Afghanistan, il cuore perduto dell’Asia
di Marco Guidi

Pubblichiamo un capitolo del reportage di Marco Guidi “La via della seta” ripreso dal numero 4-2000 della rivista bimestrale Ideazione. Guidi, giornalista e saggista, è stato per anni inviato di guerra per il Messaggero di Roma. Negli anni Ottanta ha raccontato ai suoi lettori l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Il capitolo che presentiamo si riferisce al tratto afghano dell’antico percorso di viaggio.

(…) Per proseguire la nostra marcia ci sono in teoria due vie, quella del nord, che arriva alla sacra e scorbutica città di Mashad e consente il passaggio all’afgana Herat. Una via oggi improponibile, soprattutto da quando i servizi segreti americani e pakistani hanno installato in Afganistan i taleban. Ma ci torneremo sopra, al momento, per andare a Oriente, bisogna prendere la via del sud e arrivare a Peshawar, buscando el levante para el poniente, come diceva Cristoforo Colombo, che voleva andare in Asia. Così il nostro cammino ci porta verso Isfahan. Basta una qualsiasi guida turistica a segnalare che Isfahan è bellissima. Ma quando uno ci è passato, anche solo una volta, basta pronunciarne il nome risonante per ricordare il ponte dai 33 archi, il fiume vorticoso e soprattutto la grande Meidan, la piazza dove tra le altre cose sorge la grande moschea che un tempo si chiamava dello shah (Abbas il Grande, XVII secolo) e ora dell’imam (Khomeini, XX). Per chi ama il turchese è una sorta di antiporta del paradiso. Chi ama il grandioso può osservare la piazza lunga circa mezzo chilometro (però è una piazza vera, nata da una civiltà che poteva concepire cosa sia una piazza, non uno spazio immenso, come Tian An Men). La piazza con le moschee, il grande palazzo reale, che dovrebbe essere ormai quasi tutto restaurato, e il bazar sullo sfondo. Un insieme architettonico che, come certi libri (sì, anche il popolare, tardo e vituperato Le mille e una notte) costituisce una sorta di metafora del mondo, come ha voluto esserlo il Libro dei Re e, più a sud e tanto tempo prima Persepoli.

Tutto è bellissimo, ma il dono che il Genio di quel viaggio mi fece fu un altro, fu la Moschea del Venerdì, con i suoi giganteschi piloni fatti di mattoni nell’XI secolo. Una moschea che fu costruita e ampliata per secoli, come uno dei nostri colossi gotici. Una moschea colpita dai missili di Saddam Hussein e rimasta orgogliosamente in piedi ad attendere il restauro. Un posto di luce chiara, e di pace, e di meraviglia, un po’ come la moschea del Reggente a Shiraz, di fontane e di studenti, di turisti finalmente silenziosi e di ombra. Uno di quei luoghi dove il Tempo si ferma a raccontarti le sue fiabe sentenziose. L’ultima volta cominciammo a chiacchierare con Firuz, uno studente, uno di quel 65 per cento di iraniani che ha meno di 30 anni. Un ragazzo medio in tutto, si potrebbe dire. A partire dai soldi, la sua famiglia non fa parte di quella ristretta nomenklatura vergognosamente ricca, né delle immense coorti dei dannati della terra. Firuz, come tanti suoi coetanei, è un uomo di città, come sono gente di città, di suk, di bazar, di scambio e di commercio un po’ tutti i musulmani. Questi discendenti di nomadi, questi eredi degli orgogliosi cavalieri degli altipiani fanno parte di una civiltà urbana che ricorda ancora quella delle città antiche, con il vivere quotidiano a sovrastare ogni altro problema. E i fanatici volontari della morte, i bassiji che a ondate andavano ad aprire varchi nei campi minati, a bloccare con la carne l’acciaio dei tank iracheni? Sono storia, sono altro.

