Quel ’68 dei giornali sempre al potere
intervista a Ruggero Guarini di Eugenia Roccella
Ruggero Guarini non aveva previsto di fare il giornalista. Dopo una vita
passata a scrivere sui quotidiani, sostiene ancora di sentirsi un
letterato prestato al giornalismo, uno capitato lì per caso, anzi, per
disciplina di partito. Perché successe che lui, studente di Lettere
all’Università di Napoli, iscritto al Pci, manifestò contro la guerra
americana in Corea (peraltro votata dall’Onu), e fu sbattuto a Poggioreale
(va detto che pacifisti e “partigiani della pace” allora, non finivano in
televisione, più facilmente in galera). Uscì subito, ma fece in tempo ad
essere notato dalla dirigenza comunista, da Cacciapuoti e Amendola, e fu
invitato a lavorare nella redazione napoletana di Paese Sera. Guarini però
è uno di quegli intellettuali che Pierluigi Battista metterebbe nella
lista degli irregolari ad appartenenza libera e, dopo i carri armati
sovietici in Ungheria, le sue proteste contro le “violazioni della
legalità socialista” furono tali che il Pci decise di liberarsene,
espellendolo. Lui venne a Roma, e rimase per circa vent’anni nella
redazione del Messaggero, quotidiano romano di antica tradizione. Io l’ho
conosciuto durante la mia giovanile militanza radicale. Un giorno Marco
Pannella ci trascinò – eravamo sempre in numero esiguo, mai più di una
trentina di persone – sotto l’abitazione di un privato cittadino. Si
chiamava Ferdinando Perrone, ed era uno dei due cugini proprietari del
Messaggero; anzi lo era stato, perché proprio il giorno precedente aveva
ceduto la sua quota a Edilio Rusconi. La solidarietà di Pannella ai
giornalisti in sciopero aveva un preciso senso politico: Il Messaggero era
stato un fondamentale strumento della battaglia per il divorzio, che aveva
visto i radicali e la redazione del giornale schierati sullo stesso
fronte. Per un po’ la redazione del Messaggero fu un luogo familiare,
combattivo e vitale, poi il giornale finì nelle mani di Eugenio Cefis, e
gli eroici giorni di lotta si esaurirono in una sostanziale sconfitta.
Intanto Guarini continuava a fare il letterato prestato al giornalismo.
Nei primi anni Settanta ha pubblicato con Franco Maria Ricci un romanzo,
Parodia; nel ’76 una raccolta di «infernali bestialità», dice lui, scritte
e dette dai comunisti (libro non a caso intitolato I primi della classe);
poi il Breve corso di morale laica, per Rizzoli; infine la fatica a cui
tiene di più, una splendida traduzione (la migliore, secondo Piero Citati)
del Cunto de li cunti di Basile, raccolta di favole barocche in lingua
napoletana. Dopo l’abbandono del Pci, solo due volte si è lasciato
coinvolgere dalla politica, anche se mai direttamente: la prima durante i
giorni febbrili dello sciopero del Messaggero, la seconda con gli arresti
di Mani Pulite, l’ondata giustizialista e la discesa in campo di
Berlusconi. Laico irriducibile, con un gusto particolare per il paradosso,
Guarini attacca le banalità del luogocomunismo di oggi con lo stesso
spirito con cui difende la potenza fantastica e irridente del Basile
contro il moralismo pedante dell’abate Galiani: «Stiamo insomma insinuando
che le oneste paginette del Galiani contro il Cunto, frementi di virtù
civile, ardore pedagogico e zelo poliziesco, non siano affatto lo sfogo di
uno scrittore invidioso: sono un eccellente compendio delle ragioni della
ragione e del buon costume, contro la scostumatezza e l’irragione
letteraria».
Mi devi raccontare la storia della gloriosa
resistenza del Messaggero, di cui sei stato protagonista. Cominciamo da
quando sei arrivato al giornale...
Sono entrato nel Messaggero nel ’61, dopo un’avventura a Telesera, un
quotidiano fondato da Ugo Zatterin, dove fui chiamato insieme a Fausto De
Luca, Nicola Cattedra, molti ex redattori di Paese Sera, per un progetto
che avrebbe dovuto fiancheggiare la nascita del primo centro-sinistra, con
la cooptazione dei socialisti al governo. In realtà dietro c’era Tambroni,
che in un primo momento sembrava orientato appunto in quella direzione.
