Cosa fare della Nato
di Sergio Romano


Quando celebrò il suo cinquantesimo anniversario nell’aprile del 1999, la Nato aveva due buoni motivi per andare fiera di se stessa. Stava combattendo e vincendo la sua prima guerra. E aveva “annesso” da poco tempo tre paesi – Repubblica ceca, Polonia, Ungheria – che erano ancora, dieci anni prima, satelliti dell’Unione Sovietica. In quella circostanza parve che l’organizzazione avesse superato la fase difficile dei primi anni Novanta e trovato una nuova ragione d’essere. Oggi il suo futuro è divenuto improvvisamente incerto. E’ vero che gli americani, dopo l’11 settembre, hanno chiesto e ottenuto l’applicazione dell’articolo 5 (un attacco contro uno è un attacco contro tutti). Ed è vero che il segretario di Stato americano Colin Powell, all’inizio dello scorso dicembre, ha fatto ai suoi colleghi, sul ruolo dell’Alleanza, un discorso ottimistico e rassicurante.
Ma nella guerra afghana l’organizzazione è stata quasi del tutto assente. La Gran Bretagna ha combattuto in nome del suo rapporto speciale con gli Stati Uniti. La Francia, la Germania e l’Italia hanno offerto truppe che Washington ha cortesemente rifiutato e hanno accettato compiti di polizia marittima (le navi italiane nel Golfo di Oman) o aerea (i Tornado nel cielo degli Stati Uniti). In poco più di due anni la Nato è passata dai trionfi del cinquantennale al più modesto status di quel corpo militare che si chiamava molti anni fa “la Territoriale”. Per spiegare ciò che è accaduto conviene forse tornare indietro di qualche anno e rifare rapidamente la storia dell’organizzazione dopo la fine della Guerra Fredda.

Fra il 1989 e il 1991 l’Alleanza, secondo la famosa definizione di Grigorij Arbatov, “perse il nemico”. Cominciò così una fase in cui lo stato maggiore integrato di Mons dovette andare affannosamente alla ricerca di nuove minacce contro cui studiare difese e apprestare piani di attacco. Ma lo scioglimento non fu mai, nemmeno in quel periodo, una realistica ipotesi di lavoro. Nessuno era in grado di prevedere quale sarebbe stata la politica estera della Russia. Perché disperdere, in una situazione ancora incerta, il capitale di lavoro comune che era stato accumulato negli anni precedenti?

L’America d’altro canto era interessata a tenere in vita un sistema che le consentiva di essere potenza europea e di evitare che l’integrazione politico-militare dell’Unione intaccasse la sua leadership. Le burocrazie militari di alcuni alleati europei, fra cui l’Italia apprezzavano realisticamente un’organizzazione che compensava, almeno in parte, l’insensibilità dei loro governi per le questioni militari e il bilancio della difesa. E i loro governi ritenevano che la Nato avesse il compito di preservare, al di là della Guerra Fredda, la solidarietà politica dell’Occidente. Ma fra il 1991 e il 1995 l’Alleanza fu un “personaggio in cerca d’autore”, nervosamente in attesa di un’occasione che le consentisse di manifestare la sua esistenza e dimostrare la sua utilità. L’occasione venne in Bosnia, dopo i massacri di Srebrenica, nella tarda estate del 1995. Sollecitato dal presidente francese Chirac, Clinton accettò di impegnare i bombardieri americani nell’ambito di una “operazione Atlantica” e la Nato divenne così il demiurgo della pacificazione bosniaca.

Ma l’operazione fu, di fatto, americana, ed ebbe l’effetto di mettere in evidenza l’impreparazione militare dell’Europa. Comincia da quel momento una fase apparentemente contraddittoria. Grazie all’operazione bosniaca la Nato è diventata una organizzazione per la sicurezza collettiva, una specie di Onu regionale, e dovrebbe quindi estendersi sino a includere tutti i paesi europei interessati alla sicurezza della regione, sino alla Russia. Ma l’America non desidera che essa perda le sue caratteristiche originarie e vuole che resti, sotto la sua direzione, il club dei vincitori della Guerra Fredda. Non v’è spazio nella Nato, quindi, per la grande potenza sconfitta della Guerra Fredda. Non è tutto. Sollecitato dagli ambienti più antirussi della vita politica americana (Zbigniew Brzezinski, Henry Kissinger) e da alcune lobby nazionali, Clinton decide di cooptare nuovi soci fra i satelliti della vecchia Unione Sovietica. L’ingresso di Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria diventa così la “conquista” di tre paesi liberati e la Nato assume, agli occhi di Mosca, un carattere obiettivamente ostile. Ma Boris Eltsin è troppo debole e troppo distratto dai problemi interni (fra cui la guerra cecena) per opporsi.

