Quel ’68 dei giornali sempre al potere
intervista a Ruggero Guarini di Eugenia Roccella

Ruggero Guarini non aveva previsto di fare il giornalista. Dopo una vita passata a scrivere sui quotidiani, sostiene ancora di sentirsi un letterato prestato al giornalismo, uno capitato lì per caso, anzi, per disciplina di partito. Perché successe che lui, studente di Lettere all’Università di Napoli, iscritto al Pci, manifestò contro la guerra americana in Corea (peraltro votata dall’Onu), e fu sbattuto a Poggioreale (va detto che pacifisti e “partigiani della pace” allora, non finivano in televisione, più facilmente in galera). Uscì subito, ma fece in tempo ad essere notato dalla dirigenza comunista, da Cacciapuoti e Amendola, e fu invitato a lavorare nella redazione napoletana di Paese Sera. Guarini però è uno di quegli intellettuali che Pierluigi Battista metterebbe nella lista degli irregolari ad appartenenza libera e, dopo i carri armati sovietici in Ungheria, le sue proteste contro le “violazioni della legalità socialista” furono tali che il Pci decise di liberarsene, espellendolo. Lui venne a Roma, e rimase per circa vent’anni nella redazione del Messaggero, quotidiano romano di antica tradizione. Io l’ho conosciuto durante la mia giovanile militanza radicale. Un giorno Marco Pannella ci trascinò – eravamo sempre in numero esiguo, mai più di una trentina di persone – sotto l’abitazione di un privato cittadino. Si chiamava Ferdinando Perrone, ed era uno dei due cugini proprietari del Messaggero; anzi lo era stato, perché proprio il giorno precedente aveva ceduto la sua quota a Edilio Rusconi. La solidarietà di Pannella ai giornalisti in sciopero aveva un preciso senso politico: Il Messaggero era stato un fondamentale strumento della battaglia per il divorzio, che aveva visto i radicali e la redazione del giornale schierati sullo stesso fronte. Per un po’ la redazione del Messaggero fu un luogo familiare, combattivo e vitale, poi il giornale finì nelle mani di Eugenio Cefis, e gli eroici giorni di lotta si esaurirono in una sostanziale sconfitta.

Intanto Guarini continuava a fare il letterato prestato al giornalismo. Nei primi anni Settanta ha pubblicato con Franco Maria Ricci un romanzo, Parodia; nel ’76 una raccolta di «infernali bestialità», dice lui, scritte e dette dai comunisti (libro non a caso intitolato I primi della classe); poi il Breve corso di morale laica, per Rizzoli; infine la fatica a cui tiene di più, una splendida traduzione (la migliore, secondo Piero Citati) del Cunto de li cunti di Basile, raccolta di favole barocche in lingua napoletana. Dopo l’abbandono del Pci, solo due volte si è lasciato coinvolgere dalla politica, anche se mai direttamente: la prima durante i giorni febbrili dello sciopero del Messaggero, la seconda con gli arresti di Mani Pulite, l’ondata giustizialista e la discesa in campo di Berlusconi. Laico irriducibile, con un gusto particolare per il paradosso, Guarini attacca le banalità del luogocomunismo di oggi con lo stesso spirito con cui difende la potenza fantastica e irridente del Basile contro il moralismo pedante dell’abate Galiani: «Stiamo insomma insinuando che le oneste paginette del Galiani contro il Cunto, frementi di virtù civile, ardore pedagogico e zelo poliziesco, non siano affatto lo sfogo di uno scrittore invidioso: sono un eccellente compendio delle ragioni della ragione e del buon costume, contro la scostumatezza e l’irragione letteraria».

Mi devi raccontare la storia della gloriosa resistenza del Messaggero, di cui sei stato protagonista. Cominciamo da quando sei arrivato al giornale...

