L’impero prossimo venturo
di Robert Cooper
1.
Da uno a molti, il
tramonto degli imperi
2.
Integrazione economica e
disgregazione politica
3.
Globalizzazione e nuovo
impero possibile
4.
L’ipotesi epocale di una
grande Confederazione
5.
Un ruolo imperiale per
l’Unione Europea?
Robert Cooper, consigliere diplomatico di Tony Blair, ha realizzato per la
rivista inglese Prospect un lungo saggio di analisi sugli scenari
internazionali, sostenendo una tesi provocatoria: il ritorno dell’impero
come modello di ordine politico. La sua proposta ha suscitato un ampio
dibattito nel mondo politico e culturale europeo. La rivista Ideazione
pubblica in esclusiva la traduzione italiana del saggio di Cooper.
Emporion la riprende per offrire ai lettori un approfondimento autorevole
sul tema trattato in questo numero.
Da uno a molti, il tramonto degli
imperi
“Imperialismo”, “impero”, “imperiale” sono parole che nel peggiore
dei casi hanno acquistato un significato ingiurioso e nel migliore una
valenza quasi arcaica, diventando curiosità storiche. Sembra proprio che
ormai gli imperi appartengano al passato: sono scomparsi, lasciando dietro
sé soltanto poche rovine, qualche moneta, alcune leggi e, occasionalmente,
una strada. Gli imperi hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia
dell’uomo. Dai sumeri ai babilonesi, dagli egiziani agli assiri, da
persiani e greci a romani e bizantini, dalle dinastie cinesi a quelle
carolinge, dal Sacro Romano Impero agli imperi dei Mongoli e degli
Asburgo, dalla dominazione degli spagnoli a quella dei portoghesi, degli
inglesi, dei francesi, degli olandesi e dei tedeschi fino ai sovietici,
senza contare tutti quelli che non abbiamo menzionato, la storia del mondo
sembra essere una lunga successione di imperi. O forse sarebbe più
corretto dire “sembra essere stata”, in quanto uno dei cambiamenti più
sorprendenti avvenuti in un secolo eccezionale come quello che si è appena
concluso è stata la loro scomparsa quasi totale. All’inizio del XX secolo,
il mondo pullulava di grandi imperi, tutti svaniti nel giro di cento anni.
Persa la prima guerra mondiale, l’impero austro-ungarico, quello tedesco,
quello russo e quello ottomano si sono disintegrati. Kemal Atatürk vide
nella fine dell’impero ottomano l’occasione di creare uno Stato turco
nazionale e moderno (ed europeo), proprio come, in precedenza, la nascita
di Stati nazione in Italia e in Norvegia, ed in parte anche in Germania,
era stata salutata come la fase iniziale di un processo di
modernizzazione. La traduzione del Corano in turco, voluta da Atatürk,
richiama alla mente la Bibbia di Lutero, che, secoli prima, aveva
contribuito a restituire ai tedeschi una coscienza nazionale.
La prima guerra mondiale non soltanto distrusse due imperi europei, ma
stabilì anche, con i quattordici punti di Wilson, il principio di
autodeterminazione dei popoli, che provocò nell’Europa centrale, là dove
agonizzavano i quattro imperi (tedesco, russo, austroungarico ed
ottomano), la nascita di tutta una serie di Stati nazione dimostratisi
poi, nella maggior parte dei casi, deboli e mal governati. Dopo la guerra
venne anche istituito lo Stato libero d’Irlanda, che pose fine a secoli di
dominazione britannica nell’isola. Infine, negli anni Trenta, gli Stati
Uniti applicarono a se stessi il principio di autodeterminazione,
concedendo l’indipendenza alle Filippine.
