Diamo una possibilità alla guerra
di Edward N. Luttwak


La spiacevole verità di cui spesso sembriamo dimentichi è che la guerra, nonostante costituisca un male enorme per l'umanità, racchiude in sé anche una grande virtù: è in grado di risolvere i conflitti politici e di portare la pace. Questo può accadere quando tutte le parti in causa raggiungono lo sfinimento oppure quando una di esse ottiene una vittoria decisiva, ma, sia in un caso che nell'altro, il segreto consiste nel permettere agli scontri di continuare finché non viene raggiunta un'intesa. La guerra porta la pace soltanto dopo aver superato l'apice della violenza: ogni speranza di vittoria deve scomparire prima che un accordo arrivi a rappresentare un'alternativa più attraente rispetto al proseguimento delle ostilità. Tuttavia, da quando sono state istituite le Nazioni Unite e le grandi potenze sono entrate a far parte del suo Consiglio di Sicurezza, raramente è stato permesso a guerre tra potenze minori di seguire il proprio corso naturale: in generale sono state interrotte piuttosto rapidamente, prima che potessero esaurirsi spontaneamente e creare i presupposti per una pace duratura. Sotto l'egida del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, sono spesso stati imposti armistizi e tregue con l'intento di bloccare i combattimenti: l'intervento della Nato in Kosovo si inserisce in questa logica.

I cessate il fuoco tendono tuttavia ad impedire alla guerra di portare a termine la propria opera di sfinimento dei belligeranti, permettendo loro, invece, di ricostituire e riarmare le proprie truppe e causando in tal modo il riaprirsi e l'intensificarsi delle ostilità al termine della tregua, che in generale vede sempre una fine. E' successo nella guerra arabo-israeliana del 1948-49, che si sarebbe conclusa nell'arco di qualche settimana se due cessate il fuoco, imposti dal Consiglio di Sicurezza, non avessero permesso ai combattenti di recuperare. Ed è successo, più recentemente, anche nei Balcani: le tregue imposte dall'Onu hanno interrotto continuamente i conflitti tra serbi e croati in Krajina, gli scontri tra le forze rimaste all'ex federazione jugoslava e le truppe croate, le lotte tra serbi, croati e musulmani in Bosnia. Ogni volta, le fazioni sfruttavano la sospensione delle ostilità per reclutare, addestrare ed equipaggiare nuove forze destinate al combattimento, prolungando in tal modo la guerra ed ampliando il proprio potenziale di morte e distruzione. A meno che non fossero seguiti da negoziazioni per il raggiungimento di un accordo di pace, tutti gli armistizi imposti dall'Onu hanno avuto l'effetto di congelare artificialmente il conflitto e di perpetuare lo stato di guerra, in quanto proteggevano la fazione più debole dalle conseguenze cui sarebbe andata incontro rifiutandosi di trattare per ottenere la pace.

Dopo la Guerra Fredda, un comportamento del genere è stato una scelta obbligata per le due superpotenze mondiali, che a volte si sono ritrovate a collaborare per costringere potenze minori a seguire determinate linee di condotta, in modo da non essere coinvolte nelle loro guerre e doversi scontrare direttamente l'una contro l'altra. Nonostante l'imposizione di tregue abbia aumentato la durata complessiva dei conflitti tra potenze minori e gli armistizi abbiano perpetuato lo stato di guerra, da un punto di vista globale entrambi i risultati sono comunque mali minori se paragonati al pericolo di una guerra nucleare. Ma oggi americani e russi non sono disposti ad intervenire nei conflitti tra potenze minori schierandosi gli uni contro gli altri. Di conseguenza, gli spiacevoli effetti dovuti alle continue interruzioni di tali conflitti si protraggono impedendo il raggiungimento di accordi di pace, senza che per ciò sia scongiurato il pericolo maggiore.

I problemi delle forze di pace

Oggi accordi multilaterali impongono tregue ed armistizi alle potenze minori non tanto per evitare uno scontro diretto tra le due superpotenze, quanto per motivazioni non dettate dall'interesse e piuttosto frivole, quali la repulsione del pubblico televisivo per strazianti scene di guerra. Ma, con un meccanismo perverso, questo può sistematicamente impedire la trasformazione della guerra in pace. Gli accordi di Dayton ne sono un esempio: hanno condannato la Bosnia a rimanere divisa, in quanto le tre fazioni armate presenti sul suo territorio hanno momentaneamente sospeso le ostilità, ma continuano, e continueranno a tempo indeterminato, ad odiarsi reciprocamente. Poiché nessuna di esse rischia di essere sconfitta o di subire perdite, nessuna sente la necessità di negoziare un accordo duraturo. E dato che all'orizzonte non si prospetta alcuna possibilità di pace, la loro priorità assoluta consiste nel prepararsi a continuare la guerra e non nel ricostruire un'economia devastata e una società distrutta. Una guerra ininterrotta avrebbe certamente causato maggiori sofferenze e l'esito delle ostilità sarebbe stato considerato ingiusto da una fazione o dall'altra, ma si sarebbe creata una situazione più stabile che avrebbe permesso l'inizio di un vero dopoguerra. La pace attecchisce soltanto quando la guerra è davvero finita.

