La “vittoria perduta” dei garantisti
intervista a Mauro Mellini di Eugenia Roccella

Chi si ricorda che in questo paese nel 1987 c’è stato un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (percentuale di votanti 65 per cento, percentuale di favorevoli oltre l’80 per cento)? Il referendum chiedeva che anche i magistrati, come tutti, rispondessero in sede civile dei propri errori, così da offrire al cittadino la possibilità di essere risarcito di anni passati in galera, di reputazioni e carriere bruciate, di vite spezzate e famiglie sconvolte. Sembra quasi una favola ricordare il tempo remoto in cui tutti – o quasi – i partiti erano d’accordo su questa ragionevole richiesta, e il povero, coraggioso Enzo Tortora era diventato simbolo di un tremendo errore giudiziario gestito dai giudici con esplicita arroganza. Il “sì”, dunque, stravinse, e per quelle mirabolanti evoluzioni della politica italiana che tanto colpiscono gli osservatori stranieri, il risultato fu che mai più un magistrato si trovò a dover rispondere in solido dei propri errori. Come poté avvenire, tutto questo? Come fu che una vittoria clamorosa si trasformò in una sconfitta storica dei garantisti? L’abbiamo chiesto a uno dei protagonisti della vicenda, Mauro Mellini, avvocato ed ex parlamentare radicale, ispiratore della politica referendaria, uomo spiritoso e sincero, ma soprattutto politico di incrollabili convinzioni garantiste come pochi. Mellini, che torreggia su di me dall’alto di un fisico che incute rispetto, è un torrente in piena, non faccio in tempo ad aprire il registratore, e a formulare la mia domanda, che ha già cominciato. Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati – ricorda Mellini – è stato un momento nodale, un vero e proprio punto di non ritorno, nel conflitto tra il potere politico e una magistratura divenuta eversiva. I segnali che si trattasse di un confronto decisivo c’erano tutti, ma non sono stati recepiti dalla classe politica della Prima Repubblica, la stessa che poi sarebbe rimasta schiacciata nello scontro. Se i politici si fossero comportati con più fermezza e lungimiranza (dato che tutti, almeno in teoria, erano per un voto favorevole), Mani Pulite non ci sarebbe stata.

Quando, secondo te, la magistratura sarebbe divenuta eversiva?

Si è trattato di un processo estremamente lungo, perché non è stato solo frutto di una precisa volontà della magistratura, ma anche della politica del compromesso storico. Negli anni si è realizzato un trasferimento di poteri quasi inavvertito, grazie all’abitudine di delegare la soluzione dei conflitti ad organi extrapolitici. Mi spiego meglio: se tu rinunci ad un principio autenticamente maggioritario della democrazia, ogni volta che c’è un conflitto su cui la mediazione è impossibile, l’unica via d’uscita è trasferirne la soluzione fuori dall’arena consociativa, fuori dalla politica e dal Parlamento, e affidarla a un potere “terzo”. Quando tra i componenti della consociazione si aprono scontri che non si possono risolvere con i soliti metodi (lo scambio di favori, la spartizione, la contrattazione, e così via) la cosa ragionevole in un sistema democratico sarebbe decidere attraverso un voto di maggioranza. Se questa opzione viene rifiutata a priori, non resta che trovare un mediatore esterno. Insomma, con la grande marmellata partitica della Prima Repubblica, si è man mano rinunciato al potere di contemperare le diverse esigenze degli agenti dei conflitti, che sarebbe compito squisitamente politico.

Fammi un esempio concreto.

Te ne potrei fare mille: uno è la legge sui fitti, in cui il contenzioso tra inquilini e proprietari è stato, in pratica, affidato al ricorso ai tribunali. Insomma, ai magistrati si è lasciato il compito di risolvere i conflitti in prima persona, mentre la loro funzione è applicare le leggi: dovrebbero essere queste ultime, le leggi fatte dal Parlamento, a risolvere i conflitti. C’è stato questo atteggiamento lassista, da “diamoci una mano, tanto stiamo tutti nello stessa barca”, così come c’è stato una sorta di arrangiamento penale per quanto riguardava le forme di finanziamento ai partiti; questo ha fatto sì che bisognasse, anche su questo terreno, stabilire un compromesso con la magistratura. La quale, infatti, non ha avuto niente da eccepire finché ha resistito il sistema consociativo, cioè il rispetto di equilibri concordati. 

Tu quindi non pensi che sia stato, come sostengono alcuni, un complotto?