A dire il vero la strada consentirebbe benissimo di evitarla. Ma sarebbe un errore, Yazd è la città dove forse sopravvivono i monumenti più interessanti dei pochi zoroastriani rimasti in Persia. Già perché non è vero che tutti i seguaci del buon dio Ahura Mazda, o mazdei, siano fuggiti in India, dove sono noti come Parsi (persiani, appunto). Anche qui rimangono i seguaci di una religione e di una civiltà che furono quasi il sinonimo di Iran. A Yazd oltre alle solite (belle) moschee dal rituale nome di Masjid e-Jumah (moschea del Venerdì) e a quello insolito di Moschea del Tempo e dell’Ora (niente di escatologico, c’era un antico orologio astronomico), si va per gli altari del fuoco dove, come ai tempi di Dario e di Serse, di Ardashir e di Kusraw Anushirvan brucia ancora la pura fiamma al centro di un bacile di bronzo. Il fuoco, accessibile solo ai sacerdoti che lo alimentano con la bocca velata perché nemmeno il loro fiato possa renderlo meno puro. Ci sono in tutto l’Iran molti antichi altari del fuoco, alcuni dei quali imponenti, come quello di Pasargade o di Naqs i-Rustem. Ma là è archeologia e qui è vita. Ecco perché l’altare di Yazd, anche se invisibile ai più, ha tanto fascino.

E un fascino ancora maggiore hanno le Torri del silenzio. I mazdei ritengono che un cadavere possa contaminare la terra in cui è sepolto, l’acqua in cui è gettato, il fuoco che lo consuma. Ecco quindi le Torri, dove vengono esposti i corpi che in breve tempo sono spolpati dagli avvoltoi, che lasciano solo le ossa a calcinarsi al sole. Ossa che finiscono nel pozzo centrale della torre a sbriciolarsi. Nessuno che non sia uno degli addetti alle torri, si dice, ne ha mai visto l’interno. Ma è a Yazd che abbiamo scoperto un primato mondiale dei mazdei, piuttosto ignoto in Occidente: l’invenzione del condizionatore d’aria forse duemila e cinquecento anni prima che l’idea germogliasse dalle nostre parti. Grandi torri di pietra catturano l’aria fresca dei monti e delle valli. Attraverso condotti sempre più stretti la convogliano, accelerandola (il principio mi pare essere quello del tubo di Venturi) fino a terra, dove nel caldo terribile dell’estate una brezza fresca e veloce è davvero un dono di dio, con qualsiasi nome lo si chiami. E’ singolare come l’uomo da queste parti abbia saputo usare i suoi limitati mezzi tecnici e l’immensa fantasia intellettuale per limitare lo strapotere della Natura. Qui sono nati anche i kerez (o khanat), i grandi canali che scorrono per decine e decine di chilometri sotto terra per portare l’acqua dai monti in modo da evitare che la maggior parte andasse persa per evaporazione e il terreno si coprisse di sali. Un grande canale sotterraneo, un kerez, duemilacinquecento chilometri più a occidente, rifornisce ancora oggi di acqua il più grande e conservato castello crociato di Siria, il Krak dei Cavalieri. Si dice che il canale, scavato con tecnica iranica (la manodopera fu fornita forse da quel misterioso personaggio che era il Vecchio della Montagna, capo della setta degli Assassini) sia stato colmato in parte con ghiaia grossa e permeabile, in modo da fare filtrare alle cisterne dei cavalieri crociati acqua già depurata.

