Reportage da Belgrado. La dolce vita di una capitale risorta
di Alessandro Napoli

Davanti ai controlli di frontiera un cartello mi avverte che sto entrando nella Repubblica Federale Jugoslava. Ma è uno Stato che non esiste più. Oggi c’è l’Unione fra Serbia e Montenegro, e sul vecchio sticker YU gli automobilisti che mi stanno davanti hanno incollato il nuovo, SCG, che sta per Srbija i Crna Gora. Un altro cartello resta lì, segnalando in tre lingue le restrizioni all’importazione e all’esportazione di valuta. Anche queste non ci sono più, se ne sono andate dopo che il vecchio dinaro è stato sostituito dal nuovo, che ora è divisa convertibile. Il cartello resta, come l’altro. Poi sono davanti allo sportello dove si fanno i controlli, e sulla vetrata c’è scritto „Montrez les passeports”, così, in francese. Una lingua che oggi non parla quasi nessuno qui, sostituita dall’inglese, dal tedesco (sempre popolare) e dall’italiano. A qualche centinaio di metri sulla destra stanno costruendo però il nuovo varco di frontiera, e quando sarà pronto ci saranno anche i cartelli nuovi. E’ un progetto finanziato dall’Unione Europea.

Due-tre chilometri dopo la frontiera entro su una strada a due corsie ma moderna e sicura, riservata ai veicoli a motore e senza incroci a raso. I sovrappassi sono a due campate, costruiti per quando si farà il raddoppio. Per il momento la strada così come è basta per il traffico che la usa. Incontro molti Tir con targa turca e con targa greca, un buon segnale: la pacificazione è andata molto avanti e ora si possono attraversare le frontiere senza problemi. Una settantina di chilometri più in là, in mezzo alla campagna della Vojvodina (cioè a campi di girasole e di barbabietola da zucchero che si stendono per chilometri), mi fermo a una stazione di servizio per fare rifornimento di benzina e di cibo. Motel modernissimo con ristorante e fast-food. Pulizia maniacale, ristorante pienissimo, e non di stranieri. Quelli semmai restano nel parcheggio, mangiando i sandwich che si sono portati da casa per risparmiare. Si fuma liberamente, non c’è distinzione fra zona fumatori e zona non fumatori, e poi fumano tutti, compresi i camerieri.

Belgrado è a centoventi chilometri di distanza, ma in macchina ci vogliono quasi due ore perchè i limiti di velocità vanno rispettati e i controlli sono severissimi. Si annuncia con qualche decina di chilometri di anticipo, quando sono ancora nella pianura pannonica. Le guerre balcaniche e le enormi difficoltà economiche degli anni Novanta hanno ingrossato la banlieue, dove immigrati e rifugiati hanno costruito case che assomigliano nella loro precarietà e in una certa inclinazione all’uso di copie in gesso della Venere di Milo e dei sette nani a quelle delle borgate nate attorno Roma negli anni Cinquanta e Sessanta. Segue l’ingresso in un’autostrada a quattro corsie con un traffico intenso come sul Raccordo Anulare di Roma nell’ora di punta. Ai lati l’urbanistica e l’edilizia socialista degli anni Settanta e Ottanta. Ordine e stile alla maniera della Bauhaus, un po’ come nelle periferie di Praga e Budapest, ma sui balconi ci sono i panni stesi ad asciugare, come a Napoli. Benvenuto in Serbia, mi sento in un paese davvero „jugo’”, cioè del Sud. E l’impressione si rafforza quando entro nel centro. Sulla Terasije, il grande boulevard, c’è una folla come nei corsi delle città mediterranee, gente che passeggia, è fuori di casa anche se non ha una cosa specifica da fare. Fa un certo effetto per me che vengo dalle austere folle delle capitali dell’Europa Centrale vedere tante persone vestite alla moda come per le strade del centro di Madrid, Roma o Napoli.

La Mihailova è simile a via Dei Mille o a via Condotti o alla calle Serrano, cambia solo l’architettura. Per il resto è una concentrazione di boutiques delle griffes italiane e francesi, comprese quelle della fascia più alta. E i negozi non sono vuoti di clienti. Chi non può permettersi di spendere una fortuna in un solo colpo, scarpe e vestiti li compra a rate, ma all’eleganza ci tiene. C’è dovunque una densità elevata di gente in giacca e cravatta, ma soprattutto nei locali pubblici. Chiedo a più d’uno da quando non va all’estero, e la risposta più frequente è da dieci-dodici anni. E non parliamo della sera. Ristoranti strapieni, decine di minuti in piedi a caccia di un tavolo libero. Non ci sono soldi, ma la gente fa quello che può per continuare a cadere in piedi. Doppio, triplo lavoro e parenti dappertutto che ti aiutano, ma ad aiutarti sono soprattutto quelli con le macchine con targa austriaca o tedesca.La jeunesse locale non esce prima delle ventitrè, come in Italia o in Spagna. Un giro nei baretti e poi almeno una volta alla settimana in discoteca. Senza lavoro, con le scarpe griffate ai piedi. Poi il ritorno a casa, al mattino presto, ma in autobus perchè nella gran parte dei casi da quando la Zástava di famiglia ha esalato il suo ultimo respiro non ci sono stati soldi per comprare una nuova macchina. Così alle due e mezzo le strade sono piene di ragazzi in cerca di un mezzo pubblico per tornare a casa, dove ci saranno qualche minuto prima che padre e madre si mettano in attesa di un altro mezzo pubblico per andare a lavorare. Il resto della Serbia è molto meno affluente nei suoi comportamenti, ma se solo potesse quello che farebbe è tentare di godere la vita, come si tenta di fare nella capitale. Capitale con una minoranza di neopluti che ha tanto e una maggioranza di aspiranti benestanti che ambisce a vivere come in Europa Occidentale anzi come in Italia e fa l’impossibile per farlo. E perchè non dovrebbe avere il diritto di farlo? L’indomani sono in viaggio verso il sud del paese con Vesna e Mica. Un paese splendido che sta nei Balcani, cioè in Europa, non in un remoto angolo del mondo.

16 gennaio 2004


snapol@axelero.hu


 
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