Io non credo al complotto, io credo al golpe. E i golpe vincenti sono, in genere, proprio quelli che non hanno bisogno di un complotto. È stato un golpe organizzato all’esterno della magistratura, anche se, naturalmente, è stato necessario costituire il “partito dei magistrati” e dargli via libera. Però è opera politica. L’opinione corrente sottolinea il ruolo svolto da Luciano Violante, una delle grandi menti di un lavoro estenuante, estremamente abile e paziente. 

In che cosa è consistito, questo lavoro?

Pensiamo a tutta la rete protettiva che è stata stesa per via legislativa intorno ai magistrati. Basta che un somaro riesca, per fortuna, per caso, per raccomandazione, o per l’aiuto di San Giuseppe da Copertino, il protettore dei somari, a superare l’esame iniziale, e poi te lo ritrovi presidente di sezione alla Cassazione, perché questo è l’unico paese dove nella magistratura non c’è nessun vaglio per la progressione di carriera. Il Csm, poi, è una delle istituzioni più invereconde che esistano e ha dato prova di essere prono a tutte le piccole operazioni elettorali, le piccole beghe di potere, e agli interessi più biechi, nell’ambito della magistratura. La carriera dei magistrati ormai è determinata dalla politica, cioè dalla loro vita associativa. Chi ha posizioni di visibilità e di potere mica può andare a lavorare davvero, a fare sentenze; bisogna dargli una funzione direttiva, e così si creano personaggi che sono poi i capi veri, lo stato maggiore della magistratura. 

Dunque, secondo te è stato un lavoro politico fatto alla luce del sole, assolutamente visibile e che si poteva bloccare.

Come si può parlare di complotto se questa gente ha scritto libri e riviste per teorizzare il cosiddetto uso alternativo della giustizia? Il complotto si fa di nascosto: questi non hanno fatto niente di nascosto, soltanto che gli altri hanno sottovalutato il problema, o non hanno saputo interpretare i segnali, compresi alcuni che oggi sono esperti di giustizia per le forze politiche che stanno subendo l’attacco giudiziario. Come Giuseppe Gargani, che ha impostato la sua politica come se si potesse fare la concorrenza a Violante, senza che ci fossero le condizioni, anche lontanamente immaginabili, perché non risultasse un tentativo patetico e destinato al fallimento. Il complotto, se mai, è stato un altro.

Quale?

Il vero complotto è stato quello di alcune testate giornalistiche, o meglio degli interessi che dietro a quelle testate muovevano le proprietà. Sono d’accordo con l’analisi di Cirino Pomicino, cioè che uno degli effetti dell’ondata giustizialista è stato, non a caso, quello di eliminare i personaggi che si opponevano a una liquidazione delle partecipazioni statali in termini di svendita, di regalo ad alcuni privati: vedi il caso Sme. Naturalmente il più esposto su questo fronte all’epoca era Craxi, oggi è Berlusconi: sia perché allora era vicino a Craxi, sia perché nei fatti è riuscito a impedire che il golpe riuscisse. Non è un caso se proprio il processo Sme resta oggi il cuore della contesa. Ormai coloro che allora erano i direttori di Stampa, Corriere, Repubblica e Unità hanno ammesso pubblicamente che si consultavano tutti i giorni su come incanalare il torrente in piena delle rivelazioni, con annessi demagogici come le monetine a Craxi. Quello è stato un complotto, perché è stato fatto alle spalle dei lettori, e dietro il velo dell’obiettività apparente; mentre la magistratura, a onor del vero, non ha promesso a nessuno di essere obiettiva, anzi ha addirittura teorizzato la propria parzialità. 

Molti ritengono invece che la magistratura abbia allargato il proprio potere e il proprio raggio d’azione durante la lotta contro il terrorismo.

Non c’è contraddizione: anche il terrorismo ha avuto la sua parte. I magistrati hanno sempre menato vanto di aver “giurisdizionalizzato” (e già l’espressione dovrebbe essere alquanto allarmante) la repressione del terrorismo. La classe politica è stata ben lieta di scaricare alcune responsabilità politiche di questa azione affibbiando alla magistratura i poteri per la repressione antiterroristica. E poi si è replicato con la mafia, in peggio. Quello che sta succedendo oggi con la mafia è tremendo, pensa all’ipocrisia imbecille di scandalizzarsi perché hanno liberato Brusca: ma se liberano tutti! Ci sono persone condannate per calunnia nell’esercizio delle funzioni di pentito, che non hanno fatto un giorno di carcere. 