Poi, però, con i fatti di Porta San Paolo le cose cambiarono; e tutto quel
gruppo fatto da giornalisti timbrati come progressisti, che era entrato
con l’idea di appoggiare la formazione del primo governo di
centro-sinistra, si trovò in un giornale improvvisamente convertito al
centro-destra. La cosa mi turbò molto, allora. Oggi penso che a
quell’epoca ero ancora abbastanza stupido politicamente: non avevo capito
che in realtà quello del ’60 fu una sorta di colpo di Stato della sinistra
che, manovrando la piazza, sabotò un governo legittimo. Era un governo
appoggiato dal Msi, ma i missini erano in Parlamento, liberamente votati
dagli italiani. Io, però, non ero ancora abbastanza attrezzato, non ero in
grado di riconoscere la pericolosità di un comportamento del genere.
Consolati: credo che nessuno, nella sinistra di
allora, potesse avere questa consapevolezza…
Ma, non so. Sono abbastanza presuntuoso da vergognarmi, oggi, di averci
messo tanto a capire una cosa elementare; né mi sento giustificato dal
fatto che moltissimi non l’abbiano ancora capita. Perché la democrazia
consiste esattamente in questo: se i dispositivi giuridici, parlamentari e
politici del tuo Paese rendono possibile la nascita di un governo che non
ti piace, lo devi accettare.
Torniamo al Messaggero: quando tu sei entrato lo
dirigeva da vent’anni Sandro Perrone, che ne era anche l’editore.
Sandro Perrone era un grande direttore, con un grande fiuto politico. Io
credo di aver avuto questa fortuna, di aver conosciuto bene, e di aver
avuto un ottimo rapporto con l’ultimo esemplare di una figura che già
allora era quasi estinta: l’editore borghese indipendente. L’ho visto più
volte sbattere il telefono in faccia a politici che gli rompevano le
scatole: non che non avesse anche lui i suoi condizionamenti, ma riusciva
a mantenere aperti per il giornale spazi di libertà che poi si sono
chiusi. Naturalmente c’erano anche i condizionamenti personali, tra cui il
rapporto con il cugino Ferdinando, più bigotto, meno intelligente, con cui
c’era qualche contrasto, qualche rivalità.
Ferdinando era l’altro proprietario del Messaggero.
Sì. Inoltre, sia Ferdinando che Sandro avevano due sorelle: Il Messaggero
era un’azienda solida, dava da vivere a sei famiglie, e molto
generosamente: pare che al momento della vendita assicurasse tre o quattro
miliardi di utili l’anno, e parlo dei primi anni Settanta.
Com’è nato il tuo rapporto con Sandro Perrone?
Sandro riuscì in pochissimo tempo a conquistarsi la mia simpatia, la mia
amicizia, anche il mio affetto. Quando mi assunse naturalmente parlammo un
po’ di me, e venne fuori il fatto che mio padre stava a New York, e io non
l’avevo mai conosciuto. Avevo cercato più volte di andare in America, ma
essendo stato iscritto al Pci, non mi avevano mai concesso il visto, anche
dopo che ne ero uscito, nel ’58. Poche settimane dopo il nostro colloquio,
Perrone mi convocò per dirmi di andare in America. Chiesi quali servizi
avrei dovuto fare. «Nessuno – mi disse – vada a conoscere suo padre». «Ma
non mi danno il visto», obiettai. «Non si preoccupi, vada». E riuscì a
farmi partire. Perrone aveva i suoi difetti, era nevrotico, anche insicuro
su alcune cose, ma era un signore, una persona perbene. Ti faccio un
esempio: una sera mi telefona mia cognata da un caffè di via Veneto,
dicendomi: vieni a bere qualcosa con noi, c’è Peppino (Patroni Griffi),
Dudù (Raffaele La Capria), e poi un tale che ti conosce, dice che lavora
con te. Era Sandro Perrone: un altro avrebbe detto «Guarini è un mio
redattore, lavora per me»… lui invece, con incredibile tatto, diceva
«lavoro con lui».
Al Messaggero tu facevi il vaticanista, incarico
piuttosto insolito per uno notoriamente laico come te, soprattutto in
quegli anni.
Quando sono entrato, Perrone voleva farmi fare l’inviato politico. Io
rifiutai perché allora, appena uscito dal Pci, e ancora solidamente di
sinistra, non potevo condividere pienamente la linea del giornale. Così
per alcuni anni mi occupai di cronaca. Poi nel ’72 il direttore mi chiamò
e mi disse: «Guarini, sui rapporti tra Stato e Chiesa abbiamo idee simili;
a me non interessano le pantofole del papa, mi interessa la battaglia per
il divorzio: perché non fa il vaticanista?». E così, con Pasquale Prunas
che la pensava come me, con altri che non la pensavano esattamente come
me, ma su questo erano d’accordo, cominciò l’impegno del Messaggero sul
divorzio, che costò a Perrone la perdita del giornale.
