Good Morning America. Il fattore "estero"
di Stefano Da Empoli


Dopo l'attacco dell'11 settembre a New York e Washington molti hanno notato il contrasto tra l'unilateralismo del Bush prima maniera e la ragnatela di contatti diplomatici intessuta con pazienza dalla sua amministrazione a partire da quel giorno maledetto in nome di un imperativo più grande di qualsiasi credo ideologico. In poche parole, "un presidente educato dagli eventi", come è stato definito da chi nella stampa, soprattutto europea, non lo ha mai molto amato ma non poteva tener conto della qualità della sua leadership di queste settimane. Una caratterizzazione stilisticamente felice ma ingannevole nella sostanza. Non perché Bush non sia stato unilateralista ma perché quasi tutti i presidenti americani da Washington in poi lo sono stati, con le eccezioni che si contano sulle dita di una mano (Woodrow Wilson è forse l'unico esponente di una linea chiaramente alternativa). 

Bush è stato più esplicito e netto del suo predecessore Clinton, più per una differenza caratteriale che politica. Il decisionismo del nuovo presidente contrasta con immobilismi e temporeggiamenti del vecchio. Nelle relazioni internazionali, il minimo comune denominatore dei presidenti è la facile osservazione che al popolo americano importa quasi nulla di cosa succede al di fuori dei propri confini fintantoché eventi e fenomeni esterni non abbiano cospicue conseguenze interne. Quando le truppe americane entrano in una capitale straniera ci può essere uno scoppio di smisurato orgoglio ma i fasti del trionfo durano poco. Un'insularità politica che non si traduce in un isolazionismo culturale grazie al flusso continuo di immigrazione di qualsiasi etnia e livello intellettuale. Grazie alla quale gli americani hanno assorbito gli aspetti positivi provenienti dall'estero, senza che i valori di fondo della loro società ne fossero snaturati. Non c'è verso di far cambiare opinione agli statunitensi a meno che non ci siano eventi esterni che incidano profondamente sulla sensibilità collettiva, come nel caso degli attacchi dell'11 settembre. E' così sulla pena di morte, dove perfino una voce come quella del Papa rimane ai margini del dibattito corrente (al contrario di quanto si possa immaginare da noi); eppure i cattolici sono la maggioranza relativa negli Stati Uniti e la percentuale di osservanti fa impallidire qualsiasi altro paese, Italia inclusa.

Il disinteresse verso l'opinione proveniente dall'esterno ha un'altra importante conseguenza in politica estera. Agli Stati Uniti non è mai interessato deporre la bandierina in terra africana o asiatica per pura volontà di potenza. L'imperialismo americano è in realtà una forma di anti-imperialismo, fondata sulla neutralizzazione di attacchi effettivi o eventuali alla sicurezza e al benessere degli Stati Uniti. Un minimalismo che impedisce a Bush alcuni slanci retorici di Tony Blair, l'erede dell'ultimo vero grande impero (Urss a parte). L'ultimo piccolo strappo alla regola non è venuto tanto da Clinton, ma da Bush senior. Il quale predicava il "Nuovo Ordine Mondiale" con dieci anni di anticipo rispetto agli eventi di oggi. Una predica inutile a giudicare dall'esito della campagna presidenziale del '92. "It's the economy, stupid" divenne uno slogan che come un tornado inarrestabile ha spazzato la geografia politica americana, determinando le fortune elettorali di William Jefferson Clinton. Ora ad un altro Bush è affidato il testimone di una politica estera "forte". Per fermare un altro tornado, questa volta originatosi all'esterno e dal vortice ben più minaccioso. Così si spiega una conversione politica più apparente che reale, nel solco già ampiamente battuto della politica estera americana.

8 ottobre 2001

stefanodaempoli@yahoo.com


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