Sono entrato nel Messaggero nel ’61, dopo un’avventura a Telesera, un quotidiano fondato da Ugo Zatterin, dove fui chiamato insieme a Fausto De Luca, Nicola Cattedra, molti ex redattori di Paese Sera, per un progetto che avrebbe dovuto fiancheggiare la nascita del primo centro-sinistra, con la cooptazione dei socialisti al governo. In realtà dietro c’era Tambroni, che in un primo momento sembrava orientato appunto in quella direzione. Poi, però, con i fatti di Porta San Paolo le cose cambiarono; e tutto quel gruppo fatto da giornalisti timbrati come progressisti, che era entrato con l’idea di appoggiare la formazione del primo governo di centro-sinistra, si trovò in un giornale improvvisamente convertito al centro-destra. La cosa mi turbò molto, allora. Oggi penso che a quell’epoca ero ancora abbastanza stupido politicamente: non avevo capito che in realtà quello del ’60 fu una sorta di colpo di Stato della sinistra che, manovrando la piazza, sabotò un governo legittimo. Era un governo appoggiato dal Msi, ma i missini erano in Parlamento, liberamente votati dagli italiani. Io, però, non ero ancora abbastanza attrezzato, non ero in grado di riconoscere la pericolosità di un comportamento del genere.

Consolati: credo che nessuno, nella sinistra di allora, potesse avere questa consapevolezza…

Ma, non so. Sono abbastanza presuntuoso da vergognarmi, oggi, di averci messo tanto a capire una cosa elementare; né mi sento giustificato dal fatto che moltissimi non l’abbiano ancora capita. Perché la democrazia consiste esattamente in questo: se i dispositivi giuridici, parlamentari e politici del tuo Paese rendono possibile la nascita di un governo che non ti piace, lo devi accettare.

Torniamo al Messaggero: quando tu sei entrato lo dirigeva da vent’anni Sandro Perrone, che ne era anche l’editore.

Sandro Perrone era un grande direttore, con un grande fiuto politico. Io credo di aver avuto questa fortuna, di aver conosciuto bene, e di aver avuto un ottimo rapporto con l’ultimo esemplare di una figura che già allora era quasi estinta: l’editore borghese indipendente. L’ho visto più volte sbattere il telefono in faccia a politici che gli rompevano le scatole: non che non avesse anche lui i suoi condizionamenti, ma riusciva a mantenere aperti per il giornale spazi di libertà che poi si sono chiusi. Naturalmente c’erano anche i condizionamenti personali, tra cui il rapporto con il cugino Ferdinando, più bigotto, meno intelligente, con cui c’era qualche contrasto, qualche rivalità.

Ferdinando era l’altro proprietario del Messaggero.

Sì. Inoltre, sia Ferdinando che Sandro avevano due sorelle: Il Messaggero era un’azienda solida, dava da vivere a sei famiglie, e molto generosamente: pare che al momento della vendita assicurasse tre o quattro miliardi di utili l’anno, e parlo dei primi anni Settanta.

Com’è nato il tuo rapporto con Sandro Perrone?

Sandro riuscì in pochissimo tempo a conquistarsi la mia simpatia, la mia amicizia, anche il mio affetto. Quando mi assunse naturalmente parlammo un po’ di me, e venne fuori il fatto che mio padre stava a New York, e io non l’avevo mai conosciuto. Avevo cercato più volte di andare in America, ma essendo stato iscritto al Pci, non mi avevano mai concesso il visto, anche dopo che ne ero uscito, nel ’58. Poche settimane dopo il nostro colloquio, Perrone mi convocò per dirmi di andare in America. Chiesi quali servizi avrei dovuto fare. «Nessuno – mi disse – vada a conoscere suo padre». «Ma non mi danno il visto», obiettai. «Non si preoccupi, vada». E riuscì a farmi partire. Perrone aveva i suoi difetti, era nevrotico, anche insicuro su alcune cose, ma era un signore, una persona perbene. Ti faccio un esempio: una sera mi telefona mia cognata da un caffè di via Veneto, dicendomi: vieni a bere qualcosa con noi, c’è Peppino (Patroni Griffi), Dudù (Raffaele La Capria), e poi un tale che ti conosce, dice che lavora con te. Era Sandro Perrone: un altro avrebbe detto «Guarini è un mio redattore, lavora per me»… lui invece, con incredibile tatto, diceva «lavoro con lui».

Al Messaggero tu facevi il vaticanista, incarico piuttosto insolito per uno notoriamente laico come te, soprattutto in quegli anni.

Quando sono entrato, Perrone voleva farmi fare l’inviato politico. Io rifiutai perché allora, appena uscito dal Pci, e ancora solidamente di sinistra, non potevo condividere pienamente la linea del giornale. Così per alcuni anni mi occupai di cronaca. Poi nel ’72 il direttore mi chiamò e mi disse: «Guarini, sui rapporti tra Stato e Chiesa abbiamo idee simili; a me non interessano le pantofole del papa, mi interessa la battaglia per il divorzio: perché non fa il vaticanista?». E così, con Pasquale Prunas che la pensava come me, con altri che non la pensavano esattamente come me, ma su questo erano d’accordo, cominciò l’impegno del Messaggero sul divorzio, che costò a Perrone la perdita del giornale.

