Da Asterix ai Paninari, un immaginario generazionale

Dal mondo dei fumetti a quello reale, passando attraverso la storia, la letteratura, l’arte, il cinema, la musica. Ecco proposte alcune delle voci di “Fascisti immaginari”. 

Asterix: la ragione di chi ha torto

La vicenda, come sempre, è ambientata al tempo dell’Impero romano, quando la Francia era la Gallia e Parigi si chiamava Lutetia. Il protagonista è Asterix, un guerriero piccolo di statura ma estremamente coraggioso, intelligente e furbo, che porta con orgoglio due grossi baffoni biondi e ha in testa un piccolo elmo con due ali. Vive in un villaggio dell’Armonica ai bordi di una profonda foresta: la sua è l’unica comunità a insorgere coraggiosamente contro le legioni romane. […] “Succederà, un giorno o l’altro… Ma non domani”. Sì, perché la filosofia di fondo, nelle storie di Goscinny e Uderzo, è questa: anche se Asterix e i suoi amici non hanno il potere di sovvertire il corso della storia, tuttavia le loro battaglie vittoriose possono dare la sensazione di un mondo che corre meno velocemente e che preserva più a lungo la memoria e l’identità. E’ la filosofia che […] sottende una profonda critica alla visione unilaterale della storia, come quella che interpreta tutto dalla sola parte dei vincitori. La morale è chiara: la ragione potrebbe anche aver avuto torto… e pure gli sconfitti possono aver avuto la loro “parte” di ragione. E’ la storia vista dagli “sconfitti”: gli antichi celti, gli indiani d’America, i vandeani, i sanfedisti, i borbonici, i briganti, i sudisti… Asterix, quindi, come simbolo più popolare, sul piano dell’immaginario postmoderno, della “questione delle identità minacciate”. […] Andiamo forse aldilà delle stesse intenzioni di chi inventò la saga e di chi ancora la disegna, questi studiosi si sono detti tutti d’accordo sul fatto che i francesi vedano unanimemente rappresenta nell’icona di Asterix quell’identità storico-culturale che sentono minacciata dall’avanzata dell’egemonia anglosassone. […] Asterix, “l’ultimo mito francese”, aggiunge allora a tutta una serie di icone patriottiche che si sono consolidate negli ultimi due secoli: la monarchia, Giovanna D’Arco, Napoleone, l’epopea dell’Algérie française, il generale Charles De Gaulle. […] Insomma, è la Francia dell’eterno ritorno: è la Francia – è l’Europa – di Asterix, dove nonostante tutto la scena finale è sempre la stessa, con la comunità che banchetta attorno al fuoco all’insegna di un’imperturbabile fedeltà alle radici. Forse ha ragione Nietzsche: il futuro appartiene a chi ha la memoria più lontana”

Clint Eastwood: un eroe solitario all’orizzonte 

“Nei miei film – ha ammesso Eastwood – ho sempre amato evocare l’America profonda, che contiene tante storie che non sono state raccontate” . […] D’altra parte, il genere western è la saga popolare che riassume in modo più diretto, e talvolta rozzo, l’epos dell’Occidente. “Tutti noi siamo cresciuti con il western […] Quella era una società in cui la gente doveva affidarsi al proprio giudizio. Si faceva giustizia con le proprie mani. Una società in cui tutto era già stabilito, in cui i valori morali erano più limpidi, in cui i singoli individui potevano fare la differenza. Ora, siamo impantanati in una società burocratica in cui la più piccola disputa richiede avvocati e battaglie legali. La semplicità di quei tempi mi affascina ancora […], mi piace l’indivisualismo. Mi piacciono le persone che sono soprattutto individui”. Una precisa professione di fede nella libertà, la sua: “Sono un libertario. Amo l’indipendenza. Venero lo stato mentale di chi rimane indipendente, in politica e nella vita”. 
C’è anche chi ne fa un eroe alternativo ai miti intellettuali del Novecento. “Cerco il mio eroe tra gli attori miliardari americani e non nella galleria dei pensatori o filosofi. Clint e non Antonio Gramsci e Norberto Bobbio”, ha ammesso Giampiero Mughini, spiegando le ragioni della sua passione per Clint Eastwood: “La figura dell’eroe solitario, che affronta il male da solo e da solo lo combatte resta la figura moralmente più alta del nostro immaginario collettivo. Altre non ne vediamo all’orizzonte…”