La seconda grande fase della decolonizzazione ebbe inizio con la seconda
guerra mondiale, quando il Giappone sconfisse successivamente Inghilterra,
Francia e Olanda, demolendo definitivamente il mito della superiorità
occidentale su cui si fondavano gli imperi europei in Asia e che era già
stato pericolosamente minato dal gandhismo. Gli inglesi, il cui impero era
dovuto in parte al caso, decisero semplicemente di andarsene, mentre i
francesi, che avevano creato il loro con le armi, lottarono per cercare di
salvarlo: alla fine, il risultato fu il medesimo. Quando poi le spese per
il mantenimento degli imperi divennero troppo onerose per le nazioni
dominatrici ed il principio di autodeterminazione si fece strada anche
all’estero, la decolonizzazione ebbe inizio anche in Africa. In
Portogallo, la rivoluzione del 1974, nata dal malcontento popolare dovuto
al peso economico delle guerre coloniali, causò la disgregazione
dell’impero. Infine, nel 1989, la fine della Guerra Fredda non soltanto
pose termine alla dominazione sovietica nell’Europa dell’est, ma provocò
anche il successivo collasso dell’Unione Sovietica, impero interno della
Russia. La decolonizzazione fu un ultimo atto imperialista. Cardine
dell’imperialismo è l’imposizione di leggi e sistemi amministrativi propri
di un altro paese: le ex colonie si ritrovarono con strutture tipiche di
uno Stato nazione, in molti casi del tutto estranee alle tradizioni
amministrative locali. Alcune popolazioni hanno conosciuto secoli di
dominazione straniera: per loro, la decolonizzazione potrebbe essere stata
un atto ancora più imperialista della dominazione stessa, un’ultima
imposizione da parte degli ultimi dominatori.
Gli imperi sono davvero scomparsi per sempre? Difficile dirlo. A volte è
possibile identificare un impero come tale soltanto dopo che si è
disintegrato. Ora che c’è stata la separazione, riconosciamo che la
presenza inglese in Irlanda altro non era che una dominazione, ma se la
campagna di Gladstone per un governo autonomo non avesse avuto successo,
oggi l’Irlanda avrebbe fatto parte di una diversa Inghilterra, invece di
essere un’ex colonia. Il modo in cui Cina, India ed Indonesia verranno
considerate dalle prossime generazioni dipende da come verranno governate
e da cosa riserva loro il futuro.
Il mondo degli imperi, che risale alla notte dei tempi e che ancora
prosperava all’inizio del XX secolo, è diventato, cento anni dopo, un
mondo di Stati nazione. Paragonato all’impero, lo Stato nazione è un
concetto relativamente nuovo: i piccoli Stati cominciarono ad emergere nel
Rinascimento e le nazioni assunsero un ruolo politico rilevante soltanto
nel XIX secolo. Da allora, lo Stato nazione ha rappresentato un fenomeno
limitato, circoscritto ad un’area particolare del globo che, non a caso, è
stata anche la più dinamica. Tuttavia, la totale assenza di imperi
costituisce una situazione senza precedenti. La domanda che ora ci poniamo
è se si tratti o meno di una situazione duratura.
[torna al sommario]
Integrazione economica e
disgregazione politica
Esistono motivazioni teoriche e pratiche che ci fanno propendere
per una risposta negativa. Lo Stato nazione si è dimostrato un potente
strumento di crescita e modernizzazione, ma non per questo va ritenuto il
fondamento sul quale basare l’organizzazione del mondo intero. Delle due
motivazioni, quella teorica poggia sul fatto che non esiste una
definizione chiara e precisa del concetto di nazione. Se le nazioni
fossero qualcosa di fisso, come, ad esempio, la configurazione geografica,
si potrebbe tracciare una mappa del mondo che divida in modo certo i vari
popoli in Stati nazioni, proprio come, in passato, le monarchie ereditarie
europee speravano di sfruttare i confini naturali come confini
territoriali per i propri Stati. Sfortunatamente, fondare una nazione non
è così semplice. “Ora che abbiamo creato l’Italia”, si disse dopo la
cacciata degli austriaci “dobbiamo creare gli italiani” e, in effetti,
all’epoca soltanto il due per cento della popolazione parlava quello che è
l’italiano attuale. La lingua Yoruba (e in un certo senso anche il popolo
Yoruba) nacque ad opera dei missionari, che tradussero la Bibbia
standardizzando i dialetti locali, proprio come Lutero aveva fatto in
Germania. La stessa Nigeria è stata creata a tavolino dalle potenze
europee nel corso del Congresso di Berlino. Se avesse avuto un governo
migliore, oggi la Jugoslavia forse sarebbe ancora una nazione unica ed il
serbo-croato una lingua sola invece di due (o tre, dato che i bosniaci ne
stanno elaborando una loro versione). Gli irlandesi sono una o due
nazioni? Potremmo chiederci la stessa cosa dei gallesi. E bretoni, baschi
e catalani sono anche loro nazioni? E il popolo arabo? Quante nazioni ci
sono in Sud Africa? Anche i giapponesi, nonostante la forte identità
nazionale che li contraddistingue, hanno evitato la secessione soltanto
grazie alla restaurazione Meiji. Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma
la conclusione è chiara: la nazione è spesso una creazione dello Stato (ed
in particolar modo del ministero della Pubblica istruzione).