Oggi esistono numerose organizzazioni multilaterali che si ritengono in dovere di intervenire nelle guerre altrui. La caratteristica principale di questi enti è che, pur volendosi inserire nei conflitti, si rifiutano di ingaggiare battaglia, il che, a lungo andare, peggiora soltanto la situazione. In realtà, se le Nazioni Unite aiutassero i più forti a sconfiggere i più deboli in modo più veloce e decisivo, non farebbero altro che aumentare il potenziale pacificatore della guerra. Priorità assoluta dell'Onu, tuttavia, è di evitare perdite. Di conseguenza, i comandanti delle varie unità cercano in generale di tenersi buona la fazione più forte della zona, accettandone le imposizioni e tollerandone gli abusi. Questo comportamento non è di nessuna utilità strategica, come potrebbe esserlo invece schierarsi dalla parte del più forte in assoluto: riflette soltanto la volontà dei contingenti Onu di evitare scontri armati ed impedisce una risoluzione congruente del conflitto, che richiederebbe uno squilibrio di forze sufficiente a porre definitivamente fine alle ostilità. Forze di pace così restie all'uso della violenza sono anche incapaci di fornire una protezione efficace ai civili casualmente coinvolti negli scontri o vittime di attacchi deliberati. Nel migliore dei casi, le truppe dell'Onu hanno assistito passivamente ad attentati e massacri, come è accaduto in Bosnia e in Ruanda; nel peggiore, vi hanno preso parte, come ha fatto il contingente olandese di stanza a Srebenica, che, durante la presa della città, ha aiutato i serbi bosniaci a separare gli uomini abili al servizio militare dal resto della popolazione.

La sola presenza delle forze Onu inibisce la normale reazione dei civili che si trovano in pericolo, e cioè la fuga dai luoghi degli scontri, in quanto dà loro un falso senso di sicurezza che li induce a rimanere nelle zone di lotta fino all'ultimo, quando ormai è troppo tardi per scappare. Tra il 1992 ed il 1994, durante l'assedio di Sarajevo, la politica dei contingenti Onu di soddisfare le richieste della fazione più forte nella zona ha interagito in modo estremamente perverso con il loro intento di proteggere i civili: per evitare la fuga degli abitanti, il personale delle Nazioni Unite ispezionava tutti i voli in partenza dalla città conformemente all'accordo per il cessate il fuoco stipulato con i serbi bosniaci, fazione dominante a Sarajevo, che invece lo hanno raramente rispettato. Di fronte all'infuriare della guerra, la reazione più logica ed intelligente per i musulmani sarebbe stata quella di fuggire dalla città o di scacciare i serbi. Pur mancando persino del personale e della rudimentale struttura di comando dell'Onu, istituzioni come l'Unione Europea, l'Unione dell'Europa occidentale (Ueo) e l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) cercano comunque di inserirsi nei conflitti, con conseguenze prevedibili. Prive di forze anche teoricamente capaci di combattere, soddisfano le richieste di intervento degli Stati membri (o le proprie ambizioni istituzionali) inviando nei paesi in guerra osservatori disarmati o quasi, che si trovano ad affrontare esattamente le stesse difficoltà incontrate dalle forze di pace dell'Onu, con la differenza che queste ultime, almeno, sono meglio equipaggiate.

Organizzazioni militari come la Nato o la Forza d'interposizione dei paesi dell'Africa occidentale (Ecomog, all'opera in Sierra Leone) sono in condizione di fermare gli scontri, nonostante anche i loro interventi abbiano per effetto il perpetuarsi dello stato di guerra. Per lo meno sono in grado di proteggere i civili, sebbene a volte falliscano perché i contingenti militari multinazionali impegnati in interventi disinteressati tendono ad evitare qualsiasi rischio derivante dal combattimento diretto, limitando in tal modo la propria efficacia. Le truppe americane in Bosnia, ad esempio, hanno ripetutamente ignorato il passaggio di noti criminali di guerra ai loro posti di blocco pur di non provocare scontri a fuoco. Inoltre, i comandanti dei contingenti multinazionali non sono in grado di controllare la qualità e la condotta delle unità inviate dai singoli Stati membri, elementi che potrebbero compromettere il lavoro di tutte le forze coinvolte riducendone l'efficacia al minimo. Il fenomeno dell'abbrutimento delle truppe non è facilmente rilevabile dall'esterno, sebbene abbia delle conseguenze lampanti, se si considera la scia delle vittime di massacri, mutilazioni, stupri e torture che si lasciano alle spalle alcuni interventi multinazionali. Rare eccezioni confermano la regola, come quella dell'energico battaglione di carri danese che, in Bosnia, rispondeva ad ogni attacco con la massima potenza di fuoco, bloccando immediatamente gli avversari.

