Europa, l’illusione della fine della
politica
di Giuseppe Sacco
I temi geo-strategici - è noto - animano da sempre le discussioni
degli sfaccendati nei caffè di provincia. E sono stati tirati
puntualmente in ballo per spiegare l’emarginazione dell’Europa
nella crisi attuale. Le ragioni sono altre e stanno semplicemente
nella natura del conflitto. La sfida del terrorismo islamico non è
infatti né una sfida economica né una sfida militare, ma una sfida
politica, anzi una sfida politico-culturale. E l’Europa - dalla
Conferenza di Messina al Trattato di Maastricht - aveva invece
messo da parte la politica, si era illusa che con l’unificazione
dei mercati e dell’economia si sarebbe finito per ottenere anche
l’unificazione degli stati e della politica. Illusione mercantile!
Come fece notare de Gaulle, è l’intendenza che segue gli eserciti,
e non viceversa. Da tutti gli europei, l’attacco alle Torri è
stato vissuto come un crimine orrendo. E lo è. Ma dagli Stati
Uniti è stato visto anche, e soprattutto, come un’umiliazione
politica, il tentativo di provare che l’America, nonostante la sua
immensa forza economica e militare, resta, come all’epoca del
Vietnam - e questa volta addirittura sul proprio territorio - una
“tigre di carta”, e che un nemico fortissimamente motivato, dal
fanatismo religioso o dal nazionalismo, può - passando tra i suoi
denti atomici - colpire al cuore.
L’offesa subita dall’America è puramente politica, non militare o
economica. Questa non è stata Pearl Harbour, dove l’obiettivo era
di ripulire il Pacifico dalla marina da guerra americana. E non è
stata Telemark, dove l’obiettivo era quello di privare i tedeschi
della capacità industriale di produrre la bomba atomica. Ed anche
l’obiettivo degli attentatori era politico - segnalare il rifiuto
del mondo islamico all’egemonia globale dell’America - la risposta
non può che essere politica. Ma per questo, l’Europa non è
organizzata. L’Europa è stata costruita lasciando la politica agli
stati. Anzi, è stata costruita nell’illusione che la politica
fosse in via d’estinzione, che ormai contassero solo gli interessi
particolari e non quelli collettivi, che questa fosse insomma
un’era in cui non ci fosse altro uomo che l’homo oeconomicus. Non
è un caso se, di fronte alla nuova situazione mondiale creata
dalla sfida del terrorismo islamico agli Stati Uniti, e dalla
risposta dell’America, sono stati i paesi membri - o almeno alcuni
di essi - che si sono mossi con grande prontezza di riflessi per
inserirsi nella vicenda. Si sono mossi naturalmente uti singuli,
non certo in una prospettiva europea.
Per prima è scattata la Gran Bretagna, che si è schierata
immediatamente con l’America, ed in maniera così impegnativa da
sorprendere alcuni osservatori. Per questo tempismo, Blair è stato
paragonato addirittura a Disraeli, grande sostenitore della teoria
che il leader politico non deve avere ideologie o programmi a
lungo termine, ma saper cogliere al volo le occasioni. In realtà,
non c’è stato bisogno di nessuna particolare statesmanship perché
il premier inglese comprendesse che la richiesta di Bush di aiuto
nella lotta al terrorismo andava accettata subito, e con una
interpretazione estensiva. Il governo inglese era infatti
impegolato nella questione irlandese ancor più di tutti i governi
che lo avevano preceduto da quando Londra ha di fatto perso il
controllo delle sei contee, cioè negli ultimi 35 anni. E siccome
l’Ira è da sempre finanziata dagli irlandesi d’America tramite una
serie di fondazioni fasulle assai simili a quelle di bin Laden, la
richiesta americana di collaborazione è caduta come la manna. Lo
scambio, aiuto in Afghanistan contro repressione degli irlandesi
d’America, è stato automatico. Non c’è voluto nessun particolare
genio politico per pensarci.
Diverso il caso dell’Italia, che non ha bisogno di nessun aiuto
dall’estero per garantire allo stato il controllo del proprio
territorio nazionale. Neanche all’epoca del separatismo è infatti
esistita in Sicilia una situazione di non controllo comparabile a
quella irlandese. Né la comunità italo-americana è complice di
forze anti-stato nella misura in cui lo sono gli irlandesi
d’America. Il sostegno italiano all’amministrazione Bush è stato
dunque meno immediato, ma assai più ragionato, e motivato da
considerazioni di ordine politico generale, relative alle
responsabilità che nella lotta al terrorismo spettano ad una media
potenza come l’Italia.
1 novembre
2001
saccogi@hotmail.com
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