Se la nazione viene creata, anche solo parzialmente, dallo Stato, allora
non possiamo dire che gli Stati devono essere definiti dalle nazioni. Le
conseguenze di questa affermazione si stanno palesando man mano che sempre
più gruppi decidono di staccarsi e formare nuovi Stati. Chi può
impedirglielo? Inoltre, esiste un altro problema pratico: i gruppi etnici
o linguistici non sempre vivono in aree geografiche ben delimitate.
Succede quasi sempre che all’interno degli Stati nazione si trovino anche
delle minoranze. Uno Stato basato sui concetti di nazionalità e di
identità nazionale tende naturalmente ad escludere le minoranze e quindi,
spingendo il ragionamento all’estremo, a cercare di eliminarle. Perché
mai, allora, le minoranze non dovrebbero godere del diritto
all’autodeterminazione, dato che è la stessa definizione di Stato nazione
ad indicare chiaramente che non ne fanno realmente parte?
Oggi l’impiego di misure repressive nei confronti di gruppi che decidono
di avvalersi del principio di autodeterminazione non viene visto di buon
occhio e si tende a sostenere chi cerca di ottenere l’indipendenza.
Moltissime persone, per natura, non amano i governi; è quindi facile
convincerle che starebbero molto meglio sotto un diverso governo in uno
stato differente, più vicino alla loro identità etnica. Per i politici che
appoggiano questa causa, si profilano guadagni e soddisfazioni: la
possibilità di essere ricordati come padri della nazione (anche se
piccola), l’opportunità di governare a modo loro, probabilmente
l’allettante prospettiva, che si delinea ogni qual volta si dirige un
proprio Stato, di cedere alla corruzione, l’occasione di avere un ruolo
nella scena politica internazionale e la garanzia, almeno teorica, di
contare quanto gli Stati Uniti all’interno dell’Onu. Cosa può dunque
impedire la nascita di un numero sempre maggiore di Stati sempre più
piccoli?
Paradossalmente, la crescente integrazione economica favorisce la
disgregazione politica. Al tempo delle economie nazionali e delle tariffe
protettive, le dimensioni di uno Stato erano importanti. Ma in un mondo
senza confini, che differenza può fare se un paese è grande o piccolo?
Certo, essere piccoli significa andare incontro a costi maggiori:
l’amministrazione è più dispendiosa, sebbene questo non sia sempre
evidente, e la sicurezza più incerta, il che potrebbe non essere
sufficiente a persuadere né chi vive in zone del mondo non devastate dalla
guerra né chi, in quanto minoranza, non si sente al sicuro neppure
all’interno del proprio paese. Negli ultimi cinquant’anni, il numero di
Stati esistenti e riconosciuti è aumentato enormemente: nel 1945 furono 51
le nazioni che firmarono la Carta dell’Onu; oggi le Nazioni Unite contano
189 membri. Non ci sarebbe da meravigliarsi se nei prossimi cinquant’anni
ne nascessero di nuovi.