Quindi fu l’adesione alla battaglia per il divorzio,
secondo te, che compromise il destino del Messaggero?
Senza dubbio. Fanfani e il cardinale Benelli gliela giurarono, a Perrone,
dopo la sconfitta sul divorzio. Né la Dc, né, soprattutto, la Curia
romana, potevano più tollerare che il principale quotidiano della
Capitale, il terzo d’Italia, fosse su posizioni esplicitamente e
radicalmente laiche. Non ricordo i numeri delle vendite, ma il peso
politico del Messaggero era certamente superiore a quello della Stampa. Ci
furono momenti di scontro diretto, con il Vaticano. Per esempio, un giorno
sull’Osservatore Romano uscì un corsivo di attacco al giornale, con una
frase che ricordo testualmente a memoria, per motivi di orgoglio: «Il
Messaggero, quotidiano in cui da qualche tempo il redattore vaticano
pretende di sovrapporre ogni giorno il suo personale magistero a quello
del Santo Padre». Dopo il divorzio Perrone tentò di salvarsi, sforzandosi
di ricucire lo strappo con la Curia, e mi offrì la terza pagina; io
accettai, anche perché fare il vaticanista non è che fosse la mia
vocazione. Tra l’altro mi chiese di suggerirgli il nome del successore, e
ancora me ne pento, perché proposi un redattore che si rivelò poi un
tremendo “baciapile”, un vero catto-comunista. Però il risentimento
politico che Perrone aveva suscitato secondo me trovò un varco, un punto
debole nella famiglia.
Quale?
Una delle figlie di Ferdinando Perrone fu coinvolta nel caso di
Primavalle. Non so se ricordi, fu un caso tipico di quegli anni: qualcuno
versò una tanica di benzina nell’abitazione del segretario della sezione
dell’Msi di Primavalle, e nell’incendio morirono i figli del poveretto.
L’indagine portò ad alcuni militanti di Potere Operaio, tra cui appunto la
Perrone. Non mi sembra un delirio dietrologico supporre che su Ferdinando
furono fatte delle pressioni, o perlomeno che gli arrivò qualche segnale,
qualche suggerimento: con la cessione della sua quota del Messaggero
avrebbe potuto contribuire a salvare la figlia.
Come storia familiare è interessante, ma credi
davvero che abbia contato nella vicenda proprietaria del giornale?
Prima di tutto è una chiave di lettura inedita, e poi ti dà un’indicazione
importante sull’epoca: mi pare significativo che uno dei due proprietari
del Messaggero, uno degli ultimi editori borghesi, abbia mollato perché
inguaiato dalla figlia extraparlamentare! Sono casi che si sono ripetuti,
famiglie di miliardari in cui il conflitto edipico sfocia nella ribellione
politica, e finisce in un atto di autodistruzione, o di distruzione del
padre.
Come avete saputo che Ferdinando Perrone aveva
venduto, e come è stata accolta in redazione la notizia?