Quindi fu l’adesione alla battaglia per il divorzio, secondo te, che compromise il destino del Messaggero?

Senza dubbio. Fanfani e il cardinale Benelli gliela giurarono, a Perrone, dopo la sconfitta sul divorzio. Né la Dc, né, soprattutto, la Curia romana, potevano più tollerare che il principale quotidiano della Capitale, il terzo d’Italia, fosse su posizioni esplicitamente e radicalmente laiche. Non ricordo i numeri delle vendite, ma il peso politico del Messaggero era certamente superiore a quello della Stampa. Ci furono momenti di scontro diretto, con il Vaticano. Per esempio, un giorno sull’Osservatore Romano uscì un corsivo di attacco al giornale, con una frase che ricordo testualmente a memoria, per motivi di orgoglio: «Il Messaggero, quotidiano in cui da qualche tempo il redattore vaticano pretende di sovrapporre ogni giorno il suo personale magistero a quello del Santo Padre». Dopo il divorzio Perrone tentò di salvarsi, sforzandosi di ricucire lo strappo con la Curia, e mi offrì la terza pagina; io accettai, anche perché fare il vaticanista non è che fosse la mia vocazione. Tra l’altro mi chiese di suggerirgli il nome del successore, e ancora me ne pento, perché proposi un redattore che si rivelò poi un tremendo “baciapile”, un vero catto-comunista. Però il risentimento politico che Perrone aveva suscitato secondo me trovò un varco, un punto debole nella famiglia.

Quale?

Una delle figlie di Ferdinando Perrone fu coinvolta nel caso di Primavalle. Non so se ricordi, fu un caso tipico di quegli anni: qualcuno versò una tanica di benzina nell’abitazione del segretario della sezione dell’Msi di Primavalle, e nell’incendio morirono i figli del poveretto. L’indagine portò ad alcuni militanti di Potere Operaio, tra cui appunto la Perrone. Non mi sembra un delirio dietrologico supporre che su Ferdinando furono fatte delle pressioni, o perlomeno che gli arrivò qualche segnale, qualche suggerimento: con la cessione della sua quota del Messaggero avrebbe potuto contribuire a salvare la figlia.

Come storia familiare è interessante, ma credi davvero che abbia contato nella vicenda proprietaria del giornale?

Prima di tutto è una chiave di lettura inedita, e poi ti dà un’indicazione importante sull’epoca: mi pare significativo che uno dei due proprietari del Messaggero, uno degli ultimi editori borghesi, abbia mollato perché inguaiato dalla figlia extraparlamentare! Sono casi che si sono ripetuti, famiglie di miliardari in cui il conflitto edipico sfocia nella ribellione politica, e finisce in un atto di autodistruzione, o di distruzione del padre.

Come avete saputo che Ferdinando Perrone aveva venduto, e come è stata accolta in redazione la notizia?