Torniamo al referendum. Chi è che lo ha pensato e voluto?

Quel referendum non è stato immaginato personalmente da Marco Pannella, anche se era una battaglia tutta dentro la politica e la cultura radicali. Ci sono state delle riunioni con il Psi, con Martelli, ricordo. E i socialisti, forse in maniera un po’ leggera, hanno concordato il quesito, senza capire fino in fondo cos’era la politica referendaria. In quegli anni, dominati appunto dal consociativismo, dall’intesa tra Pci e Dc, fare i referendum voleva dire sparigliare i giochi, far saltare i tavoli delle trattative. La strategia era quella di dribblare i partiti e portare lo scontro direttamente nel paese, nel corpo dell’elettorato, sottraendolo alle mediazioni delle forze politiche; quindi chi voleva questo doveva comportarsi, poi, di conseguenza. Purtroppo, alcuni si erano illusi che i referendum camminassero con le gambe proprie, non avessero cioè bisogno di una lotta politica che ne accompagnasse il progetto politico. Questo può succedere: alcuni referendum possono camminare, almeno in parte, con le gambe proprie. Ma se le forze che li sostengono non hanno una visione strategica chiara, non vanno da nessuna parte, se non da parti sbagliate. 

Va detto che l’idea del referendum nasce comunque con il caso Tortora: Enzo Tortora, presentatore televisivo di enorme successo, fu accusato da un “pentito”, e divenne protagonista di una clamorosa vicenda giudiziaria che impressionò profondamente gli italiani e suscitò una generale diffidenza nei confronti della magistratura. Tortora, sostenuto dai radicali, che lo portarono in Parlamento, fece una battaglia eroica, finita tragicamente con la sua malattia.

Certo, il referendum era il frutto di un’intuizione del presente, era legato al caso Tortora, ma affondava le radici nella storia: basta aprire la Storia della colonna infame per leggere che gli orrori della giustizia sono frutto delle passioni, che, come tali, non si possono abolire. L’unica cosa che si può fare è mostrarne gli effetti, perché la gente “li riconosca e li detesti”. Quello era un referendum manzoniano, era il tentativo di mostrare all’opinione pubblica, perché li riconoscesse e li detestasse, i risultati di un uso strumentale e irresponsabile (uso il termine in senso proprio) della giustizia. Per quella parte della magistratura che privilegiava il raggiungimento di finalità esterne all’amministrazione della giustizia (cioè effetti politici immediati, risanamento della moralità pubblica, prospettive rivoluzionarie) il fatto che Tortora fosse colpevole o innocente era del tutto ininfluente, l’accertamento della verità era superfluo. Ricordo un personaggio che attualmente siede, riverito, nella Corte di Cassazione di Perugia, che in un dibattito affermava: “Cosa vuole, Tortora è un borghese, noi ci dobbiamo occupare dei proletari”.

Forse i politici non hanno capito fino in fondo qual era la partita che si stava giocando perché Tortora era un uomo di spettacolo, un outsider, e il suo caso si poteva ricondurre alle forme tipiche dell’errore giudiziario, benché ostinato e clamoroso.

Invece era un’esercitazione, perché si è fatta la prova di come fosse possibile distruggere personaggi di rilievo pubblico anche notevole. Tra l’altro anche certe posizioni politiche di Tortora lo rendevano esposto: era un liberale, politicamente isolato. 

Qual è stato l’effetto del referendum sul piano di quello che tu definisci il “golpe”?

Il referendum, come ti ho detto, presupponeva che lo scontro ci fosse e fosse pieno. La magistratura l’ha capito, e il risultato immediato è stato un compattamento tra Pci e magistrati. La grande intuizione di Violante, alla fine, qual è stata? Tutta la storia dei pretori d’assalto, Magistratura Democratica, la teorizzazione dell’uso alternativo della giustizia era inutile se chi la sosteneva rimaneva isolato all’interno della magistratura. Invece l’operazione è stata condotta con spirito leninista, creando legami interni necessari, di interessi, di carriera, in modo che quei personaggi diventassero i leader di una corporazione compattata come tale. Quando interviene il referendum sulla responsabilità civile dei giudici, con la minaccia di colpire le tasche dei magistrati, di tradurre gli errori in esborso di quattrini, con la possibilità di colpire i meno preparati, i più ignoranti o i più ideologici, quelli che fanno cavolate dal punto di vista giuridico, la categoria si è chiusa a riccio; fatto normale e scontato per chiunque avesse previsto di fare il referendum. E qui è scattato il capolavoro politico di Luciano Violante, che avrebbe come detto ai giudici: Signori miei, il paese ne ha le scatole piene di voi! Senza il nostro sostegno politico venite inceneriti, altro che rivoluzione e uso alternativo della giustizia, non vedete come la pensa la gente? Certo, anche noi dobbiamo schierarci, siamo un partito popolare, dobbiamo tenere conto degli umori dell’opinione pubblica. Però faremo in modo che già prima di votare si stabilisca quale dovrà essere il trattamento della responsabilità civile, qualunque sia l’esito del referendum.