Non mi sembra che ci fossero state avvisaglie; io almeno l’ho saputo
all’improvviso. Arrivo al giornale, un giorno di primavera del ’73, e
trovo la redazione in subbuglio, il direttore a pezzi, e qualcuno che mi
sussurra: il cugino ha venduto la sua quota a Rusconi. Sandro Perrone
soffriva di enfisema, ed era anche fisicamente stravolto dalla notizia, lo
ricordo in canottiera, con la bombola di ossigeno. A quel punto, sui cocci
di quel che restava del Messaggero, si buttarono gli sciacalli del
sindacato, con esiti funesti. D’altra parte l’ipotesi che si profilava,
quella di Rusconi editore e Barzini direttore, non era accettata da gran
parte della redazione, nonostante la figura onorevole del possibile
direttore. Noi sostenevamo Perrone, e inoltre di Edilio Rusconi non
piacevano le simpatie politiche, il suo legame con la destra cattolica e
democristiana. Si scatenò la battaglia politica, legale e sindacale. In
quelle condizioni era necessaria una mediazione, e Felice La Rocca, allora
legato a De Martino, svolse un ruolo in questo senso; un ruolo
problematico, ambivalente, che favorì il passaggio da Rusconi a
Montedison. Alla fine l’ipotesi Montedison fu considerata più accettabile,
anche se in effetti non offriva maggiori garanzie di Rusconi, e portava il
giornale in un’area governativa, catto-social-comunista. Forse il povero
Rusconi non era la soluzione peggiore. Non credo che fossero soltanto la
Dc e il Vaticano a volere la fine di Perrone: anche al Psi e al Pci faceva
comodo sostituire gli editori privati con quelli pubblici. I partiti
volevano il controllo dell’informazione, e ottenerlo era assai più
semplice se i quotidiani cadevano nelle mani di enti come Eni o
Montedison. Dici che con Rusconi si andava meglio, che ho sbagliato anche
in questo? Probabile. Magari con Barzini sarebbe nato il quotidiano
conservatore che pochi mesi dopo ha fatto Montanelli uscendo dal Corriere,
chissà... Devo ammettere che a un certo punto ho avuto qualche dubbio. Per
esempio quando l’amico Fabrizio Cicchitto, che veniva spesso in redazione
per cercare una soluzione mentre eravamo in sciopero, mi disse: «Forse
abbiamo trovato un direttore che può essere gradito a voi giornalisti, un
democratico, Italo Pietra». Io lo guardai in faccia: «Ma Pietra non ha
niente a che vedere con la linea del Messaggero. Italo Pietra ha mai
scritto una riga sul divorzio, sul rapporto tra stato e chiesa, sul
concordato? Una riga vagamente dissenziente nei confronti della politica
vaticana?». Mi rispose: «Però ha fatto il partigiano».
C’erano altre proposte in campo?
Io ce l’avevo una proposta per la direzione: Vittorio Gorresio, ed ero
anche riuscito a convincerlo. Era stato al Messaggero, era un ottimo
giornalista ed era un laico, anzi aveva avuto una curiosa polemica con
Fanfani, proprio sui rapporti tra Stato e Chiesa. Non è che poi Il
Messaggero avesse queste grandiose tradizioni democratiche alle sue
spalle, era stato persino forcaiolo in certi momenti, per esempio aveva
appoggiato la condanna per plagio del povero Aldo Braibanti. Il vero
titolo d’onore politico del giornale era la sua fiera indipendenza dalla
Chiesa, e questo era significativo perché si trattava del quotidiano
romano per eccellenza. L’orientamento laico era l’unica linea che dovevamo
difendere, e Gorresio era perfetto. Però bisognava ammetterlo: non aveva
fatto il partigiano.
La redazione intanto era in stato di agitazione
permanente, ricordo che avete fatto un lungo sciopero.
Credo che nella storia del giornalismo italiano non esista uno sciopero
così lungo e così compatto. Durò più di un mese, alla fine facemmo anche
gli approvvigionamenti di cibo per non abbandonare la redazione,
preparandoci a fronteggiare una specie di serrata. È curioso che libri
come quello di Paolo Murialdi sottovalutino così clamorosamente la vicenda
del Messaggero, ostentando una indifferenza sprezzante, uno stupido
snobismo lombardo e torinese. I fatti vanno valutati nella loro
obiettività: c’è stato un altro sciopero di quella portata, o una lotta di
redazione così tenace?
Alla fine, però, fu accettata l’abbinata
Montedison-Italo Pietra.
Sì, dopo un mese e mezzo di sciopero, la redazione capitolò, anche per
l’introduzione del patto integrativo (che veniva sventolato come una
bandiera e che poi invece si rivelò una trappola), che comportava la
trasformazione delle cariche di vice-direttori in cariche elettive. La
Rocca appoggiò questa soluzione, sicuro di poter ottenere uno dei due
posti disponibili, e si alleò con Giuseppe Columba contro me e Pasquale
Prunas. Columba era ‘nu bravo guaglione, ma non capiva niente di politica.
D’altra parte probabilmente era utopistico pensare di conservare la
direzione di Perrone più a lungo.
Dunque arrivò Pietra. Cosa cambiò nella vita di
redazione?
