Economia di guerra, a rimetterci saranno
i più poveri
di Giuseppe Pennisi
Chi pagherà le spese dei contraccolpi alla globalizzazione
innescati dalla guerra contro il terrorismo? Non sappiamo se i “no
global” di professione hanno stappato bottiglie di spumante alla
lettura del documento diffuso a Washington dalla Banca Mondiale,
in cui si quantizzano i primi segni di marcia indietro della
globalizzazione: i capitali restano tra i confini domestici
(invece di migrare alla ricerca di novità sotto forma di impieghi
in portafoglio o investimenti diretti); i costi di transazione,
specialmente quelli di trasporto e di trasferimento di beni e
servizi, aumentano (molto di più di quanto sarebbero cresciuti in
caso di imposizione di una Tobin tax sui movimenti a breve);
l’espansione del commercio rallenta e il nuovo negoziato
multilaterale sugli scambi rischia di non decollare; anche le
migrazioni frenano (a ragione di nuove e più severe leggi contro
gli immigranti).
Con il freno, ove non l’arresto, della globalizzazione, la campana
del disagio suona soprattutto per i più poveri: prima dell’11
settembre, e nell’ipotesi di un processo d’integrazione
internazionale graduale ma in incremento, le stime Ocse
prevedevano un aumento del pil dei paesi ad alto reddito dell’1,1
per cento quest’anno ed un recupero al 2,2 per cento il prossimo;
i dati, molto più foschi, della Banca Mondiale affermano che, a
ragione principalmente del freno alla globalizzazione e dei costi
della guerra conseguenti l’attacco dell’11 settembre, nel 2001 i
paesi Ocse cresceranno solo dello 0,95 per cento nel 2001 ed
appena dell’1,25 per cento nel 2002. Il documento aggiunge che
l’ipotesi di fondo di queste stime è il “ritorno alla normalità”
(ossia fine del conflitto e ripresa della globalizzazione) a metà
2002: se ciò non avverrà, i guai saranno ancora maggiori.
Se per i paesi Ocse il freno comporta una stagnazione, per i paesi
a basso a reddito, e per gli strati più poveri della loro
popolazione, le conseguenze del rallentamento dell’attività
economica saranno gravissime. I più alti costi dei noli, delle
assicurazioni, il rallentamento dei traffici, stanno mietendo
vittime. Le tariffe per i trasporti via mare da e verso l’India
(paese non coinvolto nel conflitto) sono già aumentate tra il 10 e
il 15 per cento Il flusso di capitali privati alla volta dei paesi
in via di sviluppo sta subendo un vero e proprio tracollo: dai 240
miliardi di dollari raggiunti nel 2000 a 160 miliardi circa
stimati per quest’anno. Stanno crollando i corsi delle materie
prime non petrolifere (quelli dei metalli hanno già perso il 25
per cento del loro valore in dollari negli ultimi 12 mesi) con
pesanti ripercussioni sulle bilance dei pagamenti e quindi sulla
possibilità di importazioni (per lo più alimentari) dei paesi
esportatori. Il turismo è a picco: nell’arco di tre settimane è
stato cancellato il 65 per cento delle prenotazioni ai Carabi.
All’interno dei paesi a basso reddito - sottolinea la Banca
Mondiale - sono i più poveri i primi a subire una riduzione
ulteriore dei loro già fragili tenori di vita. Per mantenere i
livelli di alimentazione, istruzione e sanità esistenti (ossia un
mondo in cui tre miliardi di uomini, donne e bambini vivono con
meno di due dollari al giorno), ci vorrebbe un forte aumento degli
aiuti pubblici: tra i 10 ed i 20 miliardi aggiuntivi ogni anno
sino a raggiungere 100 miliari di dollari l’anno in termini reali
(lo 0,7 per cento del pil dei paesi Ocse, invece dell’attuale 0,22
per cento) nella seconda metà del decennio.
Un’analisi parallela, utilizzando un modello econometrico
costruito dall’ex-Segretario al Tesoro Usa Lawrence Summers mette
in rilievo come uno dei primi effetti del contraccolpo negativo
sulla globalizzazione sarà un aumento della mortalità infantile
nei paesi più poveri dell’Africa a sud del Sahara, per nulla
coinvolti nel conflitto ma da contarsi tra le vittime
inconsapevoli del terrorismo. I “kamikaze” di bin Laden stanno
uccidendo anche loro! Se da integrazione economica internazionale
si finirà a nuovi protezionismi, gli esempi che ci fornisce la
storia fanno accapponare la pelle: l’unione monetaria e
commerciale mondiale durò 200 anni all’epoca dell’Impero Romano e
diede prosperità anche ai più deboli, ma il suo crollo venne
seguito da mille anni di “secoli bui”; la fine della
globalizzazione tra il 1870 ed il 1910 segnò una lunga fase
contrassegnata da due guerre mondiali. “Il solo pensiero che ciò
si ripeta afferma l’economista David Dollar ci fa stare male”.
Alla faccia dei “no global” di professione.
12 ottobre
2001
gi.pennini@agora.it
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