Anche qui, come capita spesso, bisogna seguire la propria strada, mentre invece sarebbe più bello vagabondare, scendere ancora una volta a sud. Fino a Shiraz, madre di giardini di rose e di poeti, fino alle rovine di Persepoli, la città fatta per vivere un solo giorno, quando, all’equinozio di primavera, tutti i popoli dell’impero achemenide venivano con i loro tributi ad assistere al rinnovarsi dell’unione del re con il Sole, cioè alla fravashi, la grazia carismaticia diremmo oggi, di Ahura Mazda. Persepoli resta ancora meravigliosa con le sue sculture, i capitelli zoomorfi, le altissime colonne della Apadana, la sala delle riunioni più impressionante della storia. Persepoli, si sa, fu incendiata da Alessandro Magno e fu un crimine. E come capita spesso crimini, catastrofi naturali e non, distruzioni sono un dono per gli archeologi (e per i posteri). Si sarebbe mai conservata Persepoli senza la distruzione macedone, che protesse tutto sotto una fitta coltre di ceneri (lo stesso discorso di Pompei, insomma)? E invece di andare a est, verso il deserto del Belucistan, verso il secco, la sabbia, i doganieri sgradevoli, i cibi pessimi e l’acqua salmastra sarebbe più bello tornare a Pasargade, alla semplice tomba di Ciro il Grande, un dado di pietra solitario e una breve iscrizione. E poi raggiungere la vicina Naqs i-Rustem a vedere ancora una volta i bassorilievi achemenidi e a provare ancora una volta un lieve senso di irritazione di fronte a quelli sasanidi, con re Shapur che umilia gli imperatori romani. O magari provare lo stupore del primo incontro con Ahmad, capo del personale di Persepoli, che al nostro richiamo rispose: “Un momento, ora si viene costì e vi si spiegac. E a chi gli chiedeva se fosse stato a Firenze rispondeva: “O come la ha fatto a capire?” e poi ti raccontava degli anni di studio passati in Toscana, all’Opificio delle Pietre dure. E sarebbe anche bello scendere giù fin nel Golfo, per vedere le nuove isole turistiche di cui tutti parlano con una luce golosa negli occhi. Ma la via deve andare incontro al sole che sorge, a oriente, anche se la strada diretta per l’Afganistan è chiusa e non potremo rivedere Ghazni e i suoi minareti (ammesso che ci siano ancora, una voce li dà per distrutti dai sovietici), e Kandahar, fondata anch’essa da Alessandro (il passaggio fu da Alexandria a Sikandahar a Kandahar), e Kabul, e Jalalabad dai cento giardini. Ma così è, per raggiungere, anche per via cartacea, l’Afganistan sceglieremo, come sempre negli ultimi vent’anni, la via da est verso ovest. Peshawar non sarà solo la tappa di arrivo, ma anche di partenza.