Pietra arrivò portandosi dietro tre giornalisti di sostegno: uno era una
brava persona, un po’ fragile umanamente e politicamente, Sergio Turone;
l’altro era Luigi Fossati, che almeno aveva un certo piglio direttoriale,
che rivelò subentrando poi a Pietra; il terzo era Vittorio Emiliani, per
cui non ho nessuna stima. Un presentuoso, convinto di essere portatore di
una visione superiore del giornalismo, e che ostentava un sovrano
disprezzo per Perrone. Veniva dal Giorno, e spacciava quell’esperienza
come esemplare: ma il Giorno è sempre stato mantenuto coi soldi pubblici,
aveva un deficit spaventoso, mentre Perrone col Messaggero ha sempre fatto
tornare i conti. Era un editore geniale. Hai presente tutte quelle pagine
di piccola pubblicità che aveva un tempo Il Messaggero? Era la regola
economica di Perrone: le pagine di pubblicità dovevano essere equivalenti
a quelle di giornale.
Quelli furono gli anni in cui all’interno dei
quotidiani si consolidarono nuovi equilibri tra proprietà, direzione e
redazione.
Guarda, anche prima che il Corriere e Il Messaggero cambiassero proprietà,
e che scomparissero gli editori borghesi di quotidiani, era già cominciato
quel processo di sindacalizzazione dei giornalisti che ha condotto allo
strapotere dei comitati di redazione. Ci sono stati alcuni passaggi
cruciali, in questo processo, come quando Raffaele Fiengo, al Corriere,
riuscì a determinare la bocciatura di Alberto Ronchey. Considera che la
stessa direzione Pietra cadde indirettamente per causa mia, per uno
scontro con la redazione. Io avevo fatto un pezzo tirando fuori certi
scritti protofascisti di Fanfani, e il direttore lo bloccò: questo non può
uscire. Io chiesi l’assemblea, che naturalmente mise in minoranza Pietra.
La cosa si seppe, Cefis chiamò Pietra e gli chiarì che un direttore non si
può far mettere in minoranza dal comitato di redazione.
Ma la sindacalizzazione, il potere conquistato dai
comitati di redazione garantiva almeno una maggiore libertà dei
giornalisti o no?
Non direi proprio. Io uscii stremato dalla lunga direzione di Emiliani, e
nel 1981 me ne andai. Ai tempi di Perrone mi ero abituato a rendere conto
a una sola persona, che aveva i suoi difetti, le sue aperture, le sue
insicurezze, ma era un rapporto chiaro, personale e diretto, in cui si
capiva che cosa si poteva ottenere e cosa no, quali erano i limiti
insuperabili e su cosa si poteva trattare. Con l’arrivo della Montedison,
si apre una situazione piena di ambiguità, in cui si sa che tra la
direzione e l’amministrazione non sempre c’è identità di vedute, che ci
sono cose che dispiacciono alla direzione e piacciono all’amministrazione
e viceversa; che dietro i capi dell’amministrazione ci sono vaghe figure a
metà tra il politico e il manageriale, che non si sa bene quali poteri
possano esercitare; tutto questo mentre il comitato di redazione, passati
i primi furori eroici, invece di difendere la libertà dei giornalisti
segue logiche sindacali e politiche sempre più misere e corporative,
mettendo becco dappertutto, persino nella scelta dei redattori idonei a
determinati servizi piuttosto che ad altri.
È il tipico percorso seguito da quasi tutte le
strutture della cosiddetta “democrazia di base”. Dopo i primi tempi di
assemblearismo festoso, si incartano nell’esasperazione burocratica, nel
corporativismo, o semplicemente si esauriscono in discussioni
interminabili.
Ti dirò di più: mentre ancora si viveva il clima dell’assemblearismo
festoso, in realtà erano già visibili, all’interno dei comitati di
redazione, le lobby legate ai partiti o alle correnti dei partiti. Finì
che ogni leader e leaderino di partito aveva magari il suo uomo nel Cdr,
che si permetteva di venire a chiederti come avevi trattato nell’articolo
il tale e il tal’altro.
I comitati di redazione sono stati uno dei canali
attraverso cui ha agito la lottizzazione e la partitocrazia, mentre
all’inizio, per esempio nella vicenda del Messaggero, l’assemblea dei
redattori era nata come barriera difensiva contro l’invadenza della
politica, e si immaginava che avrebbe svolto un salutare ruolo di
contrappeso rispetto alla proprietà.