Sono finite le guerre eroiche

Gli interventi disinteressati appena illustrati, con tutte le loro rovinose limitazioni, vengono tuttavia eclissati dalle operazioni che la Nato sta attualmente svolgendo contro la Serbia a protezione del Kosovo. L'Alleanza Atlantica ha deciso di sfruttare soltanto il proprio potenziale aereo, allo scopo di minimizzare i rischi di perdite umane, colpendo obiettivi in Serbia, Montenegro e Kosovo per intere settimane senza neanche una vittima tra i suoi piloti. Questa immunità nei confronti della contraerea jugoslava sembra avere del miracoloso, ma è stata ottenuta grazie a moltissime precauzioni. In primo luogo, nonostante le notizie e le immagini diffuse dai mass media facessero pensare ad un'operazione massiccia, nelle prime settimane sono state effettuate pochissime sortite d'attacco, il che ha ridotto non soltanto i rischi per piloti e velivoli, ma anche la capacità distruttiva dei bombardamenti, che hanno dimostrato solo una piccola frazione del potenziale militare della Nato. In secondo luogo, gli attacchi iniziali miravano esclusivamente a distruggere i sistemi contraerei nemici, in modo da ridurre al minimo le perdite presenti e future, anche a costo di limitare i danni inflitti alla parte avversa e di perdere l'effetto sorpresa. In terzo luogo, la Nato ha ordinato ai propri piloti di sganciare le bombe non da un'altezza ottimale, ma da una quota di almeno 15.000 piedi, dove sarebbero stati al sicuro da quasi tutto il fuoco nemico. In quarto luogo, la Nato sosteneva che la nuvolosità compatta ostacolava la campagna di bombardamento e ha quindi evitato di operare in condizioni meteorologiche che non fossero più che perfette, trasformando spesso le operazioni notturne in sporadici attacchi contro bersagli fissi di cui era nota la posizione; in realtà, le nuvole non impedivano i bombardamenti (dato che gli attacchi a bassa quota non hanno bisogno del cielo sereno), ma soltanto quelli da alta quota, nei quali i velivoli operano al sicuro dalla contraerea nemica.

A terra, centinaia e centinaia di metri al di sotto degli aerei della Nato, piccoli gruppi di soldati e poliziotti serbi a bordo di blindati terrorizzavano centinaia di migliaia di kosovari albanesi. La Nato possiede un vasto assortimento di velivoli progettati per individuare e distruggere veicoli di questo tipo. Tutte le maggiori potenze appartenenti all'Alleanza Atlantica dispongono di elicotteri anticarro, alcuni dei quali in grado di operare con ridotto sostegno logistico. Ma nessuna di queste nazioni si è offerta di inviare i propri mezzi in Kosovo quando è iniziata la pulizia etnica: dopotutto, avrebbero potuto essere abbattuti. Quando poi l'ordine di partenza per l'Albania è arrivato agli elicotteri americani Apache di base in Germania, nonostante le notevoli spese sostenute negli anni per mantenerli sempre pronti all'azione, ci sono volute tre settimane abbondanti per predisporli al rischieramento. Sei settimane dopo l'inizio della guerra, gli Apache dovevano ancora affrontare la loro prima missione, sebbene due di essi si fossero già schiantati durante i voli di addestramento. Responsabile di questo lungo ritardo non è stata soltanto la burocrazia, con la sua celeberrima lentezza: l'esercito americano continuava ad affermare che gli Apache non potevano operare da soli e che, per arrivare a distruggere l'artiglieria contraerea serba, avevano bisogno di essere protetti da un pesante fuoco di sbarramento, il che ha richiesto un'organizzazione logistica molto più ampia di quella già predisposta, causando un ulteriore, gradito, ritardo.

