia rispetto al sistema economico sia rispetto al sistema politico
internazionale, e l'obiettivo di una sicurezza stabile e duratura del
sistema si allontanerà sempre di più.
La "sovranità attenuata" era stata la chiave di volta che aveva permesso
di costruire la pace egemonica dentro l'Occidente. Nel passaggio a una
dimensione realmente globale dell'egemonia americana, l'attenuazione
della sovranità si rivela insieme troppo e troppo poco. E' troppo, su
una base consensuale, perché la "globalizzazione" (intesa nella sua
dimensione anche di proposta ideologica) non offre agli Stati fino ad
ora esterni rispetto all'Occidente gli stessi cospicui vantaggi politici
ed economici che Nato e Piano Marshall (per dir così) avevano offerto
all'Europa postbellica. E' poco, su una base di pura imposizione, perché
solo una sua ancora più spiccata relativizzazione può forse offrire
all'egemone un incremento reale e sostanziale della propria sicurezza.
E' significativo che già a partire dall'amministrazione Clinton
l'America abbia introdotto e ampliato l'accezione e l'uso della
categoria degli "Stati canaglia" (rogue States), che implica non tanto
la limitazione della sovranità di questo o quello Stato, quanto
piuttosto la messa in mora della categoria di sovranità come assoluto.
Con le recenti dichiarazioni, Rumsfeld si spinge oltre, affermando che
la concreta partecipazione alla lotta antiterrorista (o per lo meno la
possibilità di esibire una fedina penale pura) prende il posto della
sovranità, come concetto cardine di quel nuovo ordine mondiale tante
volte annunciato. La sovranità non è più il pilastro dell'ordine
internazionale (lo si è già visto in Kosovo), perché non è più tempo
che, in nome dell'affermazione del concetto di sovranità, si rinunci
esplicitamente all'affermazione del concetto di giustizia. Gli americani
dicono, in una parola, che Westfalia è finita.
Forse è proprio la "ferialità" con cui si compie questo passaggio oltre
la sovranità - questa ennesima qualificazione (dequalificazione, a ben
guardare) della sovranità, che da limitata o attenuata si fa categoria
sempre meno assoluta e sempre più relativa - a rendere così difficile
cogliere il movimento in atto, almeno per noi europei, che sulla forza
di quella idea abbiamo costruito gli ultimi quattrocento anni di storia
e gran parte della modernità. Per noi la sovranità resta un concetto
connotato dalla sacralità, inevitabilmente, perché incorpora quel tanto
di sacro che le restò incollato dall'esser stata sancita per porre fine
alle guerre civili di religione. Nella memoria della cultura europea
rimane questo duplice legame aureo tra sovranità e costruzione dello
Stato (sul versante interno) e sovranità e neutralizzazione delle guerre
di religione (sul versante esterno). Ma proprio la forza che la
costruzione dello Stato acquisisce dalla sovranità a partire dal
Seicento nasconde il fatto che, a livello di sistema, l'invenzione della
sovranità ha rappresentato uno straordinario strumento per concorrere a
realizzare la sicurezza collettiva, il primo principio di
autolimitazione del potere arbitrario, accettato da ciascuno Stato nel
nome dell'interesse egoistico "rettamente inteso". Il successo della
sovranità deriva, in sintesi, non solo dall'aver saputo incatenare il
demone delle guerre di religione, mettendone lo Stato a guardiano
implacabile, ma anche dall'aver dato forma, attraverso il riconoscimento
reciproco delle sovranità plurali in luogo di un'unica e (christiana)
respublica, all'idea che tra simili possa regnare la pace. Il declino
della sovranità oggi, deriva dal fatto che essa non sembra di grande
utilità, quando non è tra simili che si è in guerra (Stati contro
terroristi), non c'è una christiana respublica cui tutti si è
appartenuto, non siamo di fronte a guerre (civili) di religione, ma
semmai a guerre tra religioni.