Non mi sembra che ci fossero state avvisaglie; io almeno l’ho saputo all’improvviso. Arrivo al giornale, un giorno di primavera del ’73, e trovo la redazione in subbuglio, il direttore a pezzi, e qualcuno che mi sussurra: il cugino ha venduto la sua quota a Rusconi. Sandro Perrone soffriva di enfisema, ed era anche fisicamente stravolto dalla notizia, lo ricordo in canottiera, con la bombola di ossigeno. A quel punto, sui cocci di quel che restava del Messaggero, si buttarono gli sciacalli del sindacato, con esiti funesti. D’altra parte l’ipotesi che si profilava, quella di Rusconi editore e Barzini direttore, non era accettata da gran parte della redazione, nonostante la figura onorevole del possibile direttore. Noi sostenevamo Perrone, e inoltre di Edilio Rusconi non piacevano le simpatie politiche, il suo legame con la destra cattolica e democristiana. Si scatenò la battaglia politica, legale e sindacale. In quelle condizioni era necessaria una mediazione, e Felice La Rocca, allora legato a De Martino, svolse un ruolo in questo senso; un ruolo problematico, ambivalente, che favorì il passaggio da Rusconi a Montedison. Alla fine l’ipotesi Montedison fu considerata più accettabile, anche se in effetti non offriva maggiori garanzie di Rusconi, e portava il giornale in un’area governativa, catto-social-comunista. Forse il povero Rusconi non era la soluzione peggiore. Non credo che fossero soltanto la Dc e il Vaticano a volere la fine di Perrone: anche al Psi e al Pci faceva comodo sostituire gli editori privati con quelli pubblici. I partiti volevano il controllo dell’informazione, e ottenerlo era assai più semplice se i quotidiani cadevano nelle mani di enti come Eni o Montedison. Dici che con Rusconi si andava meglio, che ho sbagliato anche in questo? Probabile. Magari con Barzini sarebbe nato il quotidiano conservatore che pochi mesi dopo ha fatto Montanelli uscendo dal Corriere, chissà... Devo ammettere che a un certo punto ho avuto qualche dubbio. Per esempio quando l’amico Fabrizio Cicchitto, che veniva spesso in redazione per cercare una soluzione mentre eravamo in sciopero, mi disse: «Forse abbiamo trovato un direttore che può essere gradito a voi giornalisti, un democratico, Italo Pietra». Io lo guardai in faccia: «Ma Pietra non ha niente a che vedere con la linea del Messaggero. Italo Pietra ha mai scritto una riga sul divorzio, sul rapporto tra stato e chiesa, sul concordato? Una riga vagamente dissenziente nei confronti della politica vaticana?». Mi rispose: «Però ha fatto il partigiano».

C’erano altre proposte in campo?

Io ce l’avevo una proposta per la direzione: Vittorio Gorresio, ed ero anche riuscito a convincerlo. Era stato al Messaggero, era un ottimo giornalista ed era un laico, anzi aveva avuto una curiosa polemica con Fanfani, proprio sui rapporti tra Stato e Chiesa. Non è che poi Il Messaggero avesse queste grandiose tradizioni democratiche alle sue spalle, era stato persino forcaiolo in certi momenti, per esempio aveva appoggiato la condanna per plagio del povero Aldo Braibanti. Il vero titolo d’onore politico del giornale era la sua fiera indipendenza dalla Chiesa, e questo era significativo perché si trattava del quotidiano romano per eccellenza. L’orientamento laico era l’unica linea che dovevamo difendere, e Gorresio era perfetto. Però bisognava ammetterlo: non aveva fatto il partigiano.

La redazione intanto era in stato di agitazione permanente, ricordo che avete fatto un lungo sciopero.

Credo che nella storia del giornalismo italiano non esista uno sciopero così lungo e così compatto. Durò più di un mese, alla fine facemmo anche gli approvvigionamenti di cibo per non abbandonare la redazione, preparandoci a fronteggiare una specie di serrata. È curioso che libri come quello di Paolo Murialdi sottovalutino così clamorosamente la vicenda del Messaggero, ostentando una indifferenza sprezzante, uno stupido snobismo lombardo e torinese. I fatti vanno valutati nella loro obiettività: c’è stato un altro sciopero di quella portata, o una lotta di redazione così tenace?

Alla fine, però, fu accettata l’abbinata Montedison-Italo Pietra.

Sì, dopo un mese e mezzo di sciopero, la redazione capitolò, anche per l’introduzione del patto integrativo (che veniva sventolato come una bandiera e che poi invece si rivelò una trappola), che comportava la trasformazione delle cariche di vice-direttori in cariche elettive. La Rocca appoggiò questa soluzione, sicuro di poter ottenere uno dei due posti disponibili, e si alleò con Giuseppe Columba contro me e Pasquale Prunas. Columba era ‘nu bravo guaglione, ma non capiva niente di politica. D’altra parte probabilmente era utopistico pensare di conservare la direzione di Perrone più a lungo.

Dunque arrivò Pietra. Cosa cambiò nella vita di redazione?