Ancora prima che iniziasse la lunga trafila per il rischieramento degli Apache, la Nato disponeva già, nelle sue basi italiane, di altri velivoli in grado di svolgere il medesimo compito: gli A-10 americani, i "Warthog", con i loro potenti cannoni anticarro da 30 millimetri, e gli Harriers della Raf, ideali per bombardamenti a bassa quota da distanza ravvicinata. Nessuno di questi velivoli è stato impiegato, ancora una volta perché non potevano operare in completa sicurezza. Evidentemente, nei calcoli eseguiti dalle democrazie della Nato la possibilità immediata di salvare dal massacro o dalla deportazione centinaia di migliaia di albanesi non valeva la vita di una manciata di piloti. Una decisione del genere può riflettere un'inevitabile realtà politica, ma dimostra anche che persino interventi disinteressati su vasta scala possono non essere in grado di raggiungere il proprio scopo apparentemente umanitario. Varrebbe la pena chiedersi se la sorte dei kosovari sarebbe stata migliore se la Nato si fosse astenuta dall'intervenire.

Nazioni di profughi

Il più disinteressato, ed il più distruttivo, degli interventi nelle guerre è quello delle organizzazioni a scopo umanitario, la più grande ed attiva delle quali è l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'assistenza ed il lavoro ai rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Il suo predecessore diretto, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e la ricostruzione (Unrra), aveva in gestione i campi profughi in Europa subito dopo la seconda guerra mondiale. L'Unrwa venne istituita immediatamente dopo la fine della guerra arabo-israeliana del 1948-49, allo scopo di fornire vitto, alloggio, istruzione ed assistenza medica ai rifugiati arabi fuggiti dalle zone in mano agli israeliani negli ex territori palestinesi. Avendo fornito ai profughi condizioni spartane, che li incoraggiavano ad emigrare al più presto o ad integrarsi con la popolazione locale, i campi gestiti dall'Unrra in Europa erano serviti a placare i rancori postbellici e a disperdere i gruppi di revanscisti. Ma nei campi dell'Unrwa in Libano, in Siria, in Giordania, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, il tenore di vita era generalmente superiore a quello a cui era abituata la maggior parte degli abitanti dei villaggi arabi: una dieta più varia, delle scuole, un'assistenza medica migliore, tutto senza doversi spezzare la schiena lavorando una terra sassosa. Questi campi hanno quindi sortito l'effetto opposto a quello desiderato, diventando residenze ambite invece di alloggi temporanei da abbandonare al più presto. Incoraggiata da numerosi paesi arabi, l'Unrwa ha trasformato i civili in fuga in profughi a vita, che hanno messo al mondo altri profughi, che a loro volta hanno dato alla luce altri profughi ancora.

Nei suoi cinquant'anni di vita, l'Unrwa ha quindi perpetuato un'intera nazione di rifugiati palestinesi, mantenendo vivo il loro rancore nei confronti degli israeliani e serbando intatti i loro sentimenti revanscistici. Con la sua sola presenza, intralcia il processo di integrazione con la popolazione locale ed ostacola l'emigrazione. Inoltre, la concentrazione di palestinesi nei campi facilita il reclutamento, volontario od imposto, di giovani rifugiati da parte di organizzazioni armate che combattono sia contro Israele che l'una contro l'altra. L'Unrwa ha contribuito a cinquant'anni di violenze arabo-israeliane e continua ancora oggi ad ostacolare il processo di pace.
Se dopo ogni guerra europea fosse stata creata un'organizzazione come l'Unrwa, oggi il vecchio continente pullulerebbe di enormi campi profughi abitati da milioni di discendenti di gallo-romani senza patria, vandali abbandonati, burgundi sconfitti e visigoti senza terra, per non parlare di nazioni di rifugiati molto più recenti, come quella dei tedeschi provenienti dai Sudeti (la Cecoslovacchia ne espulse tre milioni nel 1945). Un'Europa simile sarebbe rimasta un mosaico di tribù in lotta, incapaci, ognuna in fondo al proprio campo, di digerire i propri rancori e di riconciliarsi con le altre. Aiutare profughi e rifugiati dopo ogni conflitto sarebbe servito a placare le coscienze, ma avrebbe creato una situazione di instabilità permanente e causato un continuo susseguirsi di violenze.