Yakub lo conobbi così, un po’ servile, un po’ ironico, appena uscito dall’aeroporto di Peshawar. Intanto mi faccio portare in albergo, poi vediamo, pensai. Primo fatto positivo, Yakub parlava un dignitoso inglese, secondo, era mezzo afgano e, oltre all’urdu, lingua locale, non aveva problemi nemmeno con il pashto (o pakhto, o pathan, è sempre la stessa lingua). Poi c’era una simpatia a pelle, che divenne scelta quando gli dissi il mio nome: “Marco? Come Marco Polo”. Per i giornalisti che volevano entrare in Afganistan era necessario stabilire un contatto con la resistenza afgana e per farlo bene e in tempi stretti ci voleva uno che sapesse trovare gli uffici, i comandi, le persone. Yakub aveva tutte queste doti e anche altre. Fu lui a portarmi per la prima volta a Darra, la città delle armi. Un intero paese dove si producono, si provano, si vendono, si copiano, si inventano solo armi. Una sola strada lunga un paio di chilometri dove ogni negozio ti offre copie di mitra, pistole, fucili, mitragliatrici pesanti coscienziosamente copiate. Sull’efficienza delle canne, ricavate a volte da un pezzo di camion, non giurerei troppo. Ma siamo noi forse a essere maligni, visto che la coda di quelli che compravano e provavano, sparando in aria, era infinita. Darra, a cavallo tra la North-West Frontier Province pakistana e le cosiddette zone tribali, in teoria autonome, e comunque dotate di leggi, regole e polizia proprie, è da sempre il posto delle armi. I Pathan, Pakhtun, Pashtun (la parola esatta, al plurale, sarebbe Pashtuna, ma è buona norma usare il singolare indeclinabile con l’inglese, figuriamoci con il pasthun, c’è già abbastanza caos così, tra il nome del popolo e quello della sua lingua), hanno come passione artigianale quella di produrre armi, come gloria virile quella di portare armi, come abitudine culturale quella di usarle. E Darra è il magazzino, il laboratorio delle tribù pashtun: davanti i negozi con l’amabile vecchietto che vende e consiglia il gentile cliente. Dietro i soliti sordidi laboratori, dove, tra macchine rudimentali e apparentemente del tutto inadatte, uomini robusti guidano il lavoro di ragazzini emaciati. Ogni tanto la polizia chiude la strada per Darra, poi la riapre. Noi siamo sempre riusciti ad arrivarci, in un modo o nell’altro. E purtroppo ci arrivano anche i turisti, come quella professoressa emiliana che a Darra si comprò, a meno di un dollaro l’una, tre biro-pistola calibro 7,65, perfettamente funzionanti e provò a portarsele in Italia dentro al bagaglio a mano. Al detector dell’aeroporto la individuarono subito e ci fu un discreto daffare per non farle scontare i due anni di galera che, oltre ai tremila dollari di multa, le erano stati inflitti a tempo di record (“Ma erano scariche”, diceva la demente). Le armi di Darra si guardano e non si comprano, a meno che non si vogliano conoscere le carceri locali (al cui confronto, ci assicurano, quelle turche sono l’Hilton). Un’altra cosa che non andrebbe comprata è la produzione che viene offerta da qualche anno dall’altro lato dell’unica strada di Darra: decine e decine di negozi dove vi offrono hashish, oppio, erba, ganjia. Poco fuori la polizia aspetta con ansia i turisti al ritorno, se non ti trovano nemmeno una caccola di afgano nero ci restano quasi male.

La strada legale per l’Afganistan lascia i quartieri centrali di Peshawar e va verso ovest. Arrivati alla Torre dei sikh, l’ultimo posto di blocco fisso, si può proseguire verso il Kyber Pass, quello dei film anni Cinquanta, con Tyrone Power che faceva il bell’ufficiale di Sua Maestà, il passo di Gunga Din, quello dei racconti di Kipling. La Torre dei sikh è legata alla presenza di due italiani venuti a cercar fortuna fin quaggiù. Il primo era un modenese, si chiamava Giovanbattista Ventura e aveva combattuto nelle armate di Napoleone, seguendolo fino all’ultima avventura di Waterloo. A quel punto aveva preferito prendere la via dell’Oriente piuttosto che subire la Francia della Restaurazione o, peggio, finire i suoi giorni a Mòdna sotto le grinfie degli scherani del duca. Generale al servizio del maraja sikh di Lahore, si era guadagnato una notevole fama come comandante di artiglieria, partecipando alle vittoriose campagne che portarono i sikh fino al Kyber. Ma il personaggio che ha lasciato maggiore memoria di sé è stato Abu Taleb, “traduzione” islamica del cognome Avitabile. Anche Avitabile era un ex ufficiale di Murat, che fu prima al servizio dello shah di Persia, poi passò a comandare le armate sikh fino a divenire governatore di Peshawar, giudicato allora il posto più selvaggio del reame. La sua storia viaggia ancora nelle vie di Kissah Qwani, il bazar dei cantastorie. Si racconta che sia arrivato in città con molta corda e una scorta tra le risate dei pashtun. Che risero meno quando Abu Taleb fece impiccare tutti i ladri rinchiusi nelle carceri, poi tutti i saccheggiatori. Poi si occupò di quelli che spargevano voci false, che oziavano in giro e via impiccando. Alla fine Peshawar era completamente in pace, una pace da cimitero, è vero, ma pur sempre una pace. Avitabile doveva essere un bell’esempio di personalità divisa: cordiale ospite, generoso anfitrione con i viandanti e i visitatori, soprattutto se europei, era di una crudeltà fantasiosa e, ahimè, decisamente estrema nell’inventare tormenti e esecuzioni “esemplari”. Pare che le sue passioni principali fossero le belle fanciulle e l’oro. Certo che, quando se ne andò per tornarsene a Napoli, era immensamente ricco. E proprio a Napoli il destino gli presentò il conto. Avitabile, che di nome faceva Paolo, ed era nato ad Agerola sulla montagna che domina Positano, tornò in patria accolto con tutti gli onori da re Ferdinando, si sistemò in una magnifica proprietà che si era comprato nella terra natale. Morì nel 1850, a 59 anni, si dice avvelenato dalla nipote, che aveva sposato quando la ragazza aveva appena 12 anni, e dall’amante di lei. Contrappasso?