Il Kosovo, poco tempo dopo, offre all’Alleanza una nuova occasione per mettere alla prova i suoi mezzi e le sue capacità organizzative. Ma ancora una volta l’operazione, sul piano diplomatico e militare, è pressoché interamente americana. La Russia vede nella guerra un’altra manifestazione dell’“imperialismo” degli Stati Uniti in Europa, ma non può impedirla e si limita a correggerne gli effetti assicurandosi una presenza militare in Kosovo dopo la fine dei bombardamenti. Gli europei, dal canto loro, constatano ancora una volta la propria debolezza e reagiscono, nei mesi seguenti, con un maggiore impegno per la creazione di una forza di pronto intervento, composta da 60.000 uomini, che dovrebbe entrare in funzione nel 2003. Ma si affrettano, contemporaneamente, ad assicurare Washington che non intendono mettere in discussione l’utilità della vecchia alleanza.

La vicenda presenta tuttavia un aspetto inatteso e bizzarro: non tutti a Washington sono soddisfatti del modo in cui sono andate le cose. Mentre la Russia e gli europei lamentano la strapotenza degli Stati Uniti, i militari americani, a loro volta, lamentano le interferenze del consiglio Atlantico, quasi permanentemente convocato a Bruxelles, nella condotta delle operazioni e nella scelta dei bersagli. Se le elezioni fossero state vinte da Al Gore, queste frustrazioni dell’establishment militare americano non avrebbero trovato udienza, probabilmente, alla Casa Bianca e al Pentagono. Ma nella nuova amministrazione vi sono uomini – Rumsfeld, Wolfovitz, Pearle – che non credono alla gestione collegiale delle crisi e non tollerano che l’azione dell’America sia limitata dalle “interferenze” dei suoi alleati. La presidenza Bush quindi è complessivamente molto più “unilateralista” di quanto non fosse quella di Clinton. Dalla Nato ha preso ciò le era utile in quel particolare momento (l’articolo 5), ma ha rifiutato collaborazioni che l’avrebbero costretta a tener conto del punto di vista dei suoi alleati. Questo non significa che l’America di Bush non abbia bisogno di sostegno e di amicizie. Ma preferisce costruire le sue alleanze in funzione dell’obiettivo che intende raggiungere e pagare sull’unghia, se occorre, il prezzo necessario.

Nel caso della Russia, ad esempio, il prezzo potrebbe concernere per l’appunto il futuro della Nato. In un articolo pubblicato dal Wall Street Journal del 29 novembre, pochi giorni dopo l’incontro fra Bush e Putin nel Texas, Brzezinski si chiede con preoccupazione se il primo non abbia offerto al secondo, per compiacerlo, la creazione, accanto al consiglio Atlantico, di un consiglio allargato in cui la Russia potrebbe essere ascoltata e consultata. Nel suo discorso di Bruxelles, il 6 dicembre, Powell ha dichiarato che Mosca non avrà un diritto di veto sulle questioni che concernono la Nato come alleanza. Ma da queste dichiarazioni sembra potersi desumere che potrebbe esercitare tale diritto sulle questioni che la concernono quale organizzazione per la sicurezza collettiva, vale a dire su quelle missioni di peace enforcing a cui l’America repubblicana di Bush è meno incline.

La vecchia Nato – un’alleanza militare in cui gli alleati europei accettavano la leadership americana, ma costringevano l’America ad accettare, a sua volta, sia pure formalmente, il principio delle decisioni consensuali – non sembra interessare più gli Stati Uniti. Non per questo tuttavia intendono farne a meno. Anche un’amministrazione unilateralista come quella di Bush può trarre dall’organizzazione qualche vantaggio. La Nato è il titolo giuridico che permette all’America di conservare in Europa alcune basi e di stanziarvi circa centomila uomini. La Nato è l’argomento (“occorre evitare le duplicazioni”) con cui l’America può frenare e limitare le ambizioni unitarie dell’Europa in materia di politica estera e di sicurezza. E la Nato infine è lo strumento di cui gli Stati Uniti si sono serviti per “fidelizzare”, come direbbero gli esperti di marketing, le burocrazie militari degli alleati.

Resta da accertare quali vantaggi presenti per l’Europa una organizzazione che non ha più un nemico e può vedersi costretta in molte circostanze ad autenticare con un timbro democratico, agli occhi del mondo, le operazioni militari Usa. Ma per compiere il gran passo, mandare in pensione la Nato e sostituirla con una nuova alleanza in cui Europa e America siano davvero “partner”, occorre che l’Unione abbia la volontà e i mezzi per provvedere alla propria sicurezza. Oggi, purtroppo, non ha né l’una né gli altri.

25 gennaio 2002

(da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)

 



 

stampa l'articolo