Pietra arrivò portandosi dietro tre giornalisti di sostegno: uno era una brava persona, un po’ fragile umanamente e politicamente, Sergio Turone; l’altro era Luigi Fossati, che almeno aveva un certo piglio direttoriale, che rivelò subentrando poi a Pietra; il terzo era Vittorio Emiliani, per cui non ho nessuna stima. Un presentuoso, convinto di essere portatore di una visione superiore del giornalismo, e che ostentava un sovrano disprezzo per Perrone. Veniva dal Giorno, e spacciava quell’esperienza come esemplare: ma il Giorno è sempre stato mantenuto coi soldi pubblici, aveva un deficit spaventoso, mentre Perrone col Messaggero ha sempre fatto tornare i conti. Era un editore geniale. Hai presente tutte quelle pagine di piccola pubblicità che aveva un tempo Il Messaggero? Era la regola economica di Perrone: le pagine di pubblicità dovevano essere equivalenti a quelle di giornale.

Quelli furono gli anni in cui all’interno dei quotidiani si consolidarono nuovi equilibri tra proprietà, direzione e redazione.

Guarda, anche prima che il Corriere e Il Messaggero cambiassero proprietà, e che scomparissero gli editori borghesi di quotidiani, era già cominciato quel processo di sindacalizzazione dei giornalisti che ha condotto allo strapotere dei comitati di redazione. Ci sono stati alcuni passaggi cruciali, in questo processo, come quando Raffaele Fiengo, al Corriere, riuscì a determinare la bocciatura di Alberto Ronchey. Considera che la stessa direzione Pietra cadde indirettamente per causa mia, per uno scontro con la redazione. Io avevo fatto un pezzo tirando fuori certi scritti protofascisti di Fanfani, e il direttore lo bloccò: questo non può uscire. Io chiesi l’assemblea, che naturalmente mise in minoranza Pietra. La cosa si seppe, Cefis chiamò Pietra e gli chiarì che un direttore non si può far mettere in minoranza dal comitato di redazione.

Ma la sindacalizzazione, il potere conquistato dai comitati di redazione garantiva almeno una maggiore libertà dei giornalisti o no?

Non direi proprio. Io uscii stremato dalla lunga direzione di Emiliani, e nel 1981 me ne andai. Ai tempi di Perrone mi ero abituato a rendere conto a una sola persona, che aveva i suoi difetti, le sue aperture, le sue insicurezze, ma era un rapporto chiaro, personale e diretto, in cui si capiva che cosa si poteva ottenere e cosa no, quali erano i limiti insuperabili e su cosa si poteva trattare. Con l’arrivo della Montedison, si apre una situazione piena di ambiguità, in cui si sa che tra la direzione e l’amministrazione non sempre c’è identità di vedute, che ci sono cose che dispiacciono alla direzione e piacciono all’amministrazione e viceversa; che dietro i capi dell’amministrazione ci sono vaghe figure a metà tra il politico e il manageriale, che non si sa bene quali poteri possano esercitare; tutto questo mentre il comitato di redazione, passati i primi furori eroici, invece di difendere la libertà dei giornalisti segue logiche sindacali e politiche sempre più misere e corporative, mettendo becco dappertutto, persino nella scelta dei redattori idonei a determinati servizi piuttosto che ad altri.

È il tipico percorso seguito da quasi tutte le strutture della cosiddetta “democrazia di base”. Dopo i primi tempi di assemblearismo festoso, si incartano nell’esasperazione burocratica, nel corporativismo, o semplicemente si esauriscono in discussioni interminabili.

Ti dirò di più: mentre ancora si viveva il clima dell’assemblearismo festoso, in realtà erano già visibili, all’interno dei comitati di redazione, le lobby legate ai partiti o alle correnti dei partiti. Finì che ogni leader e leaderino di partito aveva magari il suo uomo nel Cdr, che si permetteva di venire a chiederti come avevi trattato nell’articolo il tale e il tal’altro.

I comitati di redazione sono stati uno dei canali attraverso cui ha agito la lottizzazione e la partitocrazia, mentre all’inizio, per esempio nella vicenda del Messaggero, l’assemblea dei redattori era nata come barriera difensiva contro l’invadenza della politica, e si immaginava che avrebbe svolto un salutare ruolo di contrappeso rispetto alla proprietà.