Hugo Pratt e quei balilla che andarono a Salò

Ha dichiarato una volta il suo creatore Hugo Pratt: “Corto Maltese non morirà, se ne andrà quando capirà che in un mondo dove tutto è elettronico, tutto è calcolato, tutto è industrializzato e consumo, non c’è posto per un tipo come lui”. Un tipo davvero singolare. E’ nato a Malta il 10 luglio 1887 da un marinaio bretone e una zingara Andalusa, cartomante e indovina. Marinaio anche lui, sempre col berretto da capitano, orecchino da corsaro, cappotto dai bottoni dorati, basette corvine, immancabile cigarillo, un giorno Corto si è inciso da solo la linea del destino, che Amalia, una gitana amica di sua madre non gli aveva trovato sulla mano. “Non avevo la linea della fortuna. Mi sembrava una cosa orribile – racconta Corto in uno dei primi episodi della sua saga – e fu così che presi il rasoio di mio padre e me ne feci una lunga e profonda…”. Il vero avventuriero è artefice del proprio destino e quella ferita sulla mano ha segnato per sempre la vita da “anarca” jüngeriano di Corto Maltese: solitario, irregolare, nichilista, sempre alla ricerca di nuove terre da esplorare, di imprese da affrontare, di donne da conquistare. “Oltre la linea dell’orizzonte”, come spesso ama ripetere…

E io difendo Goldrake

In principio c’era Goldrake. Poi è stata la volta di Mazinga, Jeeg Robot, Gaiking, Teccamen, Capitan Harlock, Ken Falco, Lupin III, Ken il guerriero… Supereroi made in Japan […] Quei cartoni animati crearono una nuova mitologia generazionale. […] Un fenomeno, una moda, un caso nazionale: quei cartoni, infatti, riuscirono a dividere l’opinione pubblica e a finire addirittura in Parlamento pro o contro Goldrake&Co. Si schierarono psicologi, sociologi, educatori, giornalisti e uomini politici, a suon di anatemi pedagogici e, addirittura, di interpellanze parlamentari. […] In nome dei valori tradizionali, comunque, sarà soprattutto da destra che arriveranno le arringhe in favore degli Ufo Robot. […] E in quello stesso periodo anche lo storico Franco Cardini si lanciava in un’appassionata arringa – “E io difendo Mazinga” – in favore dei cartoni animati nipponici: “Ci si erge contro i robot giapponesi perché insegnano la violenza come se fossero gli unici a farlo, e come se quella che essi insegnano fosse la sola violenza possibile. E allora sorge il sospetto atroce che il discorso sia un altro. In realtà, non è la violenza ad essere paventata, bensì una visione del mondo differente da quella piccolo borghese basata sull’agnosticismo e sul relativismo etico caro all’Occidente. In Mazinga non si vuol colpire il violento robot, bensì il travestimento tecnologico e futurologico-fantascientifico di un ideale di giustizia: si vuol colpire un archetipo del quale i bambini hanno invece profondamente bisogno, il tipo umano e sacrale dell’eroe che lotta per difendere i deboli… Per fortuna i bambini ammirano la forza e il coraggio quando siano o sembrino loro al servizio della giustizia. Genitori democratici, sorvegliateli!”

