"E bin Laden mi disse: fonderò un Califfato"
intervista a Marco Guidi di Pierpaolo La Rosa


"Se non lo consegna qualcuno, per gli americani sarà davvero dura scovare Osama bin Laden": non si fa grandi illusioni Marco Guidi, giornalista di lungo corso che conosce come le sue tasche l'Afghanistan, paese in cui ha trascorso sei anni - dal 1984 al 1990 - in qualità di inviato per il Resto del Carlino. Profondo conoscitore della cultura islamica, Guidi ha incontrato in due occasioni lo sceicco saudita sospettato di aver organizzato gli attentati terroristici che hanno colpito a morte gli Stati Uniti. 

Perché è così complicato individuare il nascondiglio di Osama bin Laden? 

E' sufficiente conoscere il territorio afgano per rendersene conto: montagne altissime, impervie, piene zeppe di caverne, anfratti e valloni. Se decidessero di attaccare, gli americani dovrebbero farlo in tutta fretta; già a metà ottobre, infatti, inizia a nevicare. Le incursioni, i sempre più probabili bombardamenti mirati su campi di addestramento e depositi di droga non porteranno alla cattura del bersaglio principale. Resto convinto che bin Laden riuscirà ancora una volta a farla franca. A meno che, ripeto, non ci sia qualcuno disposto a consegnarlo.

Secondo fonti giornalistiche, bin Laden si troverebbe nel Pamir. E' un'ipotesi plausibile?

A mio giudizio, si tratta di una colossale stupidaggine messa in giro da chi non ha mai guardato la cartina geografica dell'Afghanistan. Il Pamir non è una valle, come si legge sui mezzi di informazione, ma un'immensa catena montuosa con centinaia di valli. Non ci si nasconde lì senza aver trascorso un periodo per acclimatarsi. Infine - elemento da non trascurare - il Pamir è in mano all'Alleanza del Nord, la principale forza di opposizione al regime dei talebani: mi sembra strano che bin Laden vada a nascondersi proprio in territorio nemico.

Lei ha conosciuto nel 1987 il multimiliardario del terrore. Può raccontarci come è andato l'incontro?

E' presto detto. Di solito, noi giornalisti in Afghanistan ci muovevamo con i gruppi di cui ci fidavamo: io andavo con lo Jamiat Islami Afghanistan (società islamica dell'Afghanistan), che era peraltro il partito a cui apparteneva il mitico comandante Massud. Un giorno finimmo in un'imboscata tesa dai corpi speciali russi e dalle truppe comuniste afgane. Ci rifugiammo allora in una base nella provincia del Kunar, proprio al confine con il Pakistan: lì vidi un signore alto, con una fasciatura alla spalla sinistra ferita in precedenti combattimenti. Era bin Laden, ma non lo sapevo dal momento che non si era presentato con nome e cognome. Gli rivolsi il saluto tipico dei credenti musulmani, ma lui non mi rispose affatto. Di fronte a questo atteggiamento arrogante, provai una sensazione sgradevole. Faizul, il capo di un altro movimento fondamentalista, mi mise in guardia: "Stai attento - disse - perché è una persona importante, influente, di famiglia molto ricca". Qualche giorno dopo ebbi finalmente occasione di parlare per dieci minuti con colui che sarebbe diventato il pericolo numero uno degli Usa. Ebbene, il personaggio antipatico e pieno di sé si era trasformato in un uomo affabile, con un fascino notevole. Un cambio repentino di personalità che mi sorprese. 

Quale fu l'oggetto della vostra chiacchierata?

Mi fece un accenno al suo progetto di un unico grande stato islamico, una sorta di Califfato tanto per intenderci. Ma nell'87 bin Laden era uno dei molti mujaheddin che combatteva la guerra santa contro i russi. Si considerava un umile soldato della Jihad. Aveva comunque le idee sin troppo chiare: "Sono gli americani che lavorano per noi - disse - dopo i russi, manderemo via anche loro". Quando, quattro o cinque anni più tardi, ho visto le sue fotografie, solo in quel momento ho capito di chi si trattasse.

Che tipo è bin Laden dal punto di vista fisico? E' vero che non parla neppure inglese?

E' alto oltre un metro e novanta e ha la pelle olivastra; allora indossava un camicione arabo e aveva, naturalmente, la barba. Si esprimeva poi in un inglese non eccezionale, con un forte accento americano, ma comprensibile.

Lei ha avuto la fortuna di incontrare Ahmad Shah Massud, il leader dei ribelli del Nord ucciso il mese scorso in un attentato. Che impressioni ne ha ricavato? 

Era un uomo dotato di immenso fascino e che faceva della modestia la sua arma preferita. Le sue doti migliori erano la semplicità, la gentilezza, l'affabilità. E i suoi uomini parlavano di lui come di un combattente assolutamente leggendario, perfino mitico. Era uno che non parlava mai a vanvera: un giorno ci disse che la guerra di resistenza contro i russi poteva considerarsi vinta e, in effetti, alla fine ebbe ragione. 

Siamo nell'immediata vigilia dell'offensiva statunitense contro basi militari e campi di addestramento afgani. Lei conosce quei luoghi: come pensa che andrà a finire?

Di certo, non sarà una passeggiata. Gli ostacoli maggiori sono due: il territorio afgano - che con i suoi altipiani desertici e le sue grotte si presta ad atti di guerriglia - e il carattere indomito della popolazione locale, gente che ha nel sangue la forza di respingere attacchi portati dall'esterno.

8 ottobre 2001

pplarosa@hotmail.com



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