Tutte le incognite del Nuovo Ordine Mondiale
Nel momento in cui il riconoscimento dell'eguale sovranità di ogni Stato
non contribuisce più a garantire la sicurezza dell'egemone, anzi, quando
sembra addirittura renderlo più vulnerabile, perché stupirsi che questi
ricerchi nuove regole per un nuovo sistema? In ciò si concreta il
passaggio da un'idea di ordine fondato sull'accettazione della pluralità
e sul principio dell'anarchia del sistema politico internazionale a
quella di un ordine basato sulla riduzione della pluralità e sul
principio della gerarchia, da una visione anarchico-plurale a una
gerarchico-imperiale. E tutto questo mi sembra perfettamente funzionale
rispetto alle esigenze della globalizzazione del sistema economico. Che
si chiami pax americana o pace egemonica, neo-impero o nuovo ordine
mondiale, siamo di fronte a una sostanziale discontinuità rispetto a
Westfalia, il cui corollario è che la sovranità (come era del resto
accaduto storicamente) funziona paradossalmente solo tra simili, laddove
essa è volontariamente e multilateralmente affermata (in termini di
principio) e relativizzata (nelle conseguenze concrete), come avviene in
Occidente. L'idea di sovranità e una buona parte della sua pratica hanno
infatti continuato a sopravvivere oltre mezzo secolo dentro l'egemonia
americana sull'Occidente, e hanno prodotto quella nuova forma "costituzionalizzata"
di dominio, che ha reso la riduzione della sovranità (sia pure in ambiti
e con intensità differenti) un fenomeno reciproco e dagli effetti non
così deprivanti della concreta libertà. Ma fuori di qui?
Come ogni studioso di politica internazionale sa bene, non è possibile
costruire nessun ordine se lo spazio conquistato non viene elaborato, se
non si riformulano le categorie necessarie a "pensarlo". Ridefinire la
potenza degli Stati Uniti come the power of last resort, che interviene
solo quando la sicurezza globale è minacciata (questo era un po' il
cuore della "dottrina Bush", prima dell'11 settembre) non basta più. Nel
suo riecheggiare quell'idea schmittiana di sovranità come potere di
decidere nello (e dello) stato d'eccezione, essa riposa ancora sul
presupposto di un mondo "ordinato" in Stati, e dove solo questi ultimi
possono rappresentare una minaccia. La novità è invece costituita dal
fatto che stiamo vivendo, e sempre più vivremo, in una pluralità di
sistemi politici, e non più dentro un sistema internazionale. Questa
unicità al tramonto era il frutto (forse illusorio, più probabilmente
contingente o temporaneo) della Guerra Fredda e dell'opposizione tra i
due grandi universalismi di matrice occidentale, capaci di imporre la
propria chiave di lettura al mondo anche grazie al monopolio nucleare
che detenevano.
Dobbiamo partire dall'accettazione che, accanto a un sistema in cui vige
l'egemonia costituzionalizzata degli Stati Uniti - ricco di leggi,
istituzioni e sovranità attenuate - ne esistono altri. Alcuni sono più
evidenti, come quello economico globalizzato, altri lo sono assai meno,
come quello che collega aspramente tra loro culture e paesi che hanno
trovato il modo di elaborare la modernità (dall'Occidente alla Cina) e
quelli che non ne sono ancora stati capaci. Si tratta di sistemi
diversi, dunque, regolati da norme, princìpi e aspettative differenti,
ovvero da diversi regimi internazionali: ed ecco che la rilevanza
teorica di questo concetto sopravanza oggi di gran lunga quello di
sistema internazionale. Sono sistemi a geometria variabile, in molti dei
quali siamo presenti, sia pure con modalità differenti, che però hanno
poco a che fare con l'unitarietà delle nostre identità. Questo mi sembra
il senso più preciso del "nuovo medioevo" tante volte evocato. In fondo,
il continuare a pensare il mondo come un unico sistema politico
internazionale, fondato su sovranità simili, ci ha portato al paradosso
che di fronte alla minaccia che proviene da ciò che - lasciandoci
attoniti - si palesa come volontariamente "altro", sappiamo soltanto
combattere. Pensare a un mondo in cui quelli come noi devono vivere
accanto e insieme a quelli diversi da noi mi pare consenta quantomeno di
poter scegliere la guerra, tutte le volte che lo si reputi legittimo.
29 marzo 2002
(da
Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)
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