In un mondo di stati nazione, sorge anche un altro problema pratico:
numerose ex colonie sono caratterizzate da deboli identità nazionali, da
economie fragili e da istituzioni politiche tutt’altro che solide. Alcuni
di questi Stati, soprattutto in Africa, sono vicini al collasso. Altri, in
Asia centrale e sud-orientale e nel Pacifico meridionale, non sembrano
promettere bene. In parecchi casi, bisogna ammettere che autogoverno e
autodeterminazione hanno fallito. Cosa fare allora? In passato, la
soluzione sarebbe stata colonizzare, ma oggi mancano potenze coloniali
disposte a prendersi incarichi del genere. Per certi versi, la necessità
di un’autorità esterna è maggiore oggi di quanto non fosse, ad esempio,
nel XIX secolo. A quell’epoca, le popolazioni africane ed asiatiche erano
organizzate, in maniera abbastanza stabile, in società tradizionali basate
sui concetti di famiglia e di tribù. Questi vincoli vennero in un primo
tempo irrimediabilmente danneggiati da missionari e commercianti
occidentali ed in seguito definitivamente distrutti dall’istruzione, dalle
ideologie e dalla televisione. Ormai è impossibile tornare indietro. Non è
facile neanche andare avanti: gli Stati vicini al collasso traboccano di
armi, non sono in grado di far rispettare la legge ed i loro governi
cominciano ad assomigliare ad organizzazioni criminali. Alcuni autori
parlano di un “nuovo Medioevo”. L’incapacità di mantenere l’ordine annulla
qualsiasi possibilità di attrarre investimenti stranieri.
Quelli che riescono ad entrare nell’economia globale fanno progressi: la
prosperità aiuta la stabilità e la stabilità attrae gli investitori.
Quelli che non ci riescono cadono in un circolo vizioso: il fallimento
economico mina il governo ed un governo debole significa incapacità di
mantenere l’ordine, il che vuol dire diminuzione degli investimenti
stranieri. Negli anni Cinquanta, il prodotto nazionale lordo pro capite
della Corea del Sud era inferiore a quello dello Zambia: di questi due
Stati, uno è riuscito ad entrare nell’economia globale e l’altro no. Non
c’è dunque da meravigliarsi se oggi i paesi più ricchi guadagnano l’86 per
cento degli introiti mondiali e ai paesi più poveri spetta soltanto l’1
per cento. Nel 1820, all’inizio dell’espansionismo coloniale ottocentesco,
il reddito degli Stati più ricchi era soltanto il triplo di quello degli
Stati più poveri. Ed è verosimile che il divario attuale continui ad
aumentare.
[torna al sommario]
Globalizzazione e nuovo impero
possibile
I paesi deboli nati dalla decolonizzazione non solo rendono la vita
impossibile ai propri cittadini, ma la complicano anche a tutti gli altri.
Non c’è bisogno di dilungarsi sulle mutilazioni praticate in Sierra Leone,
sull’oppressione delle donne – e non solo – in Afghanistan, sui genocidi
nei Balcani o sull’ingiustizia e sull’instabilità che regnano in molti
altri paesi. Per chi vive in condizioni simili, l’esistenza diventa
un’esperienza terrificante. Ma esistono rischi anche per chi non è
direttamente coinvolto: per gli investitori e, soprattutto, per gli Stati
confinanti, poiché la teoria dell’effetto domino, che si è rivelata errata
per il comunismo, potrebbe dimostrarsi valida per il caos. La Sierra Leone
destabilizza la Liberia (e viceversa), mentre l’Afghanistan contribuisce a
turbare l’equilibrio dell’Asia centrale.
Sembrano esistere quindi tutte le condizioni necessarie alla nascita di un
nuovo imperialismo. Ci sono paesi che hanno bisogno di un’autorità esterna
per ottenere una stabilità interna. Ad esempio, di recente in Sierra
Leone, in occasione di una manifestazione, i dimostranti hanno chiesto il
ritorno degli inglesi. La stabilità interna costituisce una condizione
indispensabile per poter commerciare con le ex potenze coloniali. E
sebbene attualmente vi siano meno missionari rispetto al passato, esiste
una nuova classe di ausiliari: si tratta delle organizzazioni non
governative, che cercano di aiutare i bisognosi e predicano i diritti
umani, la religione secolare di oggi. I paesi più prosperi sono stati in
grado di dominare il mondo quando il loro reddito era soltanto tre volte
tanto quello dei paesi più depressi. Cosa impedirebbe loro di rifarlo
adesso che guadagnano 86 volte più di quello che incassano gli Stati più
poveri? Il fatto è che sono gli stessi princìpi che li hanno resi ricchi,
e cioè libero scambio, libertà di parola e rispetto delle leggi, ad essere
fondamentalmente antimperialisti. Invertendo il commento del custode del
castello di Macbeth, si potrebbe dire che i valori borghesi favoriscono
l’attuazione, ma impediscono il desiderio. I valori borghesi riassunti
dalla celebre massima di Deng Xiaoping, secondo la quale “diventare ricchi
è glorioso”, definiscono il successo in termini di potere d’acquisto e non
di sottomissione di popoli.
