La guerra del petrolio non s’ha da fare
di Giuseppe Sacco


Una strana simmetria caratterizza questa guerra. Di fronte a bin Laden - che, per chiamare i suoi seguaci alla lotta, denuncia l’umiliazione dell’Islam e lo sfruttamento delle sue ricchezze - i paesi occidentali tentano in tutti i modi di chiarire che questo è un conflitto in cui i fattori religiosi non contano, mentre i governi islamici che partecipano alla coalizione si sforzano di mettere in chiaro che neanche i fattori economici hanno peso. Se non è una guerra “medioevale” tra cristiani ed islamici, insomma, non è neanche una guerra “moderna” tra consumatori ed esportatori di energia.

Certo, gli interessi petroliferi sono dappertutto attorno al teatro di guerra. Sono dietro l’appoggio che il Pakistan ha dato, sino a ieri, ai Talebani, per garantirsi un corridoio “amico” dove costruire un oleodotto dall’Asia centrale all’Oceano Indiano. Sono dietro allo scambio, proposto da Putin, tra sostegno agli Usa e mano libera in Cecenia, da dove passa il “suo” oleodotto, quello dall’Asia Centrale al Mar Nero. Sono dietro il sostegno dato dalla Turchia ai nemici della Russia, per favorire ancora un altro tracciato, quello che sbocca a Cehyan, sul Mediterraneo. Ed enormi interessi petroliferi sono naturalmente dietro alle preoccupazioni occidentali di evitare che un’azione contro il terrorismo attuata senza il pieno consenso di tutti gli islamici moderati destabilizzi politicamente la fragile monarchia saudita, il cui trono poggia sulla più grande riserva di idrocarburi al mondo.

Eppure, il fattore petrolio sembra ignorato. Lo stesso mercato - che di norma è una creatura assai sensibile e nervosa - non ha registrato nessun allarme. Anzi, ha sinora dimostrato di non credere che la disponibilità e il prezzo del petrolio possano risentire del conflitto. Si è anzi visto il contrario di quel che è regolarmente accaduto in occasione delle guerre dell’ultimo mezzo secolo. Il prezzo del barile, che con la Guerra del Golfo superò i quaranta dollari, è salito brevemente al di sopra di trenta, per poi scendere sino sfondare la soglia dei 22 dollari, che è quella al di sotto della quale si mette in moto il meccanismo Opec per tagliare la produzione. Ma stavolta i governi membri hanno dimostrato una moderazione straordinaria, con la sola parziale eccezione dell’unico paese non-islamico, il Venezuela.

Non ci sarà, allora, la guerra del petrolio? E l’Italia, che è una delle nazioni al mondo che maggiormente ne dipende, può stare tranquilla? E’ possibile, effettivamente, che la guerra non ci sia. Forse è addirittura probabile, dato che limitare gli obiettivi del conflitto alla sola lotta al terrorismo è nell’evidente interesse sia dei paesi islamici che dei paesi dell’Occidente. Ma in uno scontro in cui sono coinvolti tutti gli stati della Terra - più alcuni pericolosi soggetti non-statuali - e in cui ciascuno cerca di ottenere propri obiettivi particolari mescolandoli a quelli comuni, bisogna tener conto dei “falchi” che potrebbero volere un allargamento del conflitto. In primo luogo i terroristi. Un attentato al Vaticano, che rischierebbe di trasformare lo scontro in una guerra di religione, sarebbe infatti - sotto questo profilo - tremendamente efficace. E va detto che lo stesso Clinton, con le sue non richieste “rivelazioni”, ha fatto in definitiva il gioco degli estremisti.

Ma anche la frustrazione può essere cattiva consigliera: la frustrazione derivante da una guerra in cui da un lato ci sono tutti i paesi del mondo - giustamente decisi a non lasciare impunito l’attacco conto la popolazione civile di New York - e dall’altro un nemico viscido e sfuggente, una polvere pressoché inafferrabile, senza un territorio che non sia condiviso con popolazioni e profughi innocenti. La frustrazione potrebbe ora consigliare di trovare un altro teatro di guerra, meno difficile di quello afghano. Ed è probabilmente nella consapevolezza di tale rischio che Blair ha espresso la propria contrarietà all’allargamento dei bombardamenti all’Irak. Un allargamento che potrebbe segnare una degenerazione del conflitto, del suo tramutarsi - lo ha fatto notare lo sceicco Yamani - in uno scontro tra Sud e Nord del mondo sul mercato mondiale dell’energia. Una degenerazione insomma comparabile a quella del suo tramutarsi in guerra di religione.

19 ottobre 2001

saccogi@hotmail.com


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