Quella Serbia con lo sguardo all’indietro
di Stefano Magni
A Le Hague, Olanda, il 12 febbraio scorso si è aperto il più grande
processo internazionale per crimini di guerra dall’epoca del processo di
Norimberga: il processo a Milosevic per crimini di guerra e crimini
contro l’umanità. I capi di accusa sono 66, ciascuno dei quali può
condurre l’ex dittatore serbo all’ergastolo. Lo scorso 23 febbraio, il
primo ministro serbo Djindjic ha rifiutato di estradare il generale
Radko Mladic, considerato, assieme al leader serbo-bosniaco Radovan
Karadzic, il ricercato numereo uno dal tribunale penale internazionale
per i suoi crimini in Bosnia. Dopo 11 giorni di processo a Milosevic, la
corte penale internazionale incontra il primo grande ostacolo opposto
dalla leadership serba e molto probabilmente non sarà l’ultimo.
Il processo a Milosevic, infatti, rappresenta in sé un conflitto molto
acuto di due differenti visioni della giustizia internazionale. Da una
parte l’accusa intende non lasciare impuniti crimini di guerra di
“ferocia medioevale e lucidamente preparati” per usare le parole della
stessa Del Ponte, anche se questi sono stati perpetrati all’interno del
territorio nazionale, “sovrano”, della Jugoslavia di Milosevic.
Difendendosi dall’accusa, Milosevic difende la sovranità nazionale di
quella che era la sua Jugoslavia serba e punta il dito contro quella che
egli chiama “aggressione” della Nato.
Gli argomenti impiegati da Milosevic per difendersi sono creati ad arte
per sollevare la popolazione serba in sua difesa, anche se la caduta del
suo regime è avvenuta in seguito a una sollevazione popolare. Ponendo
l’accento su argomenti populisti, quali l’aggressione della Nato, delle
potenze occidentali, ai danni della nazione serba, presa come un corpo
nazionale unito e dotato di un orgoglio suo proprio, Milosevic tende a
sviare le accuse dal suo caso personale di criminale di guerra e a
presentare la disgregazione della Jusgoslavia, le guerre che ne sono
seguite, gli interventi Nato in Bosnia e in Kossovo, nonché questo
stesso processo, come singole parti di un grande complotto orchestrato
dalle potenze occidentali, guidate dai loro interessi economici. In
queste argomentazioni si rintraccia la vecchia propaganda populista
sovietica incentrata sull’argomento dell’accerchiamento imperialista,
volta a compattare il popolo contro un nemico esterno (reale e
immaginario), a giustificare purghe interne (motivate a scongiurare
“disfattismo” e “spionaggio”) e a costituire un solido fondamento per lo
stesso potere politico.
Evidentemente, in Serbia, questa propaganda residua del socialismo
reale, fa ancora presa nel popolo. Le reazioni dell’opinione pubblica
serba al processo, infatti, non sono quasi mai di elogio alla giustizia
internazionale, ma di difesa nei confronti dell’ex dittatore. Anche al
di là dei nostalgici, apertamente schierati con Milosevic e dei profughi
serbi di Bosnia, in gran parte ancora armati e pericolosi per la
stabilità della nuova democrazia di Belgrado, la maggioranza dei serbi
risulta porsi di fronte a questo processo internazionale come all’esito
inevitabile di una loro sconfitta e non di una vittoria della libertà
sulla precedente dittatura nazional-comunista.
Dietro questo atteggiamento popolare, che denota tutta l’incompletezza
della rivoluzione di Belgrado, vi sono dei media che non hanno il
coraggio (o l’intenzione?) di divulgare un’immagine di Milosevic troppo
diversa rispetto a quella un tempo divulgata dalle televisioni di
regime, una classe intellettuale che non osa (o non vuole?) parlare dei
crimini commessi dai serbi in Croazia, Bosnia e Kossovo e una nuova
classe politica che, come minimo, non è favorevole al processo della
precedente élite, come denota l’esplicita dichiarazione del presidente
Kostunica che ha definito il processo di Le Hague “un’ipocrisia”. Non
stupisce, dunque, che più della metà della popolazione non conosca
neppure lo sterminio di almeno 7000 bosniaci a Srebrenica nel non
lontano 1995 e che l’unica televisione locale che ne abbia parlato, sia
stata tempestata di critiche. E che ora Djindjic si rifiuti di
consegnare Mladic alla giustizia per evitare “una guerra civile”.
Il problema della brutalità delle guerre balcaniche, evidentemente, non
si ferma al solo Milosevic, ma affonda le sue radici in mezzo secolo di
propaganda totalitaria comunista e in un secolo e mezzo di nazionalismo
serbo. Più che l’autodifesa di Milosevic, sono questi i veri ostacoli
che il tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia
incontrerà nei prossimi mesi e anni di processo.
1 marzo 2002
stefano.magni@fastwebnet.it
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