Peshawar è stata per quindici anni la retrovia della guerriglia afgana antisovietica, molto più di Quetta in Belucistan e di Mashad in Iran. Città di intrighi, faide e bazar, di orologi russi e di lapislazzuli, di spie e pezzi archeologici e di patacche clamorose. Porta tra India e Grande Asia, posto dove ogni invasore, ogni conquistatore è passato. E il passaggio non poteva avvenire che dal Kyber, fiancheggiando le case sparse qua e là sulle aspre montagne e cintate tutte da alte mura, come fortini. E proprio dal Kyber è sceso anche l’ultimo dei conquistatori che portasse in sé riunito il sangue di Gengiz Khan (da parte materna) e di Tamerlano per discendenza paterna, Babur la tigre. Con una singolare analogia che lo accomunò ai suoi poderosi antenati. Anche Babur entra nella storia come un fuggiasco, cacciato giovanissimo dai possessi paterni in Asia Centrale. A vent’anni è padrone di Kabul e non molti anni dopo lo troviamo signore di Delhi, dove fonderà la dinastia dei Gran Moghul, signora di quasi tutta l’India, fino a che il colonialismo inglese non la esproprierà. Babur, che di nome faceva Zahiruddin, era un guerriero terrificante, impasto di astuzia antica, da nomade, e di modernismo (alla battaglia decisiva contro gli indiani schierò cannoni e fucili portoghesi). Ma fu anche poeta, cultore di giardini, progettista di fontane. Fu suo nipote Akbar a consolidare l’impero e a dimostrare che un grande non aveva bisogno di ubbidire né ai preti musulmani né a quelli indù. E’ ad Akbar che si attribuisce l’invenzione dell’urdu (la lingua dell’esercito, stessa radice della parola orda, del turco ordu, esercito, e il latino ordo?), una sorta di lingua franca per far comunicare i soldati delle sue armate, composte da turcomanni, iranici, mongoli, indù, montanari del Pamir e dell’Hindukush. L’Afganistan per secoli ha avuto la funzione di cassa di compensazione, dove si rovesciavano i fiumi delle civiltà (e delle barbarie) più diverse, dove giacevano per riorganicarsi, per rielaborarsi e poi per rovesciarsi di nuovo fuori in tutte le direzioni. Nel 1700 tribù pashtun conquistarono la Persia e un turcomanno afgano, Nadir Shah, costruì poco dopo un impero che andava da Delhi al confine con i domini ottomani. Sarà così fino a ieri, lo stesso impero inglese combatté, e perse, tre guerre contro gli afgani tra il 1838 e il 1919.