Michel Houellebecq: dico tutta la verità, nient’altro che la verità

Un coltello affondato nel ventre molle delle società occidentali. Uno sguardo indagatore sul mondo di chi non ha fedi né punti fermi e si limita a pensare che “carabinieri e gendarmi siano il nuovo umanesimo”. Una radiografia dentro l’universo di chi non prende parte a nulla, non crede in niente, non è neanche lambito dalla storia, non ha memoria né speranze. Per questa sua azione spietata di critica sociale Michel Houellebecq è stato anche odiato. Ma lui non ha avuto altro scopo che dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. “Nei miei libri – ha confessato – non faccio altro che dire quanto anche gli altri pensano e provano, ma non hanno il coraggio di ammettere e dire. La verità è scandalosa, ma senza la verità non c’è nulla che abbia valore…”

Jan Palach bruciava, all’orizzonte del cielo di Praga

Quella sera del 16 gennaio 1969, quando si recò in Piazza San Venceslao, lo studente universitario Jan Palach poteva sembrare un giovane praghese come chissà quanti altri. In realtà, sotto il cappotto nascondeva una bottiglia piena di benzina. Giunto all’inizio della grande piazza, davanti al Museo, Jan si tolse lentamente il cappotto, si versò addosso tutta la benzina e si diede fuoco, senza neanche un grido. […] Quella stessa mattina sui portoni della facoltà di Filosofia, dove Jan studiava, venne trovata affissa una poesia anonima: “Le tue lacrime, Jan / le berremo fino in fondo / sono amare come il dolore / e bruciano come carbone ardente / Le tue lacrime, Jan / le berremo fino in fondo / per non dimenticare… / Il tuo martirio, Jan / lo urleremo a tutto il mondo / è la sua cattiva coscienza / e di notte non lo lascia dormire”. Un destino tragico, quello di Praga, forse evocato dal suo stesso nome. Che deriva, secondo l’etimologia, dall’ebraico “prag” o “pereg” e rimanda perciò a quel papavero che ha il potere di lenire il dolore attraverso l’oblio e il sogno. […] Anche a Praga – come per tutta Europa – la primavera del ’68 fu la stagione della speranza e di un sogno di libertà. […] Il volto migliore e più vero del ’68 e di tutta la contestazione giovanile ma anche una spontanea e sincera rivolta popolare e libertaria. Una rivolta le cui suggestioni conquistarono l’immaginario dei giovani “ribelli” di tutta Europa. […] Il mito di Jan Palach come eroe della nuova Europa, continuerà per tutti gli anni Settanta. Nel 1978 la “Compagnia dell’Anello”, uno dei gruppi della cosiddetta “musica alternativa”, inciderà un brano intitolato semplicemente Jan Palach: “Quanti fiori sul selciato / quante lacrime avete versato / quante lacrime avete versato / per Praga … E’ morto sotto i carri armati / il futuro che avete sognato / Nella gola ti hanno cacciato / le grida di un corpo straziato / Quanti fiori sul selciato / quante lacrime avete versato / per Jan Palach”.

Paninari: non solo look 

Tutto inizia al “Panino”, un bar di Milano nei pressi di piazza San Babila. E’ il primo sintomi, per dirla con Pisolini, dell’ennesima maturazione antropologica: quella incarnata dai giovani degli anni Ottanta. […] appena bambini ai tempi del rapimento Moro, cresciuti guardando Happy days e Goldrake, e giocando ai primi videogiochi, quei ragazzi erano infondo la prima generazione di italiani che aveva plasmato il proprio immaginario attraverso il video. E come ha cantato lo stesso Max Pezzali con gli 883, non lo dimenticheranno mai: “… gli anni d’oro del grande Real / gli anni di Happy days e di Ralph Malph / gli anni delle immense compagnie / gli anni dei Roy Rogers come jeans…”. Sensazioni, come ha sostenuto il sociologo Valerio Marchi, che radicano in quei ragazzi gli “stereotipi della cultura popolare americana”. E su tutto prevale il look. Esclusa dal popolo degli ex, la generazione dei paninari “si è proiettata completamente verso il futuro: quello degli anni Ottanta non è stato infatti riflusso, ma negazione, ripudio, rottura storica con il decennio precedente”. Una “rottura” che ha espresso anche una precisa valenza politica. […] e mentre la “faccia da paninaro” diventa anche un segno di riconoscibilità politica, ovunque in Italia rispuntano come funghi sia le croci celtiche che gli altri graffiti…

24 ottobre 2003