Israele nell'Ue: una soluzione radicale
di Barbara Mennitti
La situazione in Israele e nei territori occupati sta vivendo in questi
giorni una delle sue fasi più drammatiche. Talmente drammatica che è
davvero difficile stare dietro agli eventi. L'intifada palestinese è
diventata ormai una guerra in piena regola: attentati, autobombe,
kamikaze, giovani uomini e, per la prima volta, donne, che si fanno
saltare in aria pur di uccidere qualche odiato nemico hanno raggiunto in
questi ultimi mesi una cadenza quasi quotidiana. La guerra di un popolo
povero che non dispone di un esercito regolare. Gli israeliani
reagiscono con la forza del loro apparato militare, attaccando Gaza,
occupando la città autonoma palestinese di Tulkarem e i campi profughi
vicini. Gli inviati degli Usa, dell'Ue e della Russia si preparano a
partire per l'ennesima missione in Medio Oriente. Forse ancora una volta
inutilmente.
Si fa un gran parlare della proposta saudita per risolvere la questione
israeliano-palestinese: i paesi arabi riconoscerebbero lo stato
d'Israele in cambio del ritiro dai territori occupati. Una proposta di
una banalità disarmante, ma è la prima volta che un paese arabo ventila
la possibilità di riconoscere lo stato ebraico. E il 10 marzo al Cairo,
durante il vertice dei ministri degli Esteri, si spacca la Lega araba:
Irak, Siria e Libia prendono le distanze dalla posizione di maggioranza
chiedendo una condanna più decisa delle politiche di Israele. Il giorno
dopo Sharon annuncia di essere pronto a rinunciare alla clausola dei
"sette giorni di calma" prima di intavolare i negoziati di pace e revoca
il provvedimento restrittivo preso contro il leader palestinese Arafat,
di fatto confinato da settimane a Ramallah. Ma i sette membri del
partito nazionalista "Yisrael Beitenu" dichiarano di voler abbandonare
il governo: Sharon conserverebbe la maggioranza, ma sarebbe legato a
doppio filo al partito laburista.
E proprio in questi giorni, dal 4 al 6 marzo, il partito radicale
transnazionale ha organizzato presso il Parlamento Europeo una
conferenza dal titolo "Israele nell'Unione Europea" con lo scopo di
"approfondire la fattibilità politica e giuridica di un processo di
piena integrazione del paese nell'Unione Europea, al fine di creare un
accordo di pace durevole in Medio Oriente che possa preservare la natura
democratica dello stato di Israele". Una proposta che all'inizio
sembrava una tipica provocazione in stile pannelliano, ma una lunga
esperienza ci ha insegnato a non essere troppo ansiosi di sorridere di
siffatte iniziative dei radicali. E vedere per la prima volta tanti
politici e intellettuali riuniti a discutere di questa eventualità, ci
ha dato l'impressione che forse questa soluzione non è poi così
bizzarra.
Oltre a quella di tutti gli europarlamentari radicali, le tre giornate
hanno visto la partecipazione di un folto gruppo di intellettuali
israeliani, docenti universitari, editori, giornalisti, scrittori e
registi, di un numero di europarlamentari di vario orientamento che
sostengono questa proposta, e di quattro membri della Knesseth: Joseph
Paritzky e Eliezer Sandberg del partito Shinui, Colette Avital del
partito laburista e Roman Bronfman del partito della Scelta democratica.
Non era presente, invece, nessun membro del Likud, il partito del
premier Ariel Sharon. I tre giorni di dibattito hanno portato alla luce
diverse posizioni sull'argomento, da quella prudente della Avital, che
ha posto l'accento sulla natura mediterranea e mediorientale
dell'identità israeliana, all'invidiabile euroentusiasmo del giovane
Sandberg, pronto a farsi "profeta in patria" dell'idea europea.
Discussioni condite da tutta la vivacità intellettuale del popolo
ebraico, inframmezzate da "storielle" tradizionali e da battute di
spirito. Un concetto, sottolineato con veemenza dall'intervento di Marco
Pannella, rimane il punto fermo da cui partire: è interesse di tutti i
paesi democratici, e in primo luogo di quelli europei, garantire e
preservare l'esistenza dello stato d'Israele. Un paese che, nonostante
cinquant'anni di guerra, riesce a mantenere il suo carattere e le sue
istituzioni democratiche (sia pure con qualche inevitabile sbavatura) e
che può fungere da modello e da testa di ponte dello stato di diritto in
tutto il mondo arabo. E forse proprio per questo, e non per un vago
antisemitismo che non ha radici nella cultura musulmana, è da esso così
temuto e osteggiato.
15 marzo 2002
bamennitti@ideazione.com
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