Un tempo viaggiare per l’Afganistan era forse uno degli stimoli più forti che l’amante della storia, delle lingue, del mistero potesse ricevere. Alessandro, Gengiz Khan, l’arte della Grecia e quella buddista, i Gran Moghul e i capitribù si mescolavano dai deserti ai grandi fiumi, che separavano questo pezzo di montagna dalla grande pianura asiatica dell’Urss. E il Wakan, come un dito, partiva dall’Afganistan per toccare la Cina. Cosa si fosse perduto con l’invasione sovietica del 1979 (e forse ancor prima, con il colpo di Stato repubblicano del 1973) cominciai a capirlo negli anni in cui facevo base a Peshawar per passare la frontiera con i mujahiddin. Il primo segnale lo ricevetti al museo di Peshawar. Non ha pezzi esteticamente superiori, come quello di Lahore (il famoso Buddha che digiuna, arte greco-indiana), ma l’arte Gandhara, questa sintesi prodigiosa di ellenismo e buddismo, di grecità e di India, di Asia e Europa, brilla in tutta la sua evidenza. I pezzi trovati nel monastero di Taqt i-Bahi, il grande complesso buddista, meraviglia del Pakistan, sono una scoperta per tutti. Ma soprattutto, oltre al Gandhara, il museo ospita due sale uniche, dedicate ai Kalash, gli abitatori del Nuristan, che, fino al 1890, era noto come Kafiristan, la terra degli infedeli. Uno dei ripostigli dove gli indeuropei più antichi si erano conservati come millenni fa, una terra dove giganti dai capelli chiari ti spiegano di discendere dai soldati di Sikandar, che è poi sempre lui, Alessandro Magno, o almeno da quelli di Milinda, che è poi il re greco-battriano Menandro. E lì vedi i mitici cavalli a due teste, segno del coesistere dei due mondi, terreno e ultraterreno. E poi le armi e gli strumenti della vita quotidiana, i gioielli e gli idoli di legno, che ti muovono qualcosa dentro come un’antichissima foto di famiglia riapparsa su una bancarella di un mercato delle pulci. Esci dal museo sapendo che hai visto uno spaccato dell’Asia che fu. Prima che il Kafiristan fosse islamizzato dall’emiro di ferro, Abd er Rahman, l’uomo che morendo aveva sussurrato: “Diffidate sempre dei russi”, 77 anni prima che i fatti dimostrassero che aveva ragione, tanta ragione. Ma tant’è, l’Afganistan non fu sempre il primo obiettivo del Grande Gioco, la lotta che oppose gli imperi russo e inglese e poi quello rosso a quello a stelle e strisce? Uno dei più bei romanzi di formazione, Kim, non ruota forse tutto intorno al Grande Gioco?

Ma ci fu un secondo segnale: nel 1988, quando la ritirata dei russi era ormai una certezza, tutta la resistenza afgana organizzò allo stadio di Peshawar un grande buzkashì. Il buzkashì è il gioco nazionale afgano: due squadre a cavallo (o a volte singoli cavalieri) cercano di sottrarsi una capra o un vitellino decapitati e di portarli fino oltre una linea, dentro un cerchio, per “fare gol”. A parte che la capra (o il vitellino) è stata lasciata tutta la notte a mollo e pesa un’esagerazione, i chapandaz, i giocatori possono prendere a nerbate l’avversario, urtarlo con il cavallo, cercare di disarcionarlo. Tanto che ogni chapandaz porta uno speciale soprabito con le maniche lunghissime, a protezione delle mani (chi ne vuol sapere di più su questo misto di rugby a cavallo, di polo e di battaglia legga un bel romanzo di Joseph Kessel, Cavalieri selvaggi). Ospite d’onore, l’ambasciatore americano (i missili antiaerei Stinger, americani, avevano fatto la differenza nella guerra contro i sovietici, che avevano visto cadere in modo preoccupante i loro elicotteri corazzati MI24, incubo dei mujahiddin), protetto da buffissimi armadi biondi, travestiti da afgani, con tanto di pakul (il tipico cappello simile a quello di Leonardo da Vinci), shelwar kamis e pattù (il mantello). Improvvisamente si fece un gran silenzio e i giocatori entrarono sul terreno dello stadio, facendosi avanti per onorare le autorità. Erano decine e decine di cavalieri, che avanzavano lentissimi, attaccati tra loro come un branco di sardine. Volti gialli e occhi a fessura di uzbeki, facce marrone e occhi azzurri di tagiki, i colbacchi neri e riccioluti dei karkalpaki, quelli di astrakan delle tribù pakistane, turbanti bianchi, pakul nuristani, zuccotti quasi cinesi e tutti i colori di pelli, tutti i tagli di occhi. Ma soprattutto quei cavallini resistentissimi stretti l’uno all’altro, che avanzavano lenti come un solo corpo. Fu come un lampo, dovevano essere così i tumen (reparti) di Gengiz, un intero continente a cavallo, inarrestabile, fatto di cento razze, mille usi diversi e un solo modo di vita. Era l’Asia del passato che si congedava da noi, dalla storia.

