Aeroporti Usa: il miraggio della "sicurezza perfetta"
di Stefano da Empoli


L'illusione che l'11 settembre abbia messo la parola fine alle divisioni ideologiche a Capitol Hill è durata ben poco. Lo dimostra lo spicchio di dibattito sulle misure di sicurezza da adottare negli aeroporti americani, per esempio. E' bastato che democratici e repubblicani aprissero bocca sull'argomento per intuire che la vecchia cara politica è ritornata al suo indirizzo originario. Se tutti sono d'accordo sulla necessità di aumentare le precauzioni per chi vola, la dialettica nasce sul come. Nazionalizzando i controlli a terra, come vorrebbero i democratici (spalleggiati dai senatori repubblicani) oppure prevedendo regole più severe per le aziende appaltatrici, come sostengono i repubblicani alla Camera?

Che lo scontro fosse acceso lo dimostrava l'editoriale del New York Times che commentava il disastro aereo del Queens. Nel quale si affermava che "i repubblicani devono far cadere la loro opposizione ideologica ad una forza pubblica a garanzia della sicurezza negli aeroporti, (…) altrimenti, ogni volta che un aereo precipita, i pensieri della gente andranno istintivamente ad un atto di terrorismo". Affermazioni sconcertanti per almeno due motivi. Innanzitutto la strumentalizzazione a fini politici di una disgrazia che ha colpito in primo luogo il bacino di lettori del New York Times dimostra che i repubblicani non meritano prediche sul loro ideologismo da quel pulpito. Specie se chi le fa istituisce un collegamento specioso tra la caduta di un aereo dovuta a motivi meccanici (ancora da chiarire) e controlli dei passeggeri a terra. Come se, dopo che una macchina travolge un passante uccidendolo, l'attenzione si focalizzasse sul fatto che il proprietario non avesse lavato l'automezzo negli ultimi mesi.

Peraltro poco può essere imputato alle aziende che effettuavano i controlli a terra a Boston, Newark e Dulles per quello che è avvenuto l'11 settembre. Quando a fallire sono state le regole a cui esse si attenevano. Tant'è che i dirottatori non hanno usato pistole o machete bensì oggetti consentiti a bordo e in apparenza inoffensivi come i coltellini svizzeri. Inoltre, le parole del New York Times, tutt'altro che isolato in questo, sembrano alludere al miraggio di una sicurezza perfetta. Un'oasi di pace e tranquillità, raggiunta grazie alla sapiente azione dell'autorità pubblica. Un obiettivo che ci piacerebbe condividere se non fosse per la sua evanescenza.

Non esiste una sicurezza perfetta così come non esiste una giustizia sociale perfetta. Si può lavorare ad un miglioramento delle condizioni attuali, ricordandosi però che difetti e disfunzioni ci saranno sempre. Piuttosto non è il caso di aggravarli, inseguendo l'ennesima utopia. Come potrebbe accadere qualora si assumessero 28.000 nuovi dipendenti pubblici. Difficili da licenziare loro e impossibile da sostituire lo stato gestore. Infatti chi lo rimpiazza se da' cattivi risultati? Un contratto d'appalto può non essere rinnovato, si possono anche prevedere cause di rescissione più permissive. Ma di amministrazione pubblica ce n'è una sola. Peraltro il know how delle società private che oggi si occupano dei controlli di sicurezza subirà gravi danni, con la loro uscita dal settore. Una successiva privatizzazione non sarebbe quindi a costo zero. Quello che è avvenuto l'11 settembre è terribile ma non giustifica provvedimenti affrettati e controproducenti. Le tragiche vicende delle utopie di un passato anche recentissimo consigliano attenzione alle conseguenze dell'azione umana. E una fiducia limitata nelle capacità della mano pubblica di risolvere i nostri problemi.

16 novembre 2001

sdaempol@gmu.edu




 

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