Berlino, il sogno (troppo) costoso di una capitale

Berlino - Il sogno è finito in bancarotta. O quasi. Dieci anni di progetti, speranze, illusioni sono spariti nel cono d'ombra di una crisi economica e poi politica che a Berlino ha lasciato il segno. E' il tempo del disincanto e delle recriminazioni, dopo due lustri passati a inseguire i cantieri della ricostruzione, laddove si disegnava il futuro di una capitale che avrebbe dovuto riprendere il suo posto al centro dell'Europa. Berlino, dodici anni dopo la caduta del Muro, è una città che ha smesso di correre e si è fermata a riflettere. La rocambolesca caduta del borgomastro cristiano-democratico Eberhard Diepgen (al potere da 17 anni) in seguito alla crisi finanziaria della città segna il tono della campagna elettorale in corso, che è durissima, come si conviene quando è in palio una poltrona importante. "Berlino deve risparmiare - è l'ironico messaggio dei socialdemocratici - cominciamo con il risparmiarci la Cdu". Ironia facile, si dirà. Ma che è in sintonia con l'umore del cittadino, una volta tanto stanco di progetti faraonici, di cuori gettati oltre l'ostacolo, di meraviglie urbanistiche con le quali stupire il mondo.

Da un po' di tempo è tornato di moda il personaggio berlinese dei bozzetti di Heinrich Zille, l'uomo della strada ironico e sferzante, che non veste più i laceri abiti del sottoproletario ma quelli più casual della brutta moda tedesca da bancarella: "Arrivano i politici di Bonn? Saranno loro a doversi abituare a noi, mica noi a loro", e via blaterando. Dopo inaugurazioni di edifici a tamburo battente, che hanno segnato la vita cittadina negli ultimi anni, adesso è venuto il momento della nuova cancelleria, il simbolo più alto del potere politico tedesco. Un immenso quadrato bianco e grigio, di cemento e vetro, costruito dal nulla di fronte al vecchio Reichstag, il nuovo parlamento. La Casa Bianca tedesca, aveva preconizzato con enfasi Kohl prima di cedere il passo al suo oppositore Schroeder. La lavatrice l'hanno ribattezzata con il solito sarcasmo i berlinesi. Sarà difficile che la politica tedesca trovi un po' di pace in questa lavatrice.

Per il momento il binomio Berlino-politica non sembra aver giovato a nessuno. La nuova capitale si è adagiata nella morbida e burocratica atmosfera che la politica s'è trascinata appresso, dimenticando di giocare le proprie carte su altri tavoli che non fossero quelli del lobbismo. Gli affari, ad esempio. O l'impresa. Ormai Berlino sembra destinata a produrre solo politica mentre le leve che muovono il mondo, quelle economiche e finanziarie, agiscono altrove, a nord, nel cuore del Baltico, o a ovest verso Francoforte e la Renania. Dal canto suo la politica sembra essere stata colpita dal virus dell'incertezza e dell'instabilità, una volta abbandonata la quiete provinciale di Bonn. Prima lo scandalo dei fondi neri della Cdu, poi i continui rimpasti del governo di Schroeder, quindi le irrequietezze dogmatiche dei verdi appena temperate dall'abilità di Fischer, infine la bomba ad orologeria dei comunisti della Pds, che qui a Berlino giocano in casa, mentre a Bonn sembravano un pesce fuor d'acqua. Per non citare la crisi a livello locale. Ce n'è di materiale per parlare di sindrome berlinese e rimpiangere i tempi ovattati della Repubblica di Bonn.

Che sotto i riflettori di una rinascita da grandeur Berlino nascondesse i timori di un passo troppo lungo era in qualche modo riconoscibile. Da piccoli, apparentemente irrilevanti segnali. Il mega aereoporto a sud della città ad esempio, un progetto faraonico dai costi abnormi, messo in soffitta dopo un'iniziale infatuazione. O la risistemazione della Alexanderplatz, con la costruzione di grattacieli in stile newyorkese, rimasta solo sui poster ad uso e consumo dei turisti. Nel frattempo il primo segnale fu lo spegnimento dei lampioni sulla Avus, la lunga autostrada cittadina che taglia la parte occidentale da nord a sud. Di notte non si vedeva più nulla e fu un colpo per l'orgoglio dei berlinesi, abituati a scorazzare sotto i riflettori ai tempi del Muro. Oggi Berlino appare come la sua Avus. A fari spenti. Molto è stato fatto e la città ha indubbiamente sostenuto (sorretta dall'intero paese) uno sforzo sovrumano. Ma in questi dodici anni è stata suonata solo una corda della sinfonia berlinese, quella della metropoli cosmopolita in perenne movimento, sempre alla ricerca del nuovo più nuovo, dell'eccentrico più eccentrico. Ora è venuto il momento di suonare anche l'altra corda, quella del provincialismo strafottente e disincantato, più rivolto al cortile di casa che ai destini del mondo. Berlino chiude il sipario. Lo show è finito. Magari in attesa che torni qualcuno a riaccendere i lampioni sulla Avus. (p. men.)

7 settembre 2001

pmennitti@ideazione.com


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