Clark: la rincorsa del generale
di Alessandro Gisotti

Mezzo secolo dopo il repubblicano Eisenhower, un altro generale spera di insediarsi nello Studio Ovale della Casa Bianca. Cinquantotto anni, primo del corso ai tempi di West Point, Wesley Clark ha puntato fin dalle prime battute della sua campagna presidenziale – iniziata a settembre, decisamente in ritardo rispetto ai suoi rivali democratici – sull’immagine del leader senza macchia al servizio dell’America e dei suoi valori. Ieri in uniforme, nella giungla del Vietnam come tra gli insidiosi monti dei Balcani; oggi negli abiti civili del cittadino sceso in campo per offrire alla politica la sua esperienza trentennale di soldato. “Ho le idee chiare sulla strategia di sicurezza nazionale” ha dichiarato Clark in un’intervista alla Cnn, di cui è stato analista militare dal 2001 al 2003. Un leit motiv della campagna “Clark-for-president” (www.clark04.com). Durante un comizio, l’ex comandante supremo della Nato, ha chiarito questo punto avvertendo che, per tornare a vincere, il partito democratico “deve poter stare al passo con George Bush sulla sicurezza nazionale”. Tuttavia, proprio sul fronte della lotta al terrorismo, i tentennamenti di Clark sulla guerra in Iraq hanno offerto il fianco agli attacchi degli avversari. Howard Dean, fortemente contrario al conflitto, ha associato Clark all’establishment interventista di Washington. L’ex governatore del Vermont non ha, peraltro, perso occasione per ricordare le simpatie repubblicane del generale fino all’avvento della presidenza Clinton. Dal canto loro, i repubblicani hanno criticato la mancanza di decisionismo da parte di un uomo che pure dovrebbe essere abituato a fare scelte nette in tempi celeri.

Democratico clintoniano, e quindi un moderato sulle questioni economico-sociali, “Wes” - come lo chiamano amici ed ex commilitoni - ha il suo quartier generale nel nativo Arkansas, a Little Rock, patria di Bill Clinton. Proprio dall’ex presidente, che lo conosce da quarant’anni, o da sua moglie Hillary – potente senatrice di New York – si aspettava un pronunciamento ufficiale in appoggio al generale. Soprattutto dopo “l’endorsment” di Al Gore nei confronti di Dean. Per ora, però, i Clinton, molto accorti, non hanno mosso un passo, anche se, significativamente, l’ex presidente compare per pochi secondi in uno spot elettorale di Clark. I mass media americani si sono, comprensibilmente, concentrati sulla vita militare dell’homo novus della politica a stelle e strisce per scoprirne vizi e virtù. Sintetizzando i due atteggiamenti prevalenti con i quali gli americani guardano alla sua figura, il Washington Post ha titolato un portrait su Clark: “Per alcuni, un eroe; per altri un testardo ambizioso”. Se, insomma, il carisma del personaggio è indubbio ed è altrettanto innegabile il coraggio che lo contraddistingue (ferito in Vietnam, ha ricevuto una stella d’argento e due di bronzo al valor militare) alcuni osservatori fanno notare che i suoi modi da primo della classe lo hanno reso inviso a molti. Specie al Pentagono.

Emblematica, al riguardo, è la gestione dell’intervento militare in Kosovo. Assertore della “diplomazia coercitiva”, Clark ebbe un ruolo di primo piano nella decisione americana di colpire militarmente Belgrado. Non tralasciando di intessere, dai Balcani, un rapporto diretto con il segretario di Stato, Madeleine Albright, con buona pace del segretario alla Difesa, William Cohen. L’attivismo e la personalizzazione della crisi da parte del generale a quattro stelle venivano mal sopportati a Washington dai suoi superiori in divisa. Che non gradivano, allo stesso modo, il presenzialismo mediatico di “Wes” durante le operazioni militari. I contrasti si acuirono con il trascorrere delle settimane di bombardamenti sulla Serbia. Clark insisteva nel chiedere un intervento di terra. Ipotesi scartata categoricamente dai vertici militari con i nervi ancora scoperti per la mattanza di Mogadiscio di qualche anno prima. La fine della storia è nota: dopo 77 giorni di guerra aerea, Milosevic si ritirò dal Kosovo. Ma, paradossalmente, anche il vincitore Clark fu costretto ad un ritiro anticipato dalla carriera militare, richiamato in patria dal generale Henry Shelton, presidente del Joint Chiefs of Staff. Ferita, sostiene chi lo conosce bene, che a Clark brucia più delle pallottole che, a nord di Saigon, gli perforarono una gamba e una spalla.

Dopo i primi scossoni, la campagna presidenziale di Wesley Clark si è messa in carreggiata, conquistando consensi crescenti settimana dopo settimana. “Wes”, che nell’attesa dell’appoggio dei Clinton ha incassato quello della pop star Madonna, ha assunto ormai il ruolo di unico vero antagonista del “sinistrorso” Howard Dean. Sembra dunque che l’elettorato democratico si stia convincendo dell’inutilità di eleggere alla sfida di novembre contro Bush un candidato destinato a perdere in partenza, perché troppo liberal. Meglio allora il “centrista” Clark. Il generale, che ha deciso di non scendere in lizza nei caucus elettorali in Iowa, sarà invece della partita alle primarie in New Hampshire, il 27 gennaio. Ma è nella tornata del 3 febbraio che spera di imprimere la svolta alla sua corsa per la nomination. Quel giorno si voterà in molti Stati del sud e dell’ovest dall’Arizona al New Mexico, dalla South Carolina all’Oklahoma. Da queste parti, nell’America profonda, il passato con le stellette di Clark-il-generale ha ancora un forte appeal.

16 gennaio 2004


gisotti@iol.it

 
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