Bisogna anche tener presente che i poveri di oggi non desiderano essere
colonizzati, a meno che non si verifichino condizioni estreme e, anche in
tal caso, soltanto per un breve periodo di tempo. Nel XIX secolo, invece,
furono molti i paesi che si offrirono alle potenze coloniali. Inoltre, da
allora la diffusione delle idee occidentali di libertà, uguaglianza e
fraternità ha smantellato a tal punto le società tradizionali da renderle
quasi del tutto incapaci di governare i propri paesi da sole, oltre che
riluttanti ad accettare una dominazione straniera. Per quanto riguarda
l’imperialismo, domanda ed offerta sembrano essersi quindi esaurite.
Eppure un sistema in cui il più forte difenda il più debole, in cui il più
efficiente e meglio governato esporti stabilità e libertà, in cui si possa
investire e ci si possa espandere nel mondo intero senza alcun rischio
possiede caratteristiche decisamente attraenti. E anche se numerosi imperi
non presentavano queste qualità, molto spesso erano meglio del caos e
della barbarie che avrebbero regnato al loro posto. In luoghi e periodi
particolari (i secoli che ci separano dall’impero romano e da quello
ateniese ci permettono di vedere le cose in prospettiva), il regime
imperiale ha persino aiutato la diffusione della civiltà. Ma in un mondo
di diritti umani e valori borghesi, l’imperialismo dovrebbe comunque
assumere una forma del tutto nuova, completamente diversa da quella che il
mondo ha conosciuto in passato. Possiamo forse già cominciare ad intuirne
alcune caratteristiche. Ne esistono due forme diverse: l’imperialismo
della globalizzazione e l’imperialismo degli Stati confinanti. Entrambi,
in armonia con lo spirito dei tempi, sono il risultato di una libera
scelta. Impero vuol dire controllo, in primo luogo sugli affari interni:
nella letteratura accademica, viene contrapposto all’egemonia, che
consiste esclusivamente nel controllo degli affari esteri. Ecco perché
l’ingerenza di altri paesi nella propria politica interna causa tanto
risentimento: dà all’indipendenza un che di sottomissione.
Eppure, se i paesi in difficoltà vogliono riguadagnarsi un posto
all’interno dell’economia globale, attrarre investitori e tornare a
prosperare, sono proprio gli affari interni ad aver bisogno di essere
amministrati nel modo migliore. Le condizioni per i prestiti stabilite dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) vertono quasi tutte sulla gestione
dell’economia e della politica interne. Se le accettano, gli Stati che
rischiano di rimanere indietro o di essere esclusi dall’economia globale
ricevono in cambio degli aiuti, non soltanto dal Fmi, ma anche dai governi
delle nazioni ricche e da Wall Street. Oggi come oggi, questi aiuti
riguardano sempre meno la costruzione di strade e dighe; si tende invece a
ritenere che un buon governo ed un’amministrazione efficiente siano
fondamentali per lo sviluppo. Ecco perché molti programmi di assistenza
vertono sulla struttura organizzativa e sulla gestione del paese che viene
supportato: sono le cosiddette clausole di buon governo.
In cosa differiscono queste clausole dai provvedimenti presi da Lord
Cromer, insieme ad altri, in Egitto? A partire dal 1875, un delegato degli
obbligazionisti inglesi verificava le entrate del governo egiziano, mentre
sulle uscite vigilavano rappresentanti del governo francese. Il controllo
del finanziamento del debito estero era affidato ad un comitato
internazionale, che stabiliva quale tasso di cambio dovesse essere
concesso al governo. Tutto questo non ricorda forse molto da vicino alcuni
dei programmi più rigidi dell’Fmi? Esiste tuttavia una differenza
fondamentale: quando un nuovo governo egiziano minacciava di ignorare le
direttive che gli erano state date, l’Inghilterra non rinegoziava le
condizioni né arrivava ad annullare gli aiuti finanziari, come potrebbe
fare oggi l’Fmi; inviava piuttosto il generale Wolseley alla testa di
31mila uomini con l’ordine di ripristinare il vecchio governo, ristabilire
l’ordine e, naturalmente, riportare la disciplina in campo finanziario.