Questo voleva dire rendere il voto referendario perfettamente inutile.

C’è stato un vero e proprio atto di sprezzo nei confronti della volontà popolare: andate a votare, andate pure, tanto le leggi le facciamo noi. Addirittura fu modificata la legge sul referendum, per stabilire che l’esito del referendum avrebbe avuto effetto 6 mesi dopo il voto e non 60 giorni dopo (come era), per aver modo di completare l’iter della legge sostitutiva prima che l’abrogazione entrasse in vigore. Altro che leggi ad hoc, lì si è modificata la legge sui referendum per quello specifico referendum, cioè esclusivamente per fare un favore alla magistratura! Il Pci spostò il problema, e rassicurò i magistrati, dicendo loro: state tranquilli, noi inviteremo a votare sì al referendum, ma faremo una legge per cui sarà impossibile a chiunque chiedere una lira di risarcimento. Infatti quando si vota si arriva all’82 per cento dei favorevoli, e da quel momento non c’è più responsabilità civile dei magistrati, nemmeno quella scarsissima che c’era prima!

La cosa strana era che l’opinione pubblica era talmente sensibilizzata e schierata che tutti i partiti avevano preso posizione per il voto favorevole; si era verificata, almeno in apparenza, una strana forma di unanimità.

Sì, erano tutti d’accordo, tranne i repubblicani, e si è visto quanto poi i magistrati gliene siano stati grati! Del resto il proponente della legge sui pentiti, Gorgoni, repubblicano, qualche anno dopo c’è mancato poco che un pentito lo accusasse di essere il mandante di un omicidio… beh, immagino che anche lui si sarà pentito. Tra l’altro, per ironia del caso, era un discendente di Sigismondo di Castromediano, a cui, a Lecce, è intitolato il monumento al non-pentito: Castromediano era uno che, chiuso nelle prigioni borboniche, rifiutò i privilegi che gli venivano offerti in cambio della delazione.

E il Msi, perché era schierato con il fronte del sì, secondo te?

Be’, per sua storia il Msi non poteva certo essere giustizialista. Il Movimento sociale poteva pure essere, in qualche caso, forcaiolo ma mai giustizialista. Anche perché, essendo sempre rimasto ai margini del consociativismo, era stato spesso perseguitato dalla magistratura. Essere forcaioli vuol dire assumere un atteggiamento proibizionista, repressivo, genericamente a favore della durezza delle pene, ma non vuol dire voler attribuire alla magistratura poteri particolari. Del resto il giustizialismo può essere anche lassista: basta pensare quale fine faranno i mille certificati medici falsi delle hostess. Nessuno farà un ufficio speciale della procura di Roma per indagare sui reati di falso o truffa. Così come il garantismo può essere durissimo, come insegna la tradizione inglese, garantista ma severa fino alla pena di morte. 

Quindi, secondo te, le forze politiche che erano per il “sì” al referendum, o anche soltanto chi l’aveva indetto e direttamente appoggiato, avrebbero potuto evitare Tangentopoli se avessero assunto un comportamento diverso in quell’occasione. Raccontaci come sono andate le cose, dove si è verificata l’incrinatura.

