Medio Oriente: il
problema è Arafat
di Emanuele Ottolenghi
Le bugie, dicono, hanno le gambe corte. Salvo forse se vengono dette nel
contesto ingarbugliato del conflitto tra israeliani e palestinesi. Nulla
di più evidente nel caso della posizione assunta da Unione Europea,
Nazioni Unite e Norvegia in merito all’isolamento in cui si trova oggi
il leader dell’Autorità palestinese Yasser Arafat. La bugia è che Arafat
sia l’unico in grado di far la pace con gli israeliani. Eppure, parte
della comunità internazionale, gli europei in testa a tutti, si ostina a
non vedere ciò che è ormai ovvio. E cioè che Arafat è ormai uno degli
ostacoli fondamentali per la ripresa dei negoziati di pace tra Israele e
i palestinesi. La sua credibilità e provata propensione a commettere
errori fatali e dannosi alla legittima causa nazionale palestinese sono
ormai ineludibili. La sua legittimità politica all’interno dei territori
occupati è da tempo erosa, e la sua autorità e capacità di controllare
il potere di cui è almeno nominalmente detentore sono fragili e
traballanti.
Arafat ha commesso tre cruciali errori nel periodo 1993-2000 – tra la
firma di Oslo e l’inizio della nuova Intifadah. Errori che hanno
sostanzialmente limitato la sua capacità di prendere le decisioni
necessarie per porre fine al conflitto arabo-israeliano e
all’occupazione israeliana dei territori di Cisgiordania e Gaza.
Successivamente, tra l’inizio dell’Intifadah e il suo isolamento a
Ramallah, ha fatto altri tre passi falsi di natura strategica che hanno
eroso la sua credibilità come interlocutore e alleato per gli
israeliani, gli americani e il fronte arabo moderato, a partire
dall’Egitto.
Arafat ha compiuto un errore rifiutando di educare il suo pubblico
all’accettazione di un compromesso politico con Israele basato sul
genuino riconoscimento della legittimità politica del Sionismo,
sull’accettazione dell’impossibilità di riportare indietro la storia, e
sull’importanza della convivenza tra due popoli divisi in due stati
contigui non come soluzione temporanea ma come accordo permanente e
irrevocabile. Pur impegnandosi alla pace, al dialogo e alla coesistenza,
Arafat ha continuato, infatti, a favorire la demonizzazione di Israele e
degli ebrei su giornali, radio e televisione, e nei testi scolastici. Ha
lanciato messaggi equivoci a favore della pace e a favore della guerra
santa contro Israele, sostenendo tutto e il suo contrario, senza mai
chiarire quale fosse il vero Arafat.
Ha compiuto un errore rifiutando di confrontare l’opposizione islamica
di Hamas al processo di pace, al riconoscimento di Israele, e alla
rinuncia della lotta armata, principalmente diretta contro obiettivi
civili. Come ha fatto in 40 anni alla guida di al-Fatah e dell’OLP,
anche con Hamas Arafat ha preferito evitare lo scontro, tollerandone le
attività anche quando queste chiaramente andavano contro l’interesse
palestinese di avanzare i negoziati con Israele sulla base di fiducia
reciproca e cooperazione. Tale ambigua politica del bastone e della
carota ha permesso che avvenissero tra l’altro i tragici attentati
terroristi del marzo 1996, e ha sostanzialmente favorito l’accesso al
potere di Netanyahu e il congelamento di Oslo.
Infine Arafat ha compiuto un altro errore rifiutando di creare una
struttura politica democratica e una struttura amministrativa
trasparente, le cui risorse generosamente fornite da finanziamenti
internazionali dovevano esser spese nella costruzione e potenziamento di
una economia florida e capace di restituire la speranza di un futuro
migliore. Lo spreco di risorse, l’abuso di potere con gli arresti
sistematici di giornalisti, oppositori e attivisti per i diritti umani,
il ricorso alla tortura (con una trentina di detenuti morti durante
l’interrogatorio dal 1994 a oggi) e a metodi sommari di incriminazione,
incluse corti speciali ed esecuzioni pubbliche, sono tutti fattori che
hanno lentamente delegittimato l’Autorità Palestinese e il suo leader
Arafat.
Perché Arafat non poté cercare genuinamente un compromesso con l’allora
primo ministro israeliano Barak a Camp David nel luglio 2000? Perché
aveva ormai perso la legittimità e il sostegno del suo popolo per le
concessioni necessarie. Il suo rifiuto e la mancanza di una
controproposta palestinese hanno portato allo scoppio dell’Intifadah.
Dal settembre 2000 a oggi Arafat ha fatto tre ulteriori passi falsi che
lo hanno sostanzialmente reso persona non grata non solo per gli
israeliani, ma anche per gli americani e persino il suo tradizionale
alleato, il presidente egiziano Mubarak:
Arafat ha rinunciato, a partire dallo scoppio dell’Intifadah, al
monopolio della forza nelle aree sotto il suo controllo; la speranza che
le operazioni militari e terroristiche del Tanzim, di Fatah, di Hamas e
della Jihad Islamica servissero la causa nazionale palestinese ha fatto
sì che Arafat accettasse di perdere il controllo della situazione; la
conseguenza è che la sua posizione politica si è indebolita a tal punto
da non poter più riacquistare potere e autorità senza correre il rischio
di una guerra civile; Arafat ha rifiutato il piano Clinton del dicembre
2000, vanificando ogni speranza del pubblico israeliano e dell’opinione
pubblica internazionale in una soluzione del conflitto e aprendo la
strada all’elezione di Ariel Sharon, un nemico ben peggiore da
affrontare che il predecessore Barak;
Arafat ha perso ogni credibilità anche con i suoi più fedeli alleati,
gli egiziani, a causa dell’affare Karine A, la nave piena di armamenti
inviata dall’Iran per i Palestinesi. Il tentativo di portare gli
iraniani sul teatro del conflitto, la presenza di marinai egiziani e il
previsto passaggio da Suez hanno talmente imbarazzato e infuriato
Mubarak da spingerlo ad abbandonare Arafat.
Non v’è dubbio che gli Israeliani hanno contribuito alla situazione
economica precaria dei territori durante gli anni di Oslo. Non v’è
dubbio che la loro politica di insediamenti ha creato ulteriori ostacoli
al raggiungimento di un accordo coi palestinesi. Tuttavia la
responsabilità maggiore della presente situazione ricade su Arafat, che
ha continuato a gestire in maniera despotica e centralizzata le risorse
dell’Autorità, ha evitato di affrontare i nemici del processo di pace
cercando invece di sfruttarne le attività a suo favore, si è dimostrato
incapace di raggiungerere i compromessi necessari per porre fine
all’occupazione e per dare al suo popolo uno stato indipendente, e ha
continuamente mentito ad alleati e interlocutori sulle sue vere
intenzioni. Se l’ambiguità è stata la sua forza da guerrigliero e capo
dei palestinesi in esilio, da presidente dell’Autorità Palestinese la
sua ambiguità gli ha fatto perdere ogni residuo di credibilità come
interlocutore, alleato e persino avversario.
Se oggi Arafat è isolato a Ramallah la comunità internazionale non
dovrebbe correre, come già fece in passato, a salvarlo, ma prendere atto
che soltanto quando Arafat avrà lasciato la scena e una nuova leadership
palestinese più pragmatica e credibile ne avrà preso il posto, vi sarà
una nuova concreta opportunità di soddisfare la legittima aspirazione
dei palestinesi a uno stato e degli israeliani a vivere in pace e
sicurezza.
15 febbraio 2002
Emanuele.ottolenghi@sant.ox.ac.uk
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