È stata l’ennesima storia in cui si è visto come cominciano e come
finiscono le rivoluzioni. Come diceva Kafka, cominciano con la cavalleria,
e finiscono con la carta bollata. Io e Prunas, devo dire, non abbiamo mai
mitizzato il Comitato di redazione come strumento di garanzia della
libertà dei giornalisti. Semplicemente, in un giornale che ha vissuto a
lungo con una proprietà dimidiata (perché Sandro Perrone ha resistito
parecchio, prima di cedere) c’era assoluto bisogno dell’assemblea dei
redattori per rafforzare la direzione. Non se ne poteva fare a meno: noi
avevamo un direttore che possedeva il 50 per cento del giornale, e
sapevamo che sarebbe arrivato il momento in cui nel Consiglio di
amministrazione Perrone sarebbe stato messo in minoranza. Ma eravamo del
tutto consapevoli di quanto la crescita di potere del Comitato di
redazione costituisse di per sé una sciagura non solo per Il Messaggero ma
anche per tutto il giornalismo italiano.
Tra il 1972 e il ’76 il panorama dei quotidiani italiani, dopo molti anni
di vita tranquilla, interrotta da poche novità, subisce una vera
rivoluzione. Si susseguono avvicendamenti proprietari, licenziamenti e
dimissioni; trenta giornalisti lasciano il Corriere, nell’autunno ’73
nasce il Giornale di Montanelli e poi, nel ’76, la Repubblica di Scalfari.
Al Corriere si creò una tenaglia infernale che stritolò la redazione tra
il Cdr e il direttore: Piero Ottone riuscì a cambiare il volto del
giornale avendo la maggioranza dei giornalisti contro, semplicemente
manovrando le collaborazioni e alleandosi al Cdr. Con la rubrica Tribuna
aperta, che aveva introdotto, e in particolare con la collaborazione di
Pasolini, ha spalancato le porte a Mani Pulite. Il tanto decantato
articolo sul Palazzo, quello fatto da «Io so… io so…» accreditava
l’ipotesi che la Repubblica italiana fosse nelle mani di criminali che
andavano processati anche senza prove, perché “si sapeva”. Il grande
giornale della borghesia italiana in quegli anni diventa il profeta di
Mani Pulite, facendo da apripista alla questione morale.
E che ne pensi dei 15 giornalisti che nel ’75 con
Lino Jannuzzi escono dal-’ l’Espresso e vanno a fare Tempo illustrato?
Eugenio Scalfari ha usato la Repubblica, con L’Espresso al seguito, per
svolgere un ruolo da garante, diciamo pure da macrò. L’inappuntabile macrò
dei comunisti presso il grande capitale finanziario e industriale
italiano: garantisco io che la signorina lavorerà per noi. Su questo,
mettendoci anche le difficoltà di rapporto personale tra Scalfari e
Jannuzzi, si creò nell’Espresso il conflitto tra l’area vicina ai
comunisti e quella laica, liberal-socialista. D’altra parte Scalfari è un
genio. Sciascia lo chiamava Bel Ami, ma secondo me sbagliava, o almeno era
una definizione riduttiva: c’è stato un altro giornale come la Repubblica,
che è riuscito a crescere in pochi anni allo stesso modo?
Sicuramente Scalfari ha inventato un prodotto
editoriale innovativo, questo glielo riconoscono tutti.
Ha costretto anche gli altri a seguire il suo stile, il suo esempio: la
messa in scena del grande circo Barnum della politica. Oggi i quotidiani
dedicano a un congresso di partito pagine e pagine, con i pettegolezzi, le
chiacchiere da spogliatoio, i personaggi di contorno… tutto questo la
Repubblica l’ha fatto per prima: la passerella della politica spettacolo,
con Scalfari a dirigere con la frusta in mano.
Come vedi il giornalismo italiano di oggi?
Il tratto fondamentale del nostro giornalismo si può definire facilmente:
è il ’68 al potere. È straordinario che anche il centro-destra si sia
fatto convincere che è giusto così, fino a nominare Lucia Annunziata
presidente della Rai. Io ho stima dell’Annunziata, ma trovo incredibile
che i vincitori delle elezioni si siano identificati a tal punto con
l’aggressore, che gli ripete: guarda, tu non hai gente all’altezza, tra le
tue fila. Tutti quelli che contano nel giornalismo vengono dal ’68. Che
poi non è nemmeno una generazione: si tratta della crema, quelli che non
hanno studiato, non hanno lavorato, non hanno fatto niente. L’hanno
chiamato impegno.
Forse è la crema, come dici tu, una vecchia élite
studentesca, però ha condizionato un’intera generazione, creando un clima
culturale duraturo.
Sì, certo, erano, e sono ancora, in perfetta sintonia con lo spirito dei
tempi. Personalmente, però, ritengo che la dignità individuale non
consista in quello che ci accomuna allo spirito dei tempi, piuttosto in
quello che ce ne differenzia.
5 novembre 2003
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