Ispirandosi al piano di Lord Cromer per l’Egitto, questo nuovo
imperialismo liberamente accettato, che sta cominciando a prendere forma
nel mondo attuale, potrebbe sistemare dei consiglieri nei ministeri più
importanti del paese. Ma senza violenza: si tratterebbe soltanto di
accordi economici. Nessuno deve sottostare a questi programmi contro la
propria volontà. Coloro che decidono di accettarli liberamente ne potranno
beneficiare. Al giorno d’oggi, l’intervento esterno deve anche essere
limitato nella durata e nell’entità. Trattandosi di una libera scelta,
forse non è neanche corretto definirlo imperialismo, in quanto la
sovranità non viene persa, ma soltanto concessa in prestito
temporaneamente. Nonostante questo, i rapporti tra gli Stati implicati
assomigliano molto a quelli che caratterizzavano gli imperi del passato:
ancora una volta ritroviamo un paese più forte ed uno più debole, di cui
viene gestita la politica interna.
[torna al sommario]
L’ipotesi epocale di una grande
Confederazione
Nei classici (Lenin, Schumpeter, Hobson), l’imperialismo viene
associato ad un interesse economico: commercio e bandiera procedono di
pari passo o si seguono molto da vicino. Non c’è quindi da meravigliarsi
se in un’economia globale ritroviamo istituzioni di livello mondiale,
caratterizzate da anonimato e obiettività ed in grado di rendere il mondo
più sicuro per gli investitori. E proprio poiché l’epoca in cui viviamo è
iniziata con la fine dell’imperialismo, il controllo che esercitano è
moderato, temporaneo e liberamente accettato.
Una seconda forma di questo nuovo imperialismo è quello degli stati
confinanti. Instabilità e cattiva amministrazione non attraggono gli
investitori, ma se sono i paesi confinanti a presentare questi problemi le
ripercussioni sull’economia di uno Stato possono essere ancora più
pesanti. La cosa più sorprendente oggi è che gli Stati Uniti non sono la
prima potenza imperiale al mondo, pur occupando, da un punto di vista
militare, politico, commerciale e culturale, una posizione predominate che
vede nell’egemonia dell’impero romano il suo unico precedente storico.
Avendo pochi paesi confinanti, gli Stati Uniti sono fondamentalmente
interessati alla forma più moderata del nuovo imperialismo: fornire
assistenza attraverso organizzazioni multilaterali. Il Messico sta facendo
progressi e, grazie all’intervento del Nafta, potrebbe migliorare ancora.
La situazione nei Caraibi ed in Colombia comincia a farsi preoccupante, ma
per adesso gli Stati Uniti, malgrado la grande ricchezza e l’enorme potere
di cui dispongono, possono ancora permettersi di non imbarcarsi in
un’impresa di tipo imperialistico, sebbene non sia da escludere la nascita
di un’area di libero scambio che comprenda entrambe le Americhe.
