Guerra al terrorismo. Bush e l'asse del male
di Stefano Magni

Vinta la guerra in Afghanistan, anche se solo parzialmente, la politica estera di Bush è arrivata a un punto in cui si deve decidere dove, quando e come incominciare la seconda fase della campagna contro il terrorismo. L’invio di 700 marines nelle Filippine indica chiaramente che il prossimo fronte è quello del Sud Est asiatico, ma la costante presenza di un formidabile schieramento navale nell’Oceano Indiano suggerisce che rimangono aperte altre opzioni di azione militare sul “vecchio” fronte dell’Asia centrale e del Golfo Persico: Irak, Somalia, Iran? Le indicazioni fornite direttamente al pubblico dall’amministrazione Bush sono, come sempre dall’11 settembre, poco chiare. In un discorso divenuto ormai famoso, Bush ha indicato l’esistenza di un’asse del male che include anche la Corea del Nord e l’Iran, stati che, fino al gennaio del 2002, non erano mai stati nominati. Anzi: l’Iran era stato chiaramente invitato a far parte della coalizione anti-terrorismo e la Corea del Nord sembrava dimenticata dalla politica militare americana da più di otto anni, da quando, nel 1994, scoppiò e si estinse l’ultima grave crisi coreana.

Una dichiarazione così esplicita ha subito provocato un mezzo terremoto diplomatico: la Corea del Sud ha immediatamente contestato la linea dura americana, più che altro per paura – Seul stessa è sempre a tiro dell’artiglieria nordcoreana; la Russia, in occasione dell’ultimo vertice della NATO, si è opposta già solo all’idea di interrompere le relazioni diplomatiche con l’Iran; l’Italia, per bocca del ministro della Difesa Martino, si augura che quella di Bush sia solo una minaccia verbale, basata sull’effetto deterrente della precedente campagna in Afghanistan. Dopo poco, Bush ha quasi smentito quanto detto precedentemente, si è dichiarato disposto al dialogo con i membri dell’asse e ha negato l’intenzione di usare la forza militare contro di essi. Un osservatore esterno può essere indotto a pensare che la politica estera americana sia diventata schizofrenica, con falchi e colombe in lotta per la conquista delle dichiarazioni ufficiali del presidente. Può anche darsi che sia così, che Rumsfeld e la Rice abbiano per un certo periodo conquistato la fiducia del presidente, per poi perderla a vantaggio della linea morbida di Colin Powell.

Indipendentemente da interpretazioni e ipotesi che troveranno o meno conferma ben dopo la fine di questa amministrazione repubblicana, il problema dell’asse del male esiste eccome ed è difficilissimo da affrontare. E’ vero che esistono stati che sponsorizzano il terrorismo, che addestrano direttamente i terroristi, che li armano, che li considerano come rispettabili forze armate e che impediscono alla loro popolazione di contestarli. E’ una nuova forma di guerra internazionale, con la quale uno stato “paria” può colpire, senza essere visto, anche un colosso militare. E’ evidente che la soluzione possa essere quella di stroncare il male alla radice, cioè colpendo direttamente i regimi che sono alle spalle dei terroristi. Ma ci sono due problemi molto gravi che si frappongono a questa soluzione drastica. In primo luogo il numero e la dispersione geografica degli stati “canaglia”: anche Cuba e la Libia sponsorizzano il terrorismo, indirettamente anche l’Egitto, l’Arabia Saudita, il Pakistan e non identificati emirati del Golfo. Oltre, naturalmente, al Sudan, all’Irak, alla Siria, al Libano, all’Autorità Nazionale Palestinese, all’Iran e alla Corea del Nord, che svolgono questo ruolo quasi esplicitamente.

Gli Stati Uniti possono combattere due guerre di teatro simultaneamente, ma non di più. Non possono, militarmente, permettersi di dichiarare guerra a tutti gli stati che supportano il terrorismo internazionale e perciò devono scendere a compromessi, considerando “buoni” quegli stati che si pensa siano estranei al terrorismo di al Qaeda: Corea del Nord, Cuba, Libano, Libia, Iran, Siria, sono stati assolti e addirittura invitati a partecipare alla coalizione per questo motivo. Ma senza la garanzia che siano veramente estranei a quella rete terroristica. Altri, che sono direttamente coinvolti con al Qaeda, sono stati indotti ugualmente a collaborare, come il Pakistan, l’Arabia Saudita e l’Egitto, ma senza essere sicuri della loro fedeltà. Il secondo ordine di problemi sono i deterrenti. Siria e Iran sono tuttora clienti della Russia. Dietro il Pakistan ci sono gli armamenti e l’assistenza della Cina. L’Arabia Saudita controlla i “rubinetti” del petrolio. La Corea del Nord dispone di un rispettabile deterrente nucleare, chimico e batteriologico in grado di mettere a soqquadro l’Asia Orientale. E’ difficile, insomma, che, dopo aver sfogato una piccola parte della loro potenza militare sulle montagne dell’isolato Afghanistan, gli americani possano passare a più risolute azioni contro il terrorismo internazionale.

15 febbraio 2002



 

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