Tutti quanti avevano detto sì, ma tutti quanti si allinearono all’impostazione del Pci. Perché l’idea di andare fino in fondo, di accettare uno scontro vero spaventava tutti, come è sempre in Italia. Giocò moltissimo un fatto casuale, che Marco Pannella fosse in vacanza in Sicilia (fu una delle pochissime volte che sparì per un lungo periodo) e Craxi fosse in America. Il gruppo radicale, Adelaide Aglietta e Francesco Rutelli, che era capogruppo, erano dubbiosi, cedevoli, di fronte alle obiezioni e pressioni “ragionevoli” che gli venivano fatte. Mi dicevano cose come: “Ma tu lo sai che i costituzionalisti dicono che la responsabilità deve essere disciplinare?”. Ma allora perché hai fatto il referendum? La verità è che Pannella non aveva lasciato istruzioni e tutti avevano il terrore di prendersi responsabilità politiche. Io feci una battaglia estenuante, dentro il gruppo radicale e in Parlamento, presentando una sfilza di emendamenti che venivano bocciati spesso con due, tre voti di maggioranza a scrutinio palese! Perché una buona parte dei cosiddetti “peones” avvertiva il clima intimidatorio che la magistratura aveva cominciato a creare, e ci veniva dietro. C’era persino qualche comunista che votava con noi, finché per il Pci non intervenne l’onorevole Fracchia, detto “la belva umana”, richiamando alla responsabilità i suoi, e avvertendo di stare attenti perché bastava passasse qualcuno degli emendamenti che avevamo presentato per snaturare la legge.

Perché i “peones”, cioè i parlamentari che venivano dalla provincia e avevano poco peso dentro i partiti, erano con voi?

Perché alla base cominciava ad arrivare qualche avvisaglia del pericolo, c’era una certa sensibilità nei confronti della minaccia giustizialista. Io allora stavo nella giunta per le autorizzazioni a procedere, e la sensazione ce l’avevo, tanto che a qualcuno – gente che poi in effetti è stata colpita – diedi anche dei segnali d’allarme personali: “guarda, stai attento, che ce l’hanno con te”. Quindi questi votavano con noi appena potevano. In realtà, se ci fosse stato Marco, sarebbe sicuramente riuscito a mobilitare quel gruppo di voti in più che ci servivano per far passare emendamenti sostanziali. Invece lui tornò l’ultima sera e dichiarò che il gruppo aveva sbagliato tutto, perché la legge non bisognava nemmeno prenderla in considerazione. 

Ma anche i socialisti furono tiepidi, hai detto.

Sì, infatti a un certo punto la cosa prese un aspetto grottesco. Craxi era in America, e anche lui, per i giochi della sorte, tornò troppo tardi. Siccome era un vero animale politico, un uomo di intuizioni, appena arrivato disse: fermi tutti, questa legge bisogna modificarla. Sennonché la legge era ormai passata con votazioni conformi a Camera e Senato, per cui era rimasto ben poco su cui innescare una battaglia politica. Lui chiede: cosa è rimasto da votare? Gli dicono che c’è solo la questione della “busta”. Si trattava di un meccanismo un po’ macchinoso per stabilire le responsabilità individuali in caso di voto segreto di organi collegiali: in Camera di Consiglio si doveva preparare una busta, da tenere segreta, con i voti dei singoli componenti. Craxi, sentendo che era rimasto solo quello, disse: allora date battaglia sulla busta. Così Alagna, Martelli, soprattutto Andò, tutti quelli che fino a quel momento avevano avuto un atteggiamento morbido (e poi si sono ritrovati a pagare di persona) dovettero fare un macello su un particolare ridicolo che ormai non poteva cambiare la sostanza delle cose, né poteva bloccare la legge. In più fiorirono le battute sui socialisti, le buste e le bustarelle. Insomma, fu un fallimento totale.

Quindi la tua conclusione è che già nell’87 si è giocato l’anticipo della partita finale tra politica e magistratura, senza che quasi nessuno ne fosse consapevole?

Sì: quella che poteva essere la prova di forza nel braccio di ferro appena iniziato tra politica e magistratura, in cui la politica poteva godere dell’immensa risorsa del voto popolare, si tradusse in uno sbeffeggiamento del potere popolare e del potere politico, salvo quello che si apprestava a fare il “compare” della magistratura. È lì che nasce l’organigramma di quella che sarà la forza “golpista” di Mani Pulite. Anche se in certi momenti sicuramente dentro Mani Pulite ci sono stati magistrati che hanno cercato di fare a meno del Pci. A questo punto è difficile stabilire quanto ancora sia saldo il rapporto di dipendenza instaurato, o quanto ormai, nel bailamme di poteri che si sottraggono al controllo democratico, la magistratura giochi una partita tutta sua. Oggi in Italia c’è un regime, come dicono i girotondini, ma un regime che è all’opposizione del governo: i sindacati e la magistratura in primo luogo, ma anche la burocrazia, tutti quelli che si sono presi, grazie agli anni del consociativismo, un potere reale, che ormai sfugge al governo, e che è difficile contrastare attraverso i mezzi della politica. “Resistere, resistere, resistere” è lo slogan di tutti costoro, non soltanto dei giudici. 

19 novembre 2003

(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)