Per l’Europa, il discorso è diverso. A est dell’Unione Europea, ci sono
numerosi Stati che hanno raggiunto un’indipendenza completa soltanto di
recente. Molti stanno facendo progressi, ma i rischi che corrono i paesi
deboli sono enormi. Un esempio? Guardate cosa è successo nei Balcani:
negli ultimi dieci anni, una mescolanza di malgoverno, criminalità e odio
etnico, spesso del tutto indistinguibili l’uno dall’altro, non soltanto
hanno oltraggiato la coscienza dei paesi ricchi, ma hanno anche causato
pesanti costi alle altre nazioni europee di provata stabilità. Nei Balcani
fioriscono il traffico di droga ed il contrabbando. Il business
dell’immigrazione clandestina, in particolare, è uno dei più redditizi: i
cinesi trovati morti nel porto di Dover arrivavano da Belgrado. La
violenza ha raggiunto i suoi massimi livelli in Bosnia ed in Kosovo,
entrambi attualmente protettorati dell’Onu, ognuno dei quali gestito da un
Alto funzionario con poteri più o meno ampi. Non c’è da meravigliarsi se
entrambi gli Alti funzionari sono europei: l’Europa fornisce la maggior
parte degli aiuti che giungono alla Bosnia e al Kosovo, oltre a gran parte
dei soldati che servono a mantenervi l’ordine, anche se bisogna
riconoscere che la presenza americana costituisce un indispensabile
fattore di stabilizzazione. Inoltre, con una decisione senza precedenti,
l’Unione Europea ha offerto ai paesi della ex Jugoslavia il libero accesso
al proprio mercato di tutti i loro prodotti, compresa la maggior parte di
quelli agricoli.
La comunità internazionale non fornisce soltanto soldati, ma anche
poliziotti, giudici, guardie carcerarie, dirigenti bancari, eccetera. In
Bosnia, un’intera squadra di funzionari europei si sta occupando della
creazione di un sistema doganale. Le elezioni vengono organizzate e
monitorate dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Osce) e la polizia locale è finanziata dall’Onu. Più di un
centinaio di organizzazioni non governative stanno collaborando
attivamente a questa ricostruzione ed in molte zone il loro aiuto si è
dimostrato di fondamentale importanza.
I Balcani costituiscono un caso estremo, ma sono un ottimo esempio di come
l’instabilità possa trasformarsi in conflitto reale. Negli altri paesi che
si trovano al di là dei suoi confini orientali, l’Unione Europea sta
conducendo un programma che, alla fine, la porterà ad espandersi
notevolmente. Da Stettino, sul Mar Baltico, a Tirana, a pochi chilometri
dall’Adriatico, tutti i paesi tra Vienna e Mosca vogliono entrare a far
parte dell’Unione Europea e della Nato: a questo scopo, stanno riscrivendo
le proprie leggi e costituzioni e riorganizzando le proprie forze armate.
Alcuni sono solo all’inizio, e forse non sono ancora in grado di
comprendere appieno quali siano i requisiti necessari per diventare
membri, ma molti hanno già fatto grandi progressi. Le negoziazioni con
l’Unione Europea riguardano l’agricoltura, l’industria, i trasporti,
l’ambiente, la concorrenza, la politica monetaria, quella estera e molto
altro ancora. In passato, gli imperi avevano imposto le proprie leggi ed i
propri sistemi di governo. Oggi, nessuno viene obbligato: le nazioni
scelgono liberamente di adeguarsi a determinate regole e norme. I paesi
interessati non sono instabili, ma, senza l’obiettivo di entrare a far
parte dell’Unione Europea e senza gli aiuti provenienti dagli Stati che
già ne sono membri, avrebbero corso un serio pericolo. Tutto sommato, è
probabilmente un bene avere a disposizione tutta una serie di norme e
regole occidentali pronte all’uso. In quanto candidato ad entrare
nell’Unione Europea, il paese interessato deve accettare ciò che è stato
stabilito, proprio come facevano una volta gli Stati assoggettati. Ma chi
riuscirà a diventare membro sarà ricompensato: avrà voce in capitolo nelle
decisioni dell’Unione. Se questo può essere considerato come una sorta di
imperialismo liberamente accettato, allora il grande Stato che si formerà
sarà di tipo cooperativo. “Confederazione”, quindi, potrebbe essere un
nome adatto.
[torna al sommario]
Un ruolo imperiale per l’Unione Europea?
