Dal Sacro Romano Impero alle teorie neo-imperialiste
di Luca Pesenti


Era il 6 agosto 1806 quando Francesco II rinunciò alla corona imperiale, sancendo così la fine del Sacro Romano Impero Germanico sotto i colpi di Napoleone. Il tramonto dell’età degli imperi cominciò simbolicamente proprio quel giorno. Da lì in poi, nulla sarebbe stato più come prima, nel trionfo dei moderni stati nazionali che giungerà a compimento con il primo conflitto mondiale. Ma a ogni tramonto corrisponde sempre un nuovo giorno e così oggi, duecento anni dopo, sempre più si torna a parlare di una rinascita (più o meno trionfale) di quell’antico modello, la cui assenza rappresenta una vera anomalia storica. Ne discutono i filosofi, ma anche (e soprattutto) politologi, esperti di relazioni internazionali, sociologi, economisti. Tutti a confronto con il problema dei problemi: costruire una forma di unità politica in grado di pacificare il sempre più litigioso pianeta. Che si tratti dello “Stato mondiale”, auspicato del 1960 da Ernst Junger, di una forma riveduta e corretta degli antichi Imperi, oppure ancora di un’entità nuovissima e tutta da inventare, sono in molti a ragionarci sopra: a destra come a sinistra, di qua e di là dall’Oceano, con intenti a volte restaurativi, a volte antagonisti. Oppure con sguardo realistico e pragmatico, come accade nei più influenti think tank americani, nei quali da qualche anno si è acceso il dibattito sulla necessità di legittimare la supremazia USA nel mondo.

Da una decina d’anni il problema fondamentale per la politica estera americana è naturalmente cosa fare dell’eccesso di potenza raggiunto dopo il crollo dell’Unione Sovietica e dei vantaggi che esso conferisce agli USA. Da una parte i neo-isolazionisti, dall’altra i sostenitori della supremazia, dell’egemonia, insomma del primato imperiale degli Stati Uniti nel mondo. Il confronto, riassunto da John Rourke, dell’Università del Connecticut, nel suo “Taking Sides: clashing Views on Controversial Issues in American Foreign Policy” e schematicamente presentato in Italia da Rita di Leo in “Il primato americano” (Il Mulino), si sta celebrando da alcuni anni sulle grandi riviste di politologia e relazioni internazionali, dal “Foreign Affairs” alla “Political Science Quarterly”. Mentre nelle principali Università, fioriscono corsi a sfondo politologico che invitano gli studenti a riflettere sul ruolo imperiale americano, approfondendo Bismarck e studiando a fondo l’impero inglese.

Robert Kagan, direttore del Carnagie Endowment for International Peace (www.ceip.org), pubblicò nell’estate del 1998 un influente articolo sul “Foreign Policy”, sostenendo la necessità di un “benevolent empire”, dominante nel sistema internazionale per preservare un livello ragionevole di pace e prosperità. Espressione delicata e politicamente corretta, che nasconde però l’ipotesi di un ruolo egemonico, anche militare, degli Stati Uniti nel mondo. Insomma, una nuova “pax americana”, rilanciata dal repubblicano Thomas Donnelly. Direttore dell’influente think tank “Project for the New American Century”, che ha lanciato senza infingimenti l’ipotesi di un impero democratico e liberale, sul modello di quello romano ma, ovviamente, attualizzato.