Organizzazioni equivalenti all'Unrwa esistono in tutto il mondo. Un esempio ne sono i campi profughi cambogiani al confine con la Thailandia, che, detto per inciso, hanno anche costituito un rifugio sicuro per i Khmer Rossi, autori di terribili massacri. Tuttavia, proprio perché l'attività delle Nazioni Unite è limitata dagli scarsi contributi degli Stati membri, l'opera di sabotaggio della pace portata avanti da questi campi rimane limitata all'area in cui si trovano. Quest'ultima considerazione non è valida per la proliferante massa di organizzazioni non governative (Ong), sempre febbrilmente in competizione tra loro, che ora corrono in aiuto dei profughi di guerra. Come tutte le altre istituzioni, anche le Ong mirano a mantenersi in vita, il che significa che la loro priorità assoluta consiste nell'attrarre contributi caritativi grazie alle opere che svolgono in situazioni ben documentate dai media e portate all'attenzione del grande pubblico. Per quanto riguarda i disastri naturali, soltanto quelli più spettacolari stimolano davvero l'interesse dei mass media, e comunque soltanto per poco tempo: dopo un terremoto o un'alluvione, le telecamere spariscono in fretta. I profughi di guerra, invece, sono in grado di occupare le prime pagine dei giornali piuttosto a lungo, se vengono opportunamente concentrati in campi ragionevolmente accessibili. Dato che le guerre vere tra paesi ricchi sono molto rare e non offrono molte opportunità, le Ong preferiscono concentrare i loro sforzi nelle regioni povere. Così accade che, pur essendo totalmente insufficienti per gli standard europei, il cibo, gli alloggi e l'assistenza medica offerti ai profughi superino di gran lunga ciò di cui dispongono, nella stessa regione del mondo, coloro che vivono al di fuori dei campi. Le conseguenze sono prevedibili. Tra i molti esempi che potremmo fare, spiccano gli enormi campi profughi situati tra Congo e Ruanda: sono le Ong a mantenere in vita la nazione hutu, che altrimenti sarebbe stata dispersa; così facendo, però, rendono impossibile il consolidamento del Ruanda ed offrono ai rifugiati più radicali una base da cui organizzare incursioni al di là del confine a caccia di tutsi da massacrare. A causa degli interventi umanitari, la probabilità di giungere ad una soluzione stabile e duratura del conflitto ruandese è fortemente diminuita.

Tenere compatte ed in vita intere nazioni di profughi e mantenere intatti i loro sentimenti di odio è già abbastanza dannoso, ma fornire aiuti materiali ai partiti in guerra è ancora peggio. Molte Ong che operano in odore di santità supportano regolarmente i combattenti. Essendo prive di qualsiasi difesa, non possono escludere i guerrieri armati dalle loro mense, dalle loro cliniche e dai loro ricoveri. Dato che, presumibilmente, i profughi appartengono alla parte che sta perdendo la guerra, i combattenti che si trovano tra di loro in genere stanno battendo in ritirata. Fornendo loro aiuto, le Ong impediscono sistematicamente ai loro nemici di ottenere la vittoria decisiva che porrebbe fine al conflitto. A volte, per non essere accusate di parzialità, arrivano persino a supportare entrambi i lati, impedendo loro di arrivare allo sfinimento e di raggiungere finalmente un accordo. In casi estremi, come è successo in Somalia, le Ong comprano addirittura la protezione di bande armate locali, che usano questi fondi per acquistare armi. Queste organizzazioni contribuiscono quindi a prolungare le guerre invece di attenuarne gli effetti come credono di fare.

Facciamo la guerra per fare la pace

Oggigiorno troppe guerre si trasformano in conflitti endemici senza fine perché interventi esterni bloccano sia il processo di reciproco sfinimento delle parti che la vittoria decisiva di una di esse. Diversamente dalla guerra, problema vecchio quanto il mondo, la nuova pratica distruttiva che consiste nel peggiorarne i mali attraverso interventi disinteressati può essere limitata. Le élite politiche dovrebbero resistere all'impulso emotivo che le spinge ad intervenire nelle guerre altrui, non perché siano indifferenti alla sofferenza umana, ma proprio perché non lo sono e desiderano facilitare l'avvento della pace. Gli Stati Uniti dovrebbero osteggiare gli interventi multilaterali invece di capeggiarli. Bisognerebbe stabilire nuove norme che regolino gli aiuti forniti ai profughi dall'Onu, in modo da garantire che l'assistenza immediata sia sollecitamente seguita dal rimpatrio, dall'integrazione nella popolazione locale o dall'emigrazione, impedendo la creazione di campi profughi permanenti. E sebbene sia forse impossibile limitare l'azione degli interventisti delle Ong, organizzazioni di questo tipo non dovrebbero essere né incoraggiate né fondate ufficialmente. Sottostare a queste regole apparentemente così perverse significherebbe dimostrare di aver compreso appieno la logica paradossale della guerra ed assumersi l'impegno di lasciarle svolgere la sua unica funzione utile: portare la pace.

(The New York Times Syndication Sales Corp.)

29 marzo 2002


(da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio. Traduzione dall'inglese di Sarah del Meglio)


 

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