Medio Oriente, guerra senza vittorie
di Ludovico Incisa di Camerana

Più di mezzo secolo di ostilità, di guerre limitate, di guerriglia, di attentati terroristici, di tregue precarie, di manovre diplomatiche di mezzo mondo, non è bastato per giungere ad una soluzione definitiva della spartizione della Palestina. Non è bastato perché la soluzione definitiva si è dimostrata finora militarmente possibile, politicamente impossibile. Sul piano militare Israele ha sempre vinto ed è in grado di vincere ancora. Può distruggere la Palestina araba, spazzare via Arafat e i suoi, ricacciare oltre il Giordano gli elementi disturbatori, sottomettere chi rimarrà come ha sottomesso la minoranza araba già esistente entro i confini dello Stato, senza che il mondo arabo possa reagire militarmente in modo efficace. Tra l’altro l’unica potenza militare araba, l’Egitto, senza il cui apporto una guerra durerebbe al massimo un paio di giorni, non ha alcuna intenzione di subire altre disastrose sconfitte e altrettanto si può dire della Siria. E l’Egitto, come la Siria, non ha più una carta internazionale da giocare, come ebbe a giocare durante la guerra fredda la carta dell’Urss, ma ha come massimo riferimento internazionale, lo stesso di Israele: gli Stati Uniti.

Ma politicamente la vittoria totale di Israele è impossibile: se il mondo arabo non è in grado di sostenere militarmente i confratelli palestinesi, è in grado politicamente di bloccare la conquista dell’intera Palestina, la realizzazione di un grande Israele. Nei diversi conflitti arabo-israeliani, nella guerra di spartizione del 1948, nella guerra di Suez del 1956, nella guerra dei sei giorni del 1967, nella guerra del Kippur del 1973, nella spedizione in Libano del 1982, gli Stati Uniti hanno sempre fermato l’esercito israeliano quando la vittoria stava per diventare schiacciante. Come le altre vittorie, pertanto, anche la prossima sarebbe una vittoria limitata e simbolica con il ritorno al punto di partenza.

Sharon, brillante generale delle truppe corazzate, è la personificazione di questa frustrazione israeliana: collezionista di amare vittorie, protagonista nel 1973 di una memorabile marcia sul Cairo, troncata a poca distanza dalla capitale nemica dall’intervento dei pompieri della diplomazia occidentale, fermato nel 1982 a Beirut, quando, per esigenze politiche, si è lasciato scappare di mano Arafat e il piccolo esercito dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Sempre battaglie vinte ma, ma senza un seguito trionfale, napoleonico, senza il sole di Austerlitz, subito oscurato dalla ragion di Stato. Ma proprio perché militare al cento per cento può invertire la massima di Clausewitz, “la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi” e sostituire la politica alla guerra.

Il rischio altrimenti è una guerra di posizione prolungata, come quella in corso con dispetti sanguinosi da una parte e dall’altra: un terrorismo ignobile e irrazionale e ritorsioni a casaccio in circostanze sempre meno favorevoli. Il pubblico internazionale, infatti, è sempre più annoiato e disattento. Gli emissari americani vanno sul posto muniti di guanti, convinti di trovarsi in un nido di vipere e cercando di sbrigarsela, come il generale Zinni, il più presto possibile. L’Unione Europea si destreggia come può cercando di non irritare nessuno. Corrono perfino voci sulla costruzione, più di dieci anni dopo il crollo del Muro di Berlino, di un muro che separi la Palestina israeliana dalla Palestina araba. Si parla dell’indebolimento di Arafat, bestia nera di Sharon, e della vecchia guardia dell’OLP, ma, come avvisa su Foreign Affairs un esperto palestinese, Khalil Shikaki, la giovane guardia, i possibili successori sono peggio.

Non più collegato con i grandi antagonismi della guerra fredda, e per ora nemmeno con la nuova guerra contro il terrorismo fondamentalista islamico (non figurano elementi palestinesi né tra gli attentatori dell’11 settembre né nello stato maggiore di Al-Qaeda) il conflitto arabo-israeliano perde in urgenza, infiacchisce le mediazioni diplomatiche più abili e anziché a una guerra lampo, a un blitz, sembra preludere a una guerra perpetua, a una guerra dei cent’anni. L’idea italiana di una nuova conferenza internazionale e di un Piano Marshall può essere forse la premessa più efficace di una pace definitiva. Finora politicamente si è tentato di tutto e ormai solo un’invasione pacifica di sviluppo e di ricchezza, un blitz di euro e di dollari fraternamente alleati può fermare gli pseudo eroi e le pseudo eroine di attentati infami e la marcia a vuoto dei carri armati di Sharon verso un vicolo cieco.

15 marzo 2002

(da Emporion - quindicinale di geoeconomia)
 

 

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