Molte regioni europee hanno vissuto molto più a lungo e più
felicemente all’interno di una struttura di tipo imperiale che non da
liberi Stati nazione. Caso esemplare ne sono i Balcani, con il loro
mosaico di etnie. Belgio, Germania e Italia hanno prosperato sotto regimi
imperiali (e nel caso della Germania si trattò di qualcosa di molto simile
ad un impero di tipo cooperativo). Certo, gli imperi erano caratterizzati
da regimi aristocratici rigidi e decadenti, mentre gli Stati nazione che
li hanno sostituiti hanno portato dinamismo, democrazia e rinnovamento; ma
la chiarezza e il vigore degli Stati nazione hanno anche causato
spargimenti di sangue, sia a causa di guerre intestine che per il modo in
cui venivano gestite le minoranze. Armeni, albanesi e curdi vivevano più
sicuri all’interno dell’impero ottomano che non attualmente negli Stati
nati dal suo smembramento. A quei tempi, l’impero poteva a volte fungere
da autorità superiore, che agiva al di sopra dei gruppi etnici ed era in
grado di mantenere la pace tra loro. Oggi anche questo ruolo appartiene
alla comunità internazionale, che viene invitata dal paese in questione ad
essere presente sul suo territorio con osservatori o forze di pace.
Nel suo classico sugli imperi, Michael Doyle sostiene che, per avere
successo, un impero deve fondarsi su una burocrazia che si occupi di tutto
il territorio (come nel caso dell’impero romano) e non soltanto della
metropoli (come nel caso di quello inglese). “Un impero duraturo
presuppone una certa coordinazione a livello burocratico ed
un’integrazione transnazionale tanto nell’ambito politico che in quello
economico e culturale. Tale integrazione riesce a fondere la metropoli con
le regioni periferiche, proprio come accadde nell’impero romano con le
leggi di Caracalla del 212. A questo punto, l’impero non esiste più e i
diversi popoli diventano un’unica popolazione. Nel caso dell’impero
romano, i vari popoli vennero uniti sotto un unico despota, ma
l’attrattiva che ancora oggi caratterizza questa altrimenti deplorevole
dominazione di più Stati sta nella possibilità che tutti i popoli
assoggettati possano godere di una libertà comune. Gli imperi continuano
ad attrarre perché vengono visti come un modo per ottenere la pace, ma
l’imperialismo nasconde una doppia tragedia: prima di tutto, gli imperi
moderni, che si fondano su un nazionalismo di tipo metropolitano, etnico,
potrebbero non essere in grado di evolversi fino a raggiungere
un’integrazione completa; in secondo luogo, per sopravvivere abbastanza a
lungo in modo da ultimare il processo di integrazione, qualsiasi impero di
vaste proporzioni deve superare l’amministrazione augustea ed arrivare ad
un regime di tipo burocratico, e burocratizzare la metropoli significa
distruggere ogni possibilità di governo partecipativo. Da un punto di
vista sia analitico che storico, libertà ed impero appaiono quindi
inconciliabili, in un primo momento per le zone periferiche ed in seguito
per la metropoli”.
L’attrattiva dell’Unione Europea sta nel fatto che, una volta individuato
il giusto tipo di gestione, potrebbe rappresentare la soluzione a questo
dilemma. Concepita come uno Stato, infatti, non soltanto sarebbe molto
poco attraente, ma totalmente irrealizzabile. Tuttavia, potrebbe
funzionare sotto forma di impero di tipo cooperativo. In una
confederazione come questa, nessun paese occuperà una posizione dominante
ed ogni Stato membro comparteciperà al governo, che si baserà su princìpi
legali e non etnici. Il potere centrale dovrà dimostrare di avere una
grande capacità diplomatica e la “burocrazia imperiale” dovrà essere tale
da permettere un facile controllo, serva e non padrona della
confederazione. Un’istituzione di questo tipo dovrà perseguire libertà e
democrazia esattamente come le sue parti costituenti. Come l’impero
romano, questa Europa fornirà ai propri cittadini leggi, monete e,
occasionalmente, qualche strada. Certo, non sarà facile, ma forse è
possibile ipotizzare un’Europa costituita da una trentina di membri ed
organizzata secondo il modello di un impero di tipo cooperativo moderno e
democratico, in grado non soltanto di garantire la pace ai paesi che ne
facciano parte ma di offrire loro la possibilità di godere di una libertà
comune. Se non altro è una nobile speranza.
[torna al sommario]
(traduzione dall’inglese di Sarah del Meglio)
© The New York Times Syndication Sales Corp.
e, per
l’Italia, Ideazione.
25 gennaio 2002
|