Apocalittici o liberali
di Eugenia Roccella

La fede nella scienza e nella razionalità può essere cieca quanto, e più, di quella in un Dio. E può fare più danni: se non altro perché, in Occidente, ormai da molto tempo siamo abituati a separare nettamente l’ambito delle certezze interiori e spirituali da quello del sapere scientifico, così come la sfera religiosa da quella civile. Nel primo dei film dedicati dal regista polacco Krzysztof Kieslowski al decalogo, un padre scienziato, dopo alcuni calcoli al computer, dà al figlio il permesso di andare a pattinare sul laghetto ghiacciato vicino casa, sicuro che la lastra di ghiaccio non si romperà. Invece, nonostante i calcoli siano perfettamente esatti, la lastra si rompe, il ragazzo muore, e il padre interroga disperato la macchina innocente, che testimonia la sua esistenza di oggetto inerte, lasciato lì, acceso, a ronzare tristemente.
 
“Non avrai altro Dio all’infuori di me”, recita il primo comandamento; e sarebbe prudente, soprattutto per chi si professa laico, applicare il laicismo non tanto ai contenuti quanto ai metodi, evitando di propagandare affermazioni apodittiche e sentenze senza appello quando non si tratta di scienze puramente astratte. L’atteggiamento fideistico, la tendenza a ideologizzare e assolutizzare le informazioni, segna il confine tra pensiero laico e laicista, tra un razionalismo pragmatico e aperto, e forme di giacobinismo intellettuale assai poco liberali. Se poi ci si occupa di previsioni e proiezioni, un esercizio critico privo di arroganza e alieno dalle tesi ultimative è d’obbligo. Non solo, infatti, si ha a che fare con dati empirici difficili da padroneggiare e interpretare, ma si rischia di sottovalutare alcuni processi in favore di altri, e di essere presi in contropiede dal veloce mutamento dei comportamenti umani, sempre, in qualche misura, sorprendenti. Spingendosi nei territori del futuro possibile, per forza di cose bisogna supporre come costanti condizioni che invece possono subire improvvise accelerazioni o arretramenti per motivi economici, politici, tecnologici: una scoperta scientifica che si traduce in tecnologia innovativa può cambiare in modo radicale e rapidissimo lo sviluppo di alcune situazioni. Le previsioni, inoltre, hanno un difetto: prima o poi se ne può stabilire l’attendibilità alla verifica dei fatti, controllando se si sono realizzate oppure no, esattamente come quelle che derivano da dottrine sociali e politiche. E, come abbiamo già sottolineato (Ideazione 5/2002), nessuna delle innumerevoli previsioni catastrofiche fatte dagli ambientalisti fin dagli anni Sessanta ha prodotto le devastanti conseguenze prospettate, come la fine delle risorse energetiche o l’insostenibile aumento del loro costo.

Per confutare questa e altre semplici constatazioni, rilanciando la tesi del rischio sovrappopopolazione, Giovanni Sartori ha voluto pubblicare addirittura un volumetto (“queste sciocchezze spiegano questo libro”, ha scritto nella prefazione, citando la nostra rivista), che noi siamo comunque lieti di avere ispirato. Aver fatto riferimento a opinioni autorevoli, ma in controtendenza rispetto alla vulgata ecologista, come quelle di Bjørn Lomborg, Franco Battaglia, Julian Simon, è stato sufficiente per farci definire “lietopensanti” a cui “il 2002 è andato maluccio”. Per la verità, proprio nei giorni in cui il libro del professor Sartori usciva, sui giornali si potevano leggere le ultime statistiche sulla popolazione mondiale, che esibivano sensibili flessioni d’incremento in molti Paesi in via di sviluppo, oltre all’ormai cronica, e preoccupante, denatalità occidentale. Potremmo dire che il 2003 ai catastrofisti della population bomb è andato maluccio, ma ci limitiamo a rimandare alla disamina dei dati illustrata da Nicholas Eberstadt, che offre un panorama esauriente, e soprattutto non ha la presunzione di trarre conclusioni universalmente valide né ricette impositive. Da studioso onesto e pragmatico, Eberstadt ammette che i motivi per cui la natalità tende a rallentare in Paesi così profondamente diversi tra di loro come quelli indicati, sono difficilmente riconducibili a cause unitarie e ben individuate.

Insomma, quando si esce fuori dal recinto delle scienze matematiche, o, come nella fisica, dalla possibilità di calcolare con una certa esattezza il proprio margine di errore e di tenerne conto, all’uomo di studio e di pensiero serve una piccola dose di umiltà. Il mondo della scienza non è una voce uniforme, un coro monolitico, ma un universo variegato da cui ci giungono informazioni spesso contraddittorie, parziali, poco decifrabili. Per anni ci è stato ripetuto che era in atto uno spaventoso processo di deforestazione su scala mondiale, che l’Amazzonia, polmone verde della terra, si stava riducendo sulla carta geografica a una chiazza isolata, che le mutazioni climatiche – il famoso effetto serra – avrebbero portato alla desertificazione del pianeta. Oggi uno studio condotto dalla Nasa e dal Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti sugli ultimi vent’anni dimostra che l’area verde sulla terra è aumentata del 6 per cento (una percentuale di tutto rispetto), che nelle zone aride è caduta più acqua, che la stessa foresta amazzonica è in ripresa. L’apocalisse ecologica, che avevamo definito “l’ultima delle grandi narrazioni del Novecento”, suscitando lo sdegno del professor Sartori, è prima di tutto un artificio retorico, con cui si trasforma un tema controverso in una prospettiva di devastazione accertata (“scientificamente” accertata), approfittando della golosità mediatica per gli scenari di sventura. Bisogna dire che gli ambientalisti hanno una notevole capacità linguistica e comunicativa, e azzeccano quasi sempre definizioni e slogan. Ogni volta che una previsione catastrofica si sgonfia, subito viene sostituita, senza mai dire come è finita la precedente; così, argomenti che hanno dominato il dibattito pubblico vengono silenziosamente lasciati cadere (il buco nell’ozono, per esempio) senza ulteriori spiegazioni. 

L’artificio apocalittico, quando utilizzato politicamente, richiede un’impostazione autoritaria. E' naturale che, in tempi di calamità o di guerra, un Paese si affidi all’uomo forte, al dittatore, al capo carismatico. Poche storie, poche discussioni: lo stato di pericolo grave giustifica restrizioni delle libertà, leggi speciali, un’azione di governo che si misuri sull’efficacia piuttosto che sui mezzi adottati. In questo modo un liberale, come sicuramente è Sartori, si può trasformare in un ammiratore del regime comunista cinese e dei suoi spicciativi ma efficienti sistemi per bloccare le nascite. 
Del resto, a che servono le libertà individuali quando la fine del mondo incombe, quando “la terra scoppia”? Non si può che convenirne: a poco. Ma forse un atteggiamento coerentemente liberale impedirebbe di arrivare a un dilemma così drasticamente posto, e a scegliere sotto la pressione dell’urgenza se collocarci tra gli apocalittici o i liberali. Per esempio, un costante esercizio del dubbio, la fiducia nell’uomo come risorsa, la diffidenza nei confronti delle politiche di piano e di controllo, ne siamo sicuri, potrebbero aiutare. 

26 settembre 2003

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)