Sorprendentemente (ma nemmeno poi tanto), nella lista dei teorici neo-imperiali rientra anche un inglese. Robert Cooper, consigliere di Tony Blair, nell’ottobre del 2000 pubblicò un articolo sulla rivista “Prospect” (tradotto ora da “Ideazione” nel numero in distribuzione in questi giorni), in cui non solo sposava la causa di un impero americano democratico e difensivo, ma proponeva anche all’Unione Europea di abbandonare le ipotesi di creazione di un super-stato, per diventare invece “un impero di tipo cooperativo” sul modello dell’Impero romano, per fornire ai cittadini non solo la pace ma anche “la possibilità di godere di una libertà comune”. Tutte ipotesi che dopo l’11 settembre hanno acquistato forza e consensi, mettendo in crisi la lunga lista di isolazionisti che proprio non volevano sentir parlare di egemonia americana e meno che mai di Impero, preoccupati per le conseguenze inevitabili che un simile ruolo comporterebbe. Tra questi, gli intellettuali democratici contestatori del ruolo egemonico americano, come Samuel Berger, consigliere del presidente Clinton, che nel 1999 definiva gli Stati Uniti “la prima potenza globale della storia che non sia una potenza imperiale”. Intanto Joseph Nye, testa pensante ad Harvard e influente consigliere della Casa Bianca clintoniana, sta per pubblicare un libro (“Soft power: the illusion of American Empire”) in cui si sostiene la necessità per gli States di attrezzarsi a ricoprire il ruolo di nuova Roma, ma senza utilizzare cannoniere e aerei: semplicemente lavorando per il bene comune, privilegiando il potere economico e culturale su quello militare.

Ma anche a destra non mancano i dubbi: passi l’egemonia, ma l’impero è un’altra cosa. Tra gli esempi illustri, il repubblicano Pat Buchanan, Andrew Bacevich, professore di relazioni internazionali a Boston, e soprattutto Charles William Maynes, presidente della Eurasia Foundation, che in un articolo pubblicato sempre sul “Foreign Policy” - “The Perils of (and for) an Imperial America” - ha addirittura messo in dubbio la necessità storica di un ruolo egemonico degli Stati Uniti, opponendosi frontalmente alle tesi di Kagan.

Al di là del citato caso Cooper, il dibattito ha tutto un altro sapore una volta trasportato nel Vecchio Continente. Il tema dell’Impero sembra più un gioco di filosofia politica (con quarti di nobiltà di antico lignaggio) che non una riflessione strategica. Nella convinzione che in fondo l’Europa debba consigliare il nuovo imperatore sul modello migliore per costruire, come proposto da Alain De Benoist ne “L’impero interiore” (Ponte alle Grazie), un nuovo ordine rispettoso delle differenze e delle culture. Naturalmente c’è anche chi è convinto della necessità storica di costruire l’ennesimo conflitto antagonista per sconfiggere il nuovo tiranno. E’ il caso, ovviamente, del redivivo Tony Negri, che nel suo “Empire” (scritto a quattro mani con Michael Hardt e di prossima traduzione per Rizzoli) dipinge il potere delle tre Rome (New York, Washington e Los Angeles) proprio come fosse un nuovo Impero romano, e propone al movimento anti global niente meno che il compito storico anticamente ricoperto dal Cristianesimo: abbattere l’Impero per globalizzare il bene e la giustizia. Tanto è bastato per spingere “Micromega” ad allestire un forum, coinvolgendo anche i filosofi Roberto Esposito e Salvatore Veca nella riflessione sull’egemonia americana. E sempre sulla rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais, Massimo Cacciari ha negato che l’Impero americano possa paragonarsi a quello romano, perché incapace - a detta del filosofo veneziano - di garantire concordia e soprattutto pluralità di culture e tradizioni. Proponendo in alternativa un inedito “federalismo universale”.

Ma a ben vedere il primo a parlare di impero in Europa fu Jean-Marie Guehenno, oggi tra i grandi burocrati europei, che nel 1993 scrisse “La fine della democrazia” (Garzanti), proponendo due modelli esemplari cui rifarsi per comprendere le forme dell’impero postmoderno: l’impero romano di Adriano e Marco Aurelio, oppure quello cinese. Un “grande spazio”, per riprendere l’espressione giuridica utilizzata da Carl Schmitt, dalle frontiere fluide, fatto di regole fisse piuttosto che di principi etici superiori, senza una capitale e senza imperatore. Insomma, un gigantesco dominio di regole, incapace però di sancire un ordine definito: “L’età imperiale – scriveva Guehenno - è un’età di violenza diffusa e continua. I barbari sono nell’impero e l’impero secerne i propri barbari”. Ogni riferimento alla cronaca dell’ultimo decennio è puramente casuale.

25 gennaio 2002

(da "Il Giornale")

 

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