Peccato che l’ambasciatore americano e i giovanotti della Cia non abbiano avuto le stesse sensazioni e non ne abbiano tratto le conseguenze. Pochi anni dopo, crollato il governo collaborazionista di Karmal, di fronte alle inevitabili e consuete risse interne della resistenza afgana gli americani e i loro amici pakistani puntarono tutto sui taleban, sorta di barbarie uscita da un medioevo sunnita senza speranza, remissione, fede, possibilità che non quella di esportare droga e terrorismo per conto terzi. Nei disegni americani i taleban (come già in precedenza l’Hezb i-Islami dell’assassino Hekmatyar) dovevano servire a unificare l’Afganistan, in modo che ci potessero passare senza problemi gli oleodotti dell’Asia Centrale, per far arrivare al mare il gas e il petrolio kazako, eccetera. Il piano non solo è fallito ma, come sempre, si è ritorto contro l’America, quello stesso paese dove si è formato Osama bin Laden. Peccato che le scempiaggini geopolitiche della Grande Potenza Unica e Regnante di solito, oltre a rimbalzare contro di lei, distruggano intere nazioni. Come il povero Afganistan, Somalia d’Asia, dove gli Usa hanno completato l’opera dell’Urss.

Così, non resta che ricordare quando. Quando si poteva ancora percorrere l’Afganistan, quando si poteva ancora seguire la strada dei mercanti di lapislazzuli, di smeraldi e di tormaline. A differenza di quella dell’oppio, mantenuta ben viva dagli uomini di Mullah Muhammad Omar, il capo taleban uso a prendersi gioco dell’Onu, e del suo delegato Pino Arlacchi, la via delle pietre preziose era quella della valle del Panjshir (i cinque leoni), feudo, patria e rifugio del tagiko Ahmad Shah Massud, il miglior combattente antirusso di tutta la guerra di liberazione, il solo che ancora oggi tenga testa ai taleban. La strada degli smeraldi e del magnifico lapislazzulo (zamurud e laijivarden, come si dice in dari, che è poi il persiano degli afgani, ma come suonano bene i nomi persiani delle pietre preziose), esattamente la stessa delle carovane medievali, e forse di quelle antichissime che portarono la pietra blu come il cielo fin nei templi e nei palazzi di Ur e Babilonia. Quando tornai a casa e aprii le tasche interne del giaccone imbottito cinese, rivelando l’azzurro tempestato di polvere d’oro dei lapis e il verde scintillio degli smeraldi, ripetevo lo scherzo che i Polo fecero ai loro parenti che li ritenevano poveri in canna. Le mie figlie e mia moglie fecero forse la stessa faccia di quelli di casa Polo, ma la loro gioia di riavermi era mille volte più sincera. E purtroppo i miei smeraldi e lapis erano in numero assai minore di quelli di Marco, Matteo e Niccolò (Polo). Una via che si chiude, una specie di burka (il mantello o cappa, che copre le sventurate donne afgane da capo a piedi, con una sola grata davanti al volto per respirare e intravvedere qualcosa) calato non solo su un paese ma su un cammino dell’uomo. (…)

28 settembre 2001

(da Ideazione 4-2000, luglio-agosto)




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