È stata l’ennesima storia in cui si è visto come cominciano e come finiscono le rivoluzioni. Come diceva Kafka, cominciano con la cavalleria, e finiscono con la carta bollata. Io e Prunas, devo dire, non abbiamo mai mitizzato il Comitato di redazione come strumento di garanzia della libertà dei giornalisti. Semplicemente, in un giornale che ha vissuto a lungo con una proprietà dimidiata (perché Sandro Perrone ha resistito parecchio, prima di cedere) c’era assoluto bisogno dell’assemblea dei redattori per rafforzare la direzione. Non se ne poteva fare a meno: noi avevamo un direttore che possedeva il 50 per cento del giornale, e sapevamo che sarebbe arrivato il momento in cui nel Consiglio di amministrazione Perrone sarebbe stato messo in minoranza. Ma eravamo del tutto consapevoli di quanto la crescita di potere del Comitato di redazione costituisse di per sé una sciagura non solo per Il Messaggero ma anche per tutto il giornalismo italiano.
Tra il 1972 e il ’76 il panorama dei quotidiani italiani, dopo molti anni di vita tranquilla, interrotta da poche novità, subisce una vera rivoluzione. Si susseguono avvicendamenti proprietari, licenziamenti e dimissioni; trenta giornalisti lasciano il Corriere, nell’autunno ’73 nasce il Giornale di Montanelli e poi, nel ’76, la Repubblica di Scalfari. Al Corriere si creò una tenaglia infernale che stritolò la redazione tra il Cdr e il direttore: Piero Ottone riuscì a cambiare il volto del giornale avendo la maggioranza dei giornalisti contro, semplicemente manovrando le collaborazioni e alleandosi al Cdr. Con la rubrica Tribuna aperta, che aveva introdotto, e in particolare con la collaborazione di Pasolini, ha spalancato le porte a Mani Pulite. Il tanto decantato articolo sul Palazzo, quello fatto da «Io so… io so…» accreditava l’ipotesi che la Repubblica italiana fosse nelle mani di criminali che andavano processati anche senza prove, perché “si sapeva”. Il grande giornale della borghesia italiana in quegli anni diventa il profeta di Mani Pulite, facendo da apripista alla questione morale.

E che ne pensi dei 15 giornalisti che nel ’75 con Lino Jannuzzi escono dal-’ l’Espresso e vanno a fare Tempo illustrato?

Eugenio Scalfari ha usato la Repubblica, con L’Espresso al seguito, per svolgere un ruolo da garante, diciamo pure da macrò. L’inappuntabile macrò dei comunisti presso il grande capitale finanziario e industriale italiano: garantisco io che la signorina lavorerà per noi. Su questo, mettendoci anche le difficoltà di rapporto personale tra Scalfari e Jannuzzi, si creò nell’Espresso il conflitto tra l’area vicina ai comunisti e quella laica, liberal-socialista. D’altra parte Scalfari è un genio. Sciascia lo chiamava Bel Ami, ma secondo me sbagliava, o almeno era una definizione riduttiva: c’è stato un altro giornale come la Repubblica, che è riuscito a crescere in pochi anni allo stesso modo?

Sicuramente Scalfari ha inventato un prodotto editoriale innovativo, questo glielo riconoscono tutti.

Ha costretto anche gli altri a seguire il suo stile, il suo esempio: la messa in scena del grande circo Barnum della politica. Oggi i quotidiani dedicano a un congresso di partito pagine e pagine, con i pettegolezzi, le chiacchiere da spogliatoio, i personaggi di contorno… tutto questo la Repubblica l’ha fatto per prima: la passerella della politica spettacolo, con Scalfari a dirigere con la frusta in mano.

Come vedi il giornalismo italiano di oggi?

Il tratto fondamentale del nostro giornalismo si può definire facilmente: è il ’68 al potere. È straordinario che anche il centro-destra si sia fatto convincere che è giusto così, fino a nominare Lucia Annunziata presidente della Rai. Io ho stima dell’Annunziata, ma trovo incredibile che i vincitori delle elezioni si siano identificati a tal punto con l’aggressore, che gli ripete: guarda, tu non hai gente all’altezza, tra le tue fila. Tutti quelli che contano nel giornalismo vengono dal ’68. Che poi non è nemmeno una generazione: si tratta della crema, quelli che non hanno studiato, non hanno lavorato, non hanno fatto niente. L’hanno chiamato impegno.

Forse è la crema, come dici tu, una vecchia élite studentesca, però ha condizionato un’intera generazione, creando un clima culturale duraturo.

Sì, certo, erano, e sono ancora, in perfetta sintonia con lo spirito dei tempi. Personalmente, però, ritengo che la dignità individuale non consista in quello che ci accomuna allo spirito dei tempi, piuttosto in quello che